Tag

training

Browsing

Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele TrevisaniIl potenziale umano. Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance”. Franco Angeli editore, Milano.

Esempio dell’addestramento dei Samurai

L’analisi degli atteggiamenti e comportamenti sul piano micro riguarda anche come il pensiero si formula prima e durante la prestazione.

Osserviamo alcune competenze proposte da Musashi nell’addestramento dei Samurai. Ciascuno di questi insegnamenti può essere disaggregato e trasformato in micro-competenza allenabile:

L’atteggiamento che si deve tenere nei confronti dell’Hejò (la via del Guerriero, n.d.a.) è lo stesso che si ha nella vita quotidiana, sia in tempo si pace che in guerra. Il vostro punto di vista deve essere il più vasto possibile quando esaminate la realtà intorno a voi. Siate sereni e non perdete le staffe. La mente deve mantenersi al centro e non fluttuare. Il vostro spirito deve essere saldo, non lasciatevi mai andare, neppure per un attimo. La vostra mente sia lucida, elastica, libera aperta.

Anche quando il vostro corpo riposa state sempre all’erta. Quando vi muovete rapidamente la mente deve rimanere distaccata, fredda, essa non deve essere soffocata dal corpo, né il corpo dalla mente. Affidatevi allo spirito e ignorate la materia.

[1] Musashi, Myamoto (1644), Il libro dei cinque anelli (Gorin No Sho), edizione italiana Mediterranee, Roma, 1985, ristampa 2005.

Ed ancora, in un passaggio successivo:

Colpire il nemico nella giusta frazione di tempo significa saper cogliere l’attimo in cui egli appare indeciso e sferrare il colpo senza muovere il vostro corpo, né alterare il vostro spirito.

Il momento esatto di colpire il nemico, prima che abbia deciso di indietreggiare, parare o assalire, è la “giusta frazione di tempo”.

Un vero professionista di coaching e formazione deve saper prendere questi temi e trasformali in training a livello micro, per poi ricomporre l’intero quadro e dare a tutte le fasi un senso d’insieme.

Altri materiali su Comunicazione, Coaching, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online:

Temi e Keywords dell’articolo:

  • modello
  • metodo HPM
  • visione
  • valori
  • potenziale umano
  • autorealizzazione
  • crescita personale
  • potenziale personale
  • crescita e sviluppo
  • aspirazioni
  • sogni
  • desideri
  • orientamento
  • viaggio interiore
  • scoperta di sè
  • introspezione
  • smart goals
  • microcompetenze cognitive
  • abilità mentali
  • analisi
  • atteggiamenti
  • musashi
  • samurai
  • training
  • Potenziale Umano Veneto
  • Mental Coach
  • Formazione aziendale
  • formazione assistenti sociali
  • formazione educatori
  • supervisione

Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele TrevisaniIl potenziale umano. Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance”. Franco Angeli editore, Milano.

Nella programmazione del training bioenergetico i fattori da considerare sono i seguenti:

  • stato organismico,
  • tools disponibili,
  • frequenza del training,
  • frazionamento,
  • durata,
  • intensità,
  • continuità.

Vediamo i seguenti punti in maggiore dettaglio.

Stato organismico, tools disponibili

 L’ana­lisi delle condizioni generali e momentanee dello stato organismico permette di evidenziare le priorità su cui intervenire.

L’analisi delle condizioni momentanee evidenzia i livelli di energia disponibili al momento del training, al fine di modularlo ed evitare sovraccarico o ipo-stimolazioni. Tools disponibili: La programmazione del training deve valutare gli strumenti disponibili, consistenti sia negli apparati fisici (attrezzi) che negli strumenti ambientali (set­ting, aule, sale, strutture, ambienti fisici quali mare, montagna, bosco, acque, attrezzi). In particolare per gli outdoor training, la disponibilità di aree naturali e strutture attrezzate deve essere attentamente progettata.

Frequenza del training

È necessario progettare la cadenza delle sessioni allenanti. La frequenza è determinata dall’intensità e dalle capacità di recupero. Sessioni molto intense richiedono frequenza allenante minore, maggiore dilatazione tra una sessione la successiva, per consentire tempi di recupero adeguati. Sessioni moderate possono richiedere invece tempi di recupero brevi e maggiore frequenza.

È da notare che per “training”, in campo organismico o bioenergetico, si intende un’attività fisica, mentre in termini di lifecoaching può essere training anche svolgere una attività non fisica ma mentale, o un training relazionale.

Frazionamento del training

Il frazionamento del training consiste nel dividere le sessioni in base a criteri, per far si che ogni sessione alleni specifiche aree o abilità, e l’intero organismo e le intere aree e abilità di interesse vengano ad essere allenate – area per area, abilità per abilità – con maggiore specificità e localizzazione.

È possibile allenare singoli distretti (esercizi di isolamento bioenergetico) o intere catene di distretti (esercizi a catena lunga). Il frazionamento consiste nella divisione del training in sessioni separate e dedicate a specifiche aree o distretti fisici, o a separate funzioni umane (es.: resistenza, forza, o in campo manageriale – decisione, ragionamento, logica, comunicazione, creatività).

In campo sportivo si possono creare frazionamenti in molti modi, ne esponiamo alcuni:

esercizi per la parte superiore vs. esercizi per la parte inferiore;

esercizi di trazione vs. esercizi di spinta;

esercizi lineari vs. esercizi angolari (tipo di movimento svolto);

esercizi a catena lunga (multi-articolari) vs. esercizi a catena singola (mo­no­-articolari);

esercizi singoli o a coppie;

esercizi di sollevamento vs. esercizi di percussione;

esercizi di forza vs. esercizi di abilità e coordinamento;

esercizi a prevalenza mentale vs. esercizi a prevalenza fisica;

esercizi sequenziali vs. esercizi in circuito (circuit training);

esercizi isometrici (tenere una posizione) vs. esercizi balistici (movimento);

… ogni altra forma di frazionamento efficace su base scientifica.

In campo manageriale possiamo frazionare il training organizzativo in molti modi, ad esempio:

esercitazioni a bassa difficoltà vs. esercizi ad alta difficoltà;

esercitazioni di ripasso o manutenzione vs. esercizi di nuova acquisizione;

esercitazioni creative vs. esercitazioni applicative;

esercitazioni individuali vs. esercitazioni di gruppo;

esercitazioni d’aula vs. esercizi outdoor;

esercitazioni in casi reali vs. simulazioni;

esercizi di apprendimento vs. esercizi di rimozione (unlearning)

training centrato sul sistema nervoso simpatico (attività di tipo agonistico, aggressivo, competitivo, ad alta tensione, under pressure) vs. training centrato sul sistema nervoso parasimpatico (attività di tipo rilassato, calmo, sereno, tranquillo, meditativo, low pressure).

La modalità di frazionamento e differenziazione tra attività che interessano il sistema nervoso simpatico (alta attivazione agonistica) vs. attività che interessano e stimolano prevalentemente il sistema nervoso parasimpatico (rilassamento e recupero), riguarda indistintamente il lavoro sul corpo così come la formazione relazionale e il coaching.

Nel metodo HPM viene utilizzata in particolare la “cartografia di Fisher”[1], una metodica poco nota, di frontiera, nata per mappare gli stati mentali, la percezione, sino agli stati alterati di coscienza (ASC – Altered States of Consciousness).

Si tratta di un’area di studi di alto interesse negli anni ‘60 e ‘70, oggi poco frequentata, ma assolutamente utile per localizzare i tipi di attivazione mentale. Questa scala è stata da noi ulteriormente rielaborata ed utilizzata su più fronti, per progettare training variati in termini di intensità e tipo di esperienza.

In generale, le tecniche di frazionamento servono per evitare la monotonia e la noia, ma anche la perdita di efficacia di una tecnica che derivano da una mancanza di varietà nel tipo di lavoro allenante svolto.

Permettono inoltre di creare tabelle allenanti e percorsi formativi basati su cicli allenanti, sequenze di input e stimoli, in cui le varie tipologie di esercizio o esercitazione vengono combinate nel tempo, dando luogo a maggiore varietà e maggiore efficacia.

Durata del training

La durata è un fattore soggettivo e non standardizzabile. Alcuni training manageriali hanno effetto operativo forte e significativo solo quando ci si dedica per una intera settimana ad un tema (es.: la negoziazione avanzata), così come si possono praticare micro-training di pochi minuti in un role-playing dedicato a preparare uno specifico incontro.

Anche sul piano fisico le durate sono variabili, da i ritiri di più settimane sino ai training di alta intensità e breve durata, in cui in un quarto d’ora l’organismo viene portato ad esaurimento (nello sport), o viene acquisita una micro-abilità molto localizzata.

Intensità del training e continuità

L’intensità riguarda il volume di lavoro nel tempo. Il fatto di racchiudere uno sforzo entro un tempo limitato, aumentando le necessità di attivazione dell’organismo, aumenta l’intensità. L’intensità può essere determinata dal tipo di esercizio, dalla riduzione dei tempi di recupero, dal grado di sovraccarico e di stress personale esperito durante il training.

La continuità richiede la progettazione di un ciclo di training in un arco temporale lungo. La continuità è uno dei fattori di maggiore successo nel training bioenergetico e manageriale, poiché gli effetti di condizionamento, supercompensazione, e incremento delle energie disponibili, sono cumulativi.

Altri materiali su Comunicazione, Coaching, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online:

Temi e Keywords dell’articolo:

  • modello
  • metodo HPM
  • visione
  • valori
  • potenziale umano
  • autorealizzazione
  • crescita personale
  • potenziale personale
  • crescita e sviluppo
  • aspirazioni
  • sogni
  • desideri
  • orientamento
  • viaggio interiore
  • scoperta di sè
  • introspezione
  • smart goals
  • programmazione
  • training
  • training bioenergetico
  • stato organismico
  • tools disponibili
  • frequenza del training
  • frazionamento
  • durata
  • intensità
  • continuità
  • Potenziale Umano Veneto
  • Mental Coach
  • Formazione aziendale
  • formazione assistenti sociali
  • formazione educatori
  • supervisione

[1] Fisher, Roland (1971), A Cartography of the Ecstatic and Meditative States, in: Science 26 November 1971: Vol. 174. no. 4012, pp. 897 – 904.

Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele TrevisaniIl potenziale umano. Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance”. Franco Angeli editore, Milano.

Quando lo sforzo e la fatica sono positivi per raggiungere un fine

La preparazione e il training necessari per ottenere crescita sono spesso accompagnati da sforzo fisico e fatica mentale.

Questo tipo di sforzo può arrivare anche a superare la soglia del dolore.

Nella concezione classica,  il rapporto fisiologico dell’uomo con il dolore è di evitazione, salvo i casi patologici di masochismo.

Chi affronta il dolore e la fatica volontariamente rientra nella sfera degli eroi, o dei martiri, o dei coraggiosi e impavidi.

Per il performer è utile differenziare il tipo di dolore utile dall’inutile, localizzare il dolore distruttivo da quello associato alla crescita.

Il dolore distruttivo è quello che danneggia ma non crea, il dolore gratuito, o un trauma, come lo strappo di un muscolo.

Il dolore costruttivo è quello che funziona da rito di passaggio, una sofferenza che accompagna una crescita, un dolore senza il quale non è raggiungibile un livello successivo.

Sono sofferenze coscienti, ad esempio, i ricordi dolorosi necessari per la rielaborazione difficile di un brano del proprio passato con il quale non erano stati fatti i conti, o sul piano fisico un dolore associato ad uno sforzo muscolare intenso ma praticato coscientemente, vissuto in fase di allenamento e di performance.

Osserviamo la seguente testimonianza sulle tecniche di intensità utilizzate dal pluricampione di bodybuilding Arnold Schwarzenegger:

… utilizzavo anche altre tecniche, per sfruttare ogni briciola di intensità e stimolare la crescita. A parte le ripetizioni forzate, eseguite con l’aiuto di un compagno, le mie tecniche preferite erano la contrazione di picco e quella che io definivo “azione di pompaggio”. La prima consiste semplicemente nel mantenere la posizione superiore di ogni ripetizione … per 3 -4 secondi prima di scendere. Si tratta di una tecnica molto dolorosa, ma io ho sempre goduto di quel bruciore, sapendo che mi avrebbe fatto crescere[1].

La carriera del campione del mondo di bodybuilding Schwarzenegger, la sua capacità di avere successo anche in campi diversi, persino in politica come Governatore della California, parte da uno scantinato del piccolo borgo in cui nasce, in Austria, antro nel quale egli si allenava anche d’inverno senza riscaldamento. Saper andare avanti anche nella fatica e senza molti comfort ha permesso di forgiare doti di resistenza e spessore morale elevati. Anche la sua carriera nell’industria cinematografica è da lui stesso attribuita alla capacità acquisita nello sport di lavorare intensamente e impegnarsi a fondo.

Alcuni momenti di sofferenza accompagnano il raggiungimento di un goal, mentre il dolore gratuito ed inutile come quello che si può soffrire da un dentista non è positivo, così come non lo è lo stress distruttivo, il continuo “stare nella fatica” senza tregue. Ma nemmeno fuggirla sempre è utile.

Molti atleti di picco citano il “piacere del dare tutto”, dal fare fatica, e lo associano al concetto di “svuotarsi” fisicamente e mentalmente in modo positivo, avviando una sorta di “pulizia” dalle scorie mentali e fisiche, resa possibile dalla totale concentrazione e dall’intensità. Uno svuotamento che lascia spazio ad uno stato di benessere successivo, riposo e recupero indispensabili, senza i quali la fatica precedente diventa solo dannosa.

Tutti sappiamo che la preparazione in qualsiasi campo richiede impegno e questo può anche diventare fatica, sforzo. La soglia tra utilizzo positivo del dolore e patologia sta proprio nel grado di consapevolezza: sapere di lavorare in condizione di dolore entro un range di dolore ragionato, con un criterio di crescita e con un programma positivo di sviluppo.

I migliori atleti utilizzano un trucco mentale: la trasformazione del dolore da troppo negativo a compagno di viaggio in un percorso di crescita. In alcuni ambiti, la sua assenza diventa utile anche per segnalare la mancanza di un impegno allenante sufficiente e consistente.


[1] Schwarzenegger, A. (2007), I primi 60 anni, Muscle and Fitness.

Osserviamo questa testimonianza su Dean Karnazes, specialista in ultramaratone. Ad oltre 40 anni ha stabilito record quali la corsa ininterrotta per 80 ore percorrendo 563 km, e la sfida di resistenza denominata North Face Endurance, consistente nel correre una maratona al giorno per 50 giorni, qualcosa di disumano anche per corridori professionisti.

(Intervistatore): Che rapporto ha col dolore fisico?

(Karnazes): Ho imparato ad accettarlo. In genere nessuno cerca il dolore, tutti vogliono la felicità, la comodità. Nella cultura occidentale il dolore viene spesso associato a qualcosa di negativo. Nell’ultramaratona il dolore ti accompagna sempre, è una sfida da superare, ma che ti fa sentire vivo[1].

[1] Aiello, E. (2007), Dean Karnazes, Sport Week, la Gazzetta dello Sport, 1 /09/2007, p. 28

Osserviamo anche in questo passaggio una trasformazione completa della percezione, una Gestalt Switch (salto di paradigma): dal dolore come punizione al dolore associato ad un momento di crescita, come risorsa.

Karnazes cita tra i propri fattori di motivazione la scomparsa della sorella Pary, deceduta a 18 anni, e gli insegnamenti del padre “che mi ha insegnato a vedere lo sport come un modo per dare il meglio di me stesso”, o messaggi formativi di imprinting ricevuti da preparatori, come il coach Cummings “il coach di cross all’epoca delle scuole superiori mi ha inculcato una regola: non correre con le gambe, corri con il cuore”.

In generale, i motori psicologici che producono impegno morale sono diversi, dalla sfida con se stessi alla ricerca interiore, possono includere potenti messaggi genitoriali, sino al riscatto psicologico o la promessa d’onore.

In ogni caso, numerose persone sono sottoposte a stimolazioni psicologiche forti ma non tutte (anzi pochissime) compiono le elaborazioni mentali interiori che li portano a utilizzare correttamente questi stimoli. L’individuo e le sue scelte, la sua volontà, al di la dell’ambiente e degli stimoli, giocano un ruolo cruciale.

Il messaggio che vogliamo lanciare qui è complesso:

non è bene accettare la fatica come condizione esistenziale permanente, è  distruttivo, soffrire per soffrire non è il fine dell’umanità;

è bene accettare anche con gioia momenti o periodi di sforzo, anche inten­so, e fatica correlata, per raggiungere un certo fine;

la fatica va realizzata con grande consapevolezza delle proprie risorse (self-monitoring), con tempi e modalità di recupero adeguati. Solo con que­ste attenzioni si potrà utilizzare  la fatica come alleata, senza che essa distrugga chi la affronta spesso e a dosi elevate senza recupero.

Altri materiali su Comunicazione, Coaching, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online:

Temi e Keywords dell’articolo:

  • modello
  • metodo HPM
  • visione
  • valori
  • potenziale umano
  • autorealizzazione
  • crescita personale
  • potenziale personale
  • crescita e sviluppo
  • aspirazioni
  • sogni
  • desideri
  • orientamento
  • viaggio interiore
  • scoperta di sè
  • introspezione
  • smart goals
  • percezione dello sforzo
  • dolore
  • dolore distruttivo
  • dolore di crescita
  • preparazione
  • training
  • soglia del dolore
  • rito di passaggio
  • resistenza
  • spessore morale
  • rilascio energetico
  • imprinting
  • self-monitorig
  • fatica
  • Potenziale Umano Veneto
  • Mental Coach
  • Formazione aziendale
  • formazione assistenti sociali
  • formazione educatori
  • supervisione

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Il Valore Totale Percepito

Uno dei passaggi più critici nella preparazione negoziale è comprendere come si forma il possibile valore totale percepito (VTP), sommatoria di vari segmenti di valore (SV).

Il valore percepito, nel metodo ALM, viene considerato come una sommatoria di credenze positive, che si addizionano nella mente dell’acquirente mentre valuta le proposte o condizioni. 

Le caratteristiche distintive dell’offerta sono una combinazione di segmenti di valore che formano il valore complessivo. Ad esempio, un’impresa chimica che negozia una gomma speciale fonoassorbente con un produttore di auto, può creare valore percepito adducendo:

  • il valore dell’unicità: essere i primi a disporre di tale tecnologia;
  • il valore della rapidità: essere tra i pochi a poter consegnare il prodotto in tempo per il lancio dei nuovi modelli di auto sui quali si potrebbe applicare;
  • il valore della ricerca e sviluppo: poter realizzare varianti su richiesta della ditta costruttrice, a seconda delle aree di utilizzo (assorbimento del rumore degli interni, del motore, etc.);
  • il valore dell’affidabilità: dare garanzie di poter consegnare i volumi previsti poiché si è produttori diretti e non semplici distributori del prodotto;
  • … altri valori identificabili da una analisi accurata.

La sommatoria di tali valori potenziali o segmenti di valore (SV) crea il valore percepibile totale. Il valore “percepibile” non verrà però colto nella realtà, se non si crea una comunicazione adeguata. 

Soprattutto, ciascuna caratteristica dell’offerta diventa valore solo ed unicamente se la diagnosi è adeguata. In caso contrario, l’informazione che non tocca la mappa mentale del cliente passa da valore a rumore (noise).

Principio 6 – Valore Totale Percepito (VPT) come sommatoria di Segmenti di Valore (SV)

Il successo della negoziazione dipende:

  • dal valore totale percepito nella controparte rispetto alla nostra identità e alle nostre possibilità di intervento;
  • dalla capacità di costruire, far emergere ed essere consapevoli dei Segmenti di Valore (SV) che compongono la propria offerta;
  • dalla capacità di trasferire i SV all’interlocutore durante la comunicazione;
  • dalla capacità di creare fitting (adattamento, centratura) tra i segmenti di valore offerti e i bisogni della controparte che emergono dalla diagnosi.

Il negoziatore dovrà quindi essere estremamente attento a testare il grado di fitting tra i Segmenti di Valore proposti (ciò che propone) e ciò che nella mente del cliente è realmente importante, centrando le Key Variables (variabili valutative critiche).

Ogni acquirente utilizza variabili critiche (Key Variables) che influenzano il processo decisionale:

il prodotto osservato viene comparato con un’immagine mentale del prodotto ideale, e con altri possibili prodotti. L’azienda consapevole dei processi mentali del cliente sa investire nelle variabili più “pesanti”, quelle che producono effetti e non dà priorità a variabili che il consumatore non utilizza o utilizza poco nelle proprie scelte.

Lo sviluppo di una linea d’azione di successo

Alcuni dei macro-errori della negoziazione:

  • mancata conoscenza dei valori condivisi e analisi delle divergenze valoriali: impostare un rapporto senza una adeguata e reciproca conoscenza delle rispettive missioni e valori condivisi;
  • tenere attivi dei fraintendimenti e non affrontarli subito: non è possibile fare affari solamente con soggetti o aziende delle quali si condividono tutti i valori e la missione. Capita spesso, anzi, di trattare con persone o imprese che non dispongono di una precisa visione. Tuttavia ciò va considerato in quanto fonte di possibili fraintendimenti rispetto agli obiettivi finali del progetto e alle modalità di svolgimento, i quali – senza un esame rapido, possono dare luogo ad aspettative contrastanti e divergenti;
  • dare per scontati i modelli mentali del cliente: pensare che “sicuramente il suo ragionamento è…”, senza testarlo nella realtà;
  • mancata pianificazione di percorsi alternativi: lanciarsi in una Action Line senza avere esplorato le alternative;
  • mancata definizione dei possibili ostacoli di percorso e trappole (Traps);
  • mancata preparazione e test della negoziazione (training sulle Action Lines attuato tramite giochi di ruolo, Role Playing);

Per realizzare una Action Line di successo è necessario:

  • essere consapevoli della propria missione, del proprio valore, della propria distintività;
  • essere consapevoli e comunicare tutti i singoli segmenti di valore che formano il Valore Totale Percepito;
  • definire il punto di partenza e l’obiettivo da raggiungere o punto di arrivo (goal setting negoziale), ciò che vorremmo, i nostri punti di arrivo, chiarire ciò che ci renderebbe orgogliosi come risultato raggiunto;
  • definire diversi percorsi alternativi per raggiungere l’obiettivo o goal (con un minimo suggerito di tre alternative);
  • valutare i pro e contro delle alternative;
  • sperimentare il percorso scelto alla ricerca di Traps e possibili Breakdown;
  • scegliere la linea che massimizza il risultato ricercato (valutando sia il costo economico che organizzativo).

La linea di azione comunicativa

La linea di azione comunicativa si compone di una serie di “mosse relazionali” che ci avvicinano alla meta, verso l’effetto ricercato. 

Ogni comportamento è un messaggio. È messaggio un ritardo nel rispondere o la prontezza nel rispondere, è messaggio una comunicazione aperta o una comunicazione criptica, così come il tono adirato o conciliante, o la cura dell’impaginazione di una lettera o di una email, o la sua trascuratezza.

Le persone e i clienti traggono informazione da tutto.

Per questo, la linea di azione comunicativa deve presidiare ogni fronte dal quale il cliente ricava messaggi e formula la sua immagine e le sue decisioni.

La linea di azione richiede inoltre studio ed analisi. Include soprattutto la ricerca di informazioni sugli interlocutori, sui reali potenziali di business, sui bisogni manifesti e latenti, e sulle leve di valore che maggiormente possono essere efficaci. 

Ogni negoziazione comprende una componente di seduzione e persuasione.

Come osserva un classico della seduzione:

La cortigiana dovrebbe dapprima inviare i massaggiatori, i cantanti e i giocolieri che eventualmente siano al suo servizio o, mancando questi, i Pithamardas ovvero confidenti e altri, a indagare sui sentimenti dell’uomo e sul suo stato d’animo. Per mezzo di tali persone, la cortigiana si accerterà se l’uomo è puro o impuro, se è amabile o meno, capace di attaccamento o indifferente, generoso o gretto;[1]

Ogni negoziazione, al di la della metafora provocatoria, contiene elementi di somiglianza e similarità con un corteggiamento, o con un matrimonio o fidanzamento. Con chi ci stiamo fidanzando? Chi sono le persone con cui stiamo trattando? Che carattere hanno? Che storia hanno? Cosa vogliono realmente? Di cosa hanno bisogno adesso?

Quando sia appurata la qualità potenziale dell’interlocutore, la gestione della comunicazione deve dare dimostrazioni di interesse così come la seduzione crea un rapporto tra due controparti.

Regole stereotipate e linee di azione ragionate

La tentazione di ricorrere a regole preconfezionate, nella negoziazione, è grande.

Sarebbe molto bello poter dire “quando parli con un Cinese, fai…, quando invece sei in America Latina fai x non fare y, e vedrai che il successo è garantito…”

Le regole comportamentali rigide rifiutano di prendere in considerazione la realtà dell’imprinting (matrice) culturale, la varietà di personalità, il lato emotivo dei soggetti e la loro identità multipla: un cinese può avere lavorato per multinazionali americane ed avere maggiore cultura di business anglosassone di un americano del midwest, può essere adirato o felice, può avere avuto esperienze positive o negative in passato con persone della nostra nazione, e questo non lo possiamo né sapere a priori né stereotipare.

Nessuna regola vale per sempre e con tutti.

Le regole stereotipate possono andare bene solo in una società non globalizzata. Oggi i mix culturali producono una multi-stratificazione di culture in ogni individuo che ha contatti con altre culture, per cui non è più possibile dare regole comportamentali certe. Quello che serve è un approccio flessibile, che tenga conto della realtà incontrata e non degli stereotipi, poiché nella negoziazione non esistono regole culturali assolute.

Le realtà che si possono incontrare sono le più diverse, e, come accennato, il grado di varianza intra-culturale non è minore di quello inter-culturale. 

Le poche regole certe devono essere quelle di:

(1) disporre di una “minima condotta efficace trans-culturale, o minimo comune denominatore del comportamento negoziale cross-culturale”, un approccio di qualità conversazionale che possiamo pensare di poter applicare ovunque, es: non interrompere inopportunamente, non offendere la “faccia” e immagine altrui, non esporsi con affermazioni pericolose in campo valoriale e religioso, cercare di capire gli interessi della controparte, e 

(2) conoscere le poche basi culturali generali dell’area geografica o merceologica ove si opera: il background culturale probabilistico che si potrà incontrare, le regole probabili (e sottolineiamo probabili, non certe) che vigono in una certa cultura geografica, etnica o professionale – anche queste da prendere con le pinze.

Occorre cambiare paradigma, passare dalle regolette certe alla flessibilità del comunicatore, occorre un cambiamento di atteggiamento.

Soppesando i pro ed i contro di diverse opzioni di contenuto, è necessario giungere alla definizione di quale messaggio dia la maggiore probabilità di successo.

Probabilità e non certezza. 

Dobbiamo quindi studiare la linea di azione con i minori ritorni negativi latenti, prevedere e anticipare i rischi di effetto boomerang.

Se siamo invitati da un commerciante arabo nella sua casa, spetta a noi capire, inquadrare (attività di framing) se sembra essere una famiglia tradizionalista, ortodossa, integralista, o informale o ancora dove e quanto ha studiato questo commerciante, che potrebbe non avere istruzione formale o avere invece due lauree prese a New York o Sidney. Solo applicando un atteggiamento di apertura ed ascolto possiamo interagire efficacemente.

La produzione di una linea di azione comunicativa non può ricorrere a stereotipi (es: “se sei attaccato, contrattacca”) e non avviene per pura intuizione creativa: essa è frutto di studio, di confronto, consultazione, scambio di pareri tra colleghi e tra colleghi e consulenti. 

Richiede ricerca, esplorazione di opzioni, valutazioni di fattibilità e anticipazione degli effetti. Richiede, in altre parole, l’umiltà del negoziatore professionale, che è sempre proteso a testare le proprie strategie e mosse, pronto con umiltà a confrontarsi con colleghi e consulenti sulla loro possibile efficacia, prima di lanciarsi nell’azione ciecamente seguendo stereotipi. 

Questa umiltà rappresenta il vero fattore distintivo del negoziatore professionale rispetto al “negoziatore rampante” :

  • distingue il prototipo del negoziatore arrogante che pensa di avere sempre ragione e usa stereotipi, da chi si siede ad un tavolo per analizzare e costruire qualcosa;
  • distingue chi si fa forte di leve contrattuali (potere, denaro, legislazioni, politica) da chi ricerca realmente un approccio win-win, di vantaggi reciproci;
  • distingue chi ritiene che il successo sia sempre dovuto e venga in tasca automaticamente, da chi pensa di dover costruire attivamente il proprio successo;
  • distingue chi si scava lentamente la sua fossa, da chi crea qualcosa per gli altri e non solo per se stesso.

Per costruire Action Lines di successo, è quindi necessario il confronto, concretizzato tramite diverse sessioni di brainstorming e di role-playing nelle quali esporre e testare le possibili linee di azione comunicative, per poi scegliere la linea a maggiore probabilità di riuscita.

Struttura delle linee di azione

Ciascuna linea di azione è suddivisibile in Steps, fasi temporali durante le quali si articola il processo di comunicazione. L’insieme dei passi attuati costituisce il percorso della linea di azione (Path). Ogni step prevede diverse comunicazioni, che vanno sottoposte ad esame e prova tramite role-playing (simulazione) o expert review (valutazione da parte di esperti).

Una Action Line Analysis (ALA) si può definire come l’analisi comparativa di una serie di tattiche alternative per il raggiungimento di un obiettivo. 

I fattori strutturali caratterizzanti una ALA sono (a) il numero di linee di azione comparate, e (b) il numero di steps per ciascuna linea.

Per ogni linea devono essere determinate le possibilità di successo, gli errori e trappole (traps), la fattibilità pratica, le ripercussioni sull’immagine di chi la metterà in pratica.

L’importanza della message strategy è la scelta accurata di una linea comunicativa che associ il messaggio a concetti mentali desiderati. Nel costruire una strategia del messaggio, dovremo anche fare attenzione ad associazioni che possano inquinare il marchio e il comunicatore con immagini mentali negative. 

Ogni parola emessa elicita (fa scaturire) costrutti mentali che sono contigui ad essa.

Le scienze cognitive hanno evidenziato che i messaggi non sono recepiti in modo isolato, ma si inseriscono sempre in una mappa mentale del soggetto, una mappa che associa il messaggio a concetti e immagini mentali. 

Per esprimere tale concetto, Shaw e Gaines fanno riferimento al concetto di “Geometria dello Spazio Psicologico”[2] espresso da Kelly (Psicologia dei costrutti personali): ogni messaggio si inserisce in spazi mentali e si associa alle aree contigue.

La message strategy richiede consapevolezza che ogni messaggio aziendale, ogni comportamento comunicativo della linea d’azione, produce immagini evocate, le quali creano un’anticipazione di eventi futuri nei nostri interlocutori (“come sarà lavorare con questa azienda?”) e attribuzioni di significati agli eventi stessi (“perché avranno detto questo?” “se si comportano così ora, cosa faranno dopo?”).

Trappole e problemi della negoziazione

Una delle caratteristiche della negoziazione interculturale è quella di non sapere bene con chi si sta trattando, a meno che non si tratti di noti marchi multinazionali. E anche nel caso di marchi noti, i ruoli possono essere talmente vari da richiedere un approfondimento.

Anche in questo caso, quindi, una dose di attività di analisi rimane fondamentale. Nella negoziazione si aprono numerosi rischi – solo per citarne alcuni – divulgando notizie ad interlocutori non noti, ma anche realizzare gratuitamente lavoro e attività che in altre situazioni andrebbero pagate.

Due riflessioni fondamentali sulla comunicazione.

La prima riguarda come i messaggi che lanciamo o che gli altri lanciano rafforzano o distruggono la sensazione di fiducia. I messaggi e le corrispondenze che noi inviamo o gli altri inviano contengono sempre elementi che possono creare credibilità (segnali di credibilità o credibility cues) così come possibili segnali che mettono in allerta e denotano caduta di credibilità (segnali che producono sfiducia o distrust cues).

La seconda riguarda l’appropriatezza del canale comunicativo. Uno dei suggerimenti più importanti del metodo action line, sul fronte negoziale, è quello di considerare attentamente l’economia della comunicazione, l’appropriatezza dei canali comunicativi rispetto al risultato che vogliamo raggiungere. Si può informare qualcuno con un SMS ma non certo negoziare tramite SMS.

Ogni canale informativo ha un costo comunicativo (alto o basso, in funzione del tempo o risorse necessarie) e una portata informativa (alta o bassa).

La comunicazione interpersonale, faccia a faccia, ha un alto costo relazionale, di tempo, e richiede impegno logistico elevato (bisogna spostarsi, trovarsi fisicamente nello stesso luogo alla stessa ora), ma possiede una enorme portata informativa: possiamo comunicare con tutto il corpo, con il body language, con i canali visivi, non verbali, emotivi, e ogni altro canale umano. Una email, al contrario, è un esempio di canale comunicativo di basso costo (temporale ed economico), ma di ridotta portata informativa reale. È difficile scambiare realmente emozioni o decodificare la controparte, partendo solo da un testo scritto.

Il metodo ALM invita quindi a porsi diverse domande sulla appropriatezza del canale rispetto al task (compito) da svolgere. Le domande chiave:

  • il canale che intendo utilizzare è adeguato al tipo di messaggio?
  • devo inviare solo flussi di informazione o devo anche chiederne?
  • i tipi di dati da trasferire sono solo tecnici (es: informazioni di prodotto, servizi, prezzi) o anche relazionali (comunicare per conoscersi, verifica di affidabilità, incremento della conoscenza reciproca, affiatamento relazionale)?
  • serve un dialogo interattivo o è sufficiente un ping-pong comunicativo?
  • che tempi ho a disposizione?
  • cosa rischio se sbaglio canale informativo?
  • che cosa mi permette di fare il canale che ho scelto?
  • che cosa non mi permette di fare? Quali sono i suoi limiti?

[1] Kamasutra, p. 152, 153. Edizione Mondadori, 1977, Milano.

[2] Shaw, M.L.G, e Gaines, B.R. (1992).”Kelly’s “Geometry of Psychological Space” and its Significance for Cognitive Modeling”. The New Psychologist, Oct. 1992, pp. 23-31.

Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Analisi del processo di marketing per la vendita

Possiamo distinguere le fasi principali in tre livelli sequenziali:

  • fase della strategia di marketing;
  • fase della strategia di contatto (personal selling); 
  • fase della strategia di fidelizzazione e sviluppo della relazione.

Le tre fasi sono accompagnate da momenti trasversali quali:

  • attività di fissazione e sviluppo della leadership e people management;
  • attività di training e coaching per lo sviluppo del venditore consulenziale;
  • attività di monitoraggio dei risultati, dei comportamenti ed atteggiamenti.

I punti salienti del piano di sviluppo-cliente sono : 

Fase di pre-contatto – Strategie di Marketing :

  • la segmentazione del mercato (capire gli “strati” e tipologie di clienti esistenti),
  • la scelta dei segmenti di mercato su cui operare,
  • la selezione di specifici prospects (clienti ad alto tasso di interesse),
  • lo scouting di tali clienti (ricercare, identificare),
  • l’analisi del tipo di priorità da dare ai diversi prospects.

Fase di contatto e vendita:

  • i primi contatti personali o mediati, nei quali superare le barriere in ingresso e iniziare a costruire la fiducia, sia interpersonale che aziendale;
  • le fasi empatiche, di analisi e ascolto della situazione del cliente,
  • lo sviluppo di una attività consulenziale e migliorativa dal punto di vista delle forniture di cui dispone,
  • la ricerca di soluzioni (Solutions Selling) su cui chiudere e concludere una trattativa.

Fase di post-vendita – Sviluppo personale :

  • il consolidamento del cliente,
  • il cross-selling (ampliamento del tipo di prodotti),
  • assicurarsi che sia soddisfatto, sino a portarlo ad essere un nostro sostenitore e partner vero.

La vendita consulenziale si differenzia dalla vendita tradizionale per l’alto grado di valore aggiunto generato dal venditore stesso. 

Il valore aggiunto consiste soprattutto:

  • nella localizzazione dei segmenti di mercato su cui agire;
  • nelle scelte di posizionamento: come vogliamo posizionarci e differenziarci rispetto ai tanti competitor?
  • nella capacità di ascolto praticato dal venditore nei riguardi del cliente, 
  • nella ricerca di soluzioni personalizzate, frutto di negoziazione;
  • nella consulenza d’acquisto;
  • nel contributo culturale che si porta al cliente;
  • nel problem-solving e post-vendita, in grado di portare il cliente dallo stato di cliente occasionale a cliente fidelizzato e sostenitore.

Il consulente offre al cliente aiuto con la propria attenzione focalizzata

La vendita consulenziale parte dalla volontà del venditore di divenire partecipe di un processo evolutivo del cliente, configurandosi quindi come una forma di consulenza di processo.

La vendita consulenziale si inserisce all’interno di una filosofia di marketing aziendale “centrata sul cliente”.

Come evidenzia Kotler:

Il concetto di marketing è emerso a metà degli anni ’50 e ha messo a dura prova i concetti precedenti. Invece di adottare una filosofia centrata sul prodotto, “produci-e-vendi”, si adotta una filosofia centrata sul cliente, “ascolta-e-rispondi”.[1]

Per poter dare concretezza a questa filosofia servono però venditori consulenziali all’altezza del compito e leader preparati.

I principi del CVBU : Caratteristiche, Vantaggi, Benefici, Unicità

I principi di marketing per la vendita consulenziale:

  1. dare priorità alla ricerca di una soluzione efficace e positiva per il cliente (vendita consulenziale);
  2. costruire piani di vendita strutturata anziché azioni di vendita “alla giornata”;
  3. agire tramite campagne anziché con azioni spot;
  4. formare i venditori e sviluppare il loro potenziale;
  5. assicurarsi che i venditori dispongano di una conoscenza perfetta delle reali motivazioni di valore su ogni elemento del value mix: quali sono le caratteristiche, i vantaggi, i benefici, le eventuali unicità (CVBU), della nostra offerta e come queste si declinano per il singolo cliente.

L’analisi CVBU si applica non solo al prodotto ma all’intero marketing mix, includendo almeno CVBU del prodotto/servizio, del pricing, della distribuzione e della comunicazione/informazione.

Al centro di ogni analisi CVBU si colloca il potenziale cliente. Nessun ciclo CVBU può svolgersi in astratto: la percezione di valore ha luogo solamente nella mente del cliente.

I cinque punti primari per inquadrare le attività di vendita

Secondo la metodologia dell’Action Line Management (ALM) va posta attenzione:

  1. agli scenari: cosa succede nella domanda, nella concorrenza, nelle tecnologie, in che ambiente mi muovo?
  2. alla missione e alla consapevolezza dei suoi confini (analisi esistenziale, domande esistenziali): a chi diamo risposte, chi siamo, cosa facciamo realmente, cosa un cliente deve sapere di noi, perché non serviamo alcuni clienti, chi serviamo e chi no, dove si collocano esattamente i confini della nostra missione; all’organizzazione: come ci organizziamo per dare corpo alla missione e alla nostra visione/aspirazioni;
  3. al marketing mix / value mix: consapevolezze dei prodotti/servizi, delle loro caratteristiche, e del valore intrinseco posseduto;
  4. alle linee di azione e tattiche personalizzate: come declinare la strategia cliente per cliente, quali “strategie di interazione” adottare;
  5. al front-line, ai momenti di contatto di ogni natura, ogni momento della verità in cui il sistema azienda impatta il cliente (e non solo il cliente, anche fornitori e altri portatori di interessi);

La visita mirata all’interno di un’azione commerciale

Una visita mirata si differenzia da una visita generica in base al grado di preparazione precedente la visita stessa. 

In una visita mirata, sono stati già esplorati a priori i possibili problemi, le possibili obiezioni primarie, gli ostacoli prevalenti alla conclusione di vendita. 

In una visita mirata, il venditore è pienamente consapevole del “cosa sto entrando a fare”, distinguendo tra:

  • valutare se esistono spazi per…
  • valutare se esistono le condizioni per…
  • approfondire la situazione del cliente riguardo ….
  • concludere una negoziazione avviata entro …
  • capire la serietà del cliente e le intenzioni reali di acquisto, offrendo le seguenti alternative e scadenze…

Una visita mirata si prefigge di comprendere lo scenario del cliente aggiungendo dati e informazioni a quelle già disponibili, per poi poter puntare ad una conclusione consulenziale favorevole, che riduca i costi psicologici di acquisto e faccia leva sugli aspetti motivazionali del bisogno sottostante del cliente.

Rendere mirata una visita significa quindi:

  • anticipare gli scenari aziendali e psicologici che possiamo fronteggiare: studiare il sistema-cliente prima di entrare, sulla base dei dati disponibili;
  • chiedersi quali dati servono ancora per poter offrire una soluzione realmente consulenziale (Information Gap Analysis), e preparare una scaletta di informazioni e punti di interesse da approfondire con il cliente stesso;
  • anticipare i livelli di possibile bisogno;
  • posizionare una tipologia di fornitura desiderata (target negoziale strategico): es: distinguere tra diventare fornitori ufficiali, fare un ordinativo di prova, e altri tipi di relazioni commerciali;
  • dare ampio spazio ai momenti di ascolto del cliente;
  • entrare soprattutto per ascoltare, dare enfasi alla fase di analisi ed ascolto.
  • concludere su ipotesi di possibile interesse e soppesare con il cliente valore differenziale di ciascuna;
  • porre il cliente di fronte alla responsabilità di prendere una decisione.

La partnership strategica e il comakership (fare assieme)

Lo sforzo consulenziale viene premiato non tanto da una singola vendita ma soprattutto dalla capacità di ingresso nel sistema cliente.

Una partnership strategica è l’obiettivo sottostante la vendita consulenziale.

La partnership strategica è caratterizzata da:

  • rapporto intenso,
  • co-progettazione,
  • ricerca e sviluppo svolta su ambiti di interesse comune (Joint Research & Development),
  • contatti frequenti,
  • studi congiunti sul mercato di destinazione.

La forza contrattuale e negoziale

La negoziazione competitiva richiede la creazione di forza contrattuale. 

La forza contrattuale dipende dal livello di unicità dell’offerta (o dalla mancanza di alternative valide o succedanee) e dal livello di bisogno esistente nella controparte, mediati dalle abilità comunicative.

Le competenze negoziali competitive richiedono training alla negoziazione e alla gestione delle mosse strategiche dell’interazione. 

In particolare, il training deve focalizzarsi :

  • sulla capacità di analisi dei segnali non verbali,
  • sul controllo dei propri segnali,
  • sugli stili comunicativi verbali,
  • sull’analisi transazionale del dialogo (AT),
  • sulle tecniche di convergenza verso il risultato e di gestione strategica dell’obiezione. 

Le tecniche negoziale divengono ancora più complesse quando le trattative avvengono tra gruppi (es.: gruppi di acquisto contro gruppi di vendita) poiché la dimensione comunicativa si allarga, richiedendo competenze nell’affiatamento tra i partner e coordinamento nelle mosse dell’interazione tra i membri dell’equipe[2]. Gestire la trattativa richiede preparazione e role-playing. Una singola parola può rovinare un incontro.

Principio 2 – Del potere contrattuale e negoziale

Il vantaggio competitivo dipende dalla forza contrattuale nella trattativa.

Per il venditore o proponente, la forza dipende:

  1. dall’unicità dell’offerta: un’offerta non comparabile con altre offerte ha più valore;
  2. dalla mancanza di alternative presenti o creabili : l’impossibilità di trovare con ragionevole sforzo soddisfazione altrove;
  3. dalla mancanza di beni succedanei (beni diversi che possono svolgere una funzione simile, es: treno al posto dell’aereo);
  4. dall’impellenza del bisogno nel destinatario: un bisogno importante genera minori freni e incertezze;
  5. dal prestigio di cui gode il proponente: un proponente credibile e prestigioso crea minori barriere legate alla valutazione a priori del partner;
  6. dalla forza dei fattori oggettivi dell’offerta: le caratteristiche della prestazione – la sua tecnologia, il servizio reale.

Ciascuna di queste leve anche se presente in misura elevata non si dispiega automaticamente ma richiede abilità di valorizzazione e comunicazione.

Il dispiego ottimale della forza contrattuale (per chi offre) si correla positivamente con il livello di competenze comunicative specifiche del negoziatore (abilità negoziale del venditore) e negativamente con le competenze dell’acquirente (abilità del buyer).

Possiamo riassumere i punti salienti di una strategia negoziale individuando tre specifiche Macro-fasi:

Fase di preparazione : Briefing, analisi a priori Role-playing, preparazione delle action lines

Fase di contatto : Ricerca dei canali di ingresso, Face-to-face, Mediato

Fase di debriefing : Debriefing osservazionale (dati+emozioni), Debriefing strategico

Tutte le fasi evidenziate sono critiche, e per ciascuna esistono strumenti e metodologie appropriate. 

La nostra attenzione sarà dedicata alla fase di contatto front-line, utilizzando soprattutto alcuni spunti metodologici offerti dalla Conversation Analysis (CA), o Analisi della conversazione (AC). 

Al centro di tutto, nel contatto umano, si colloca la capacità di ascolto, senza la quali gli sforzi precedenti per “entrare” in un sistema cliente diventerebbero vani.


[1] Kotler. Dal cap. 1 “La comprensione del processo di marketing management”, in “Il marketing secondo Kotler”

[2]  Vedi Goffman (1959) per l’analisi dei comportamenti pubblici delle equipe.

Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Livelli di vendita e target di risultati

Possiamo identificare alcune grandi approcci e tipologie di vendita ed il relativo target di risultato:

  • Vendita distributiva – Cogliere le opportunità già focalizzate dal cliente, acquisire gli ordinativi per categorie di prodotti noti e abituali.
  • Vendita consulenziale – Esplorare il sistema cliente, svolgere analisi e diagnosi approfondite, trovare le soluzioni giuste per il cliente, costruire pacchetti personalizzati, diventare fornitore di riferimento per una intera gamma di bisogni, sia attuali che futuri, sostituire i fornitori precedenti che non assicurano il grado di servizio ottimale.
  • Vendita complessa – Vendere a diversi livelli all’interno del sistema-cliente presidiando tutti i decisori chiave, acquisire commesse importanti ad alto impegno relazionale e “politico”, diventare il fornitore di riferimento.
  • Key Accounting – Presidiare la relazione con il sistema-cliente, mantenere continuità di rapporto, evitare rotture di rapporto e malfunzionamenti della relazione.
  • Corporate Relationship Building – Creare le condizioni di vicinanza relazionale con elementi del sistema-cliente, creare “entratura” relazionale.

Vendita distributiva

La vendita distributiva riguarda una tipologia di rapporto a basso livello di contatto umano, come l’invio di mailing o il semplice “passare per vedere se serve qualcosa” di un rappresentante in un’azienda già cliente o andare in un bar per fare un riordino di latte o patatine.

Il suo scopo è distribuire l’esistente e non creare il nuovo.

Vendita consulenziale

La vendita consulenziale si definisce tale quando il venditore applica una dose elevata di analisi prima di confezionare una proposta o pacchetto di vendita. 

La vendita consulenziale è necessaria in ogni relazione profonda. 

La vendita consulenziale è necessaria soprattutto quando si cerca di esplorare il potenziale di un cliente e non ci si accontenta dei suoi bisogni apparenti o di superficie. È utile anche quando si vuole uscire dalla routine e si desidera portare soluzioni non preconfezionate ma tarate sulla condizione esatta di quel cliente in quel particolare momento del tempo.

Vendita complessa

La vendita complessa è il livello di vendita che oltre ad essere consulenziale tocca molteplici decisori nell’azienda cliente e coinvolge molteplici protagonisti nell’azienda venditrice. 

Si tratta di una vendita many-to-many, in cui molte persone del sistema cliente si interfacciano con molte persone del sistema del fornitore.

In questo territorio delicato occorre presidiare numerosi gradi di relazione e stare attenti al fatto che tutti giochino lo stesso gioco e nessuno rovini la relazione con messaggi inappropriati o comportamenti non concordati.

Sul fronte del fornitore possono essere coinvolti i funzionari commerciali, i tecnici, il marketing, sino alla direzione generale. Sul fronte del cliente possono essere coinvolti l’ufficio acquisti, la direzione commerciale, i tecnici, gli utilizzatori, i decisori e gli influenzatori, e numerosi altri stakeholders[1] e opinion-leaders, sino alla massima direzione.

Una disattenzione nelle comunicazioni di livelli poco presidiati (es: tecnici con tecnici, responsabili assistenza dell’azienda venditrice che si rapportano ad altri tecnici dell’azienda cliente su dettagli di prodotto) può produrre effetti dirompenti e distruttivi. Una sola informazione sbagliata che sfugga può risalire la piramide aziendale in modo distorto e minare l’intera operazione.

Il training necessario per le vendite complesse

Le aziende evolute, soprattutto multinazionali, effettuano specifici training sulle relazioni con il cliente (Brand Communication Management) finalizzati ad insegnare ai tecnici a valorizzare il marchio con comportamenti e atteggiamenti di front-line adeguati, a non inquinarlo con errori comportamentali. 

Il problema non è solo dei rapporti tra tecnici ma riguarda ogni soggetto coinvolto nel front-line, come un magazziniere che deve consegnare un prodotto già acquistato (e può con il suo comportamento dare conferme positive o invece rovinare l’immagine aziendale faticosamente costruita durante la vendita). tocca anche chi risponde al centralino, l’immagine dei siti web, la qualità delle comunicazioni commerciali e persino le comunicazioni di servizio (email, fax, note). Ogni aspetto della comunicazione ha un impatto.

Le situazioni one-to-many (un venditore che fronteggia diversi interlocutori nell’azienda cliente) sono spesso da inquadrare nelle vendite complesse, e dobbiamo eliminare la tendenza a darvi meno importanza del dovuto. Quando un team di acquisto ben preparato fronteggia un solo e singolo rappresentante dell’azienda venditrice, possono facilmente crearsi condizioni di difficoltà, soprattutto se il team di acquisto applica strategie appositamente preparate per creare difficoltà, ed è formato per farlo.

Ricordiamo inoltre che molte aziende praticano training intensivi di negoziazione d’acquisto ai propri buyer e negoziatori, spesso con l’intento di “spremere” il più possibile dal venditore e metterlo in difficoltà[2].

Questo deve trovare un contraltare adeguato in eccellenti training di vendita consulenziale e psicologia della vendita.

Le situazioni many-to-one (diversi rappresentanti dell’azienda venditrice che fronteggiano un solo buyer o altro decisore sul fronte cliente) sono abbastanza rare ma in genere rientrano nella categoria della vendita consulenziale.

In ogni e qualsiasi condizione, un training di vendita consulenziale è necessario e deve includere almeno:

  • elementi di psicologia della comunicazione verbale, paralinguistica e non verbale,
  • tecniche di ascolto, ascolto attivo ed empatia strategica,
  • tecniche di mappatura dei decision-makers,
  • tecniche di Key-Leader-Engamenent,
  • tecniche conversazionali,
  • tecniche di intelligenza emotiva e autocontrollo emotivo,
  • elementi di marketing per la vendita,
  • tecniche di chiusura e concretizzazione.
  • tecniche di qualità totale della comunicazione;
  • tecniche per la costruzione delle linee di vendita e gestione delle strategie di vendita e linee di azione (Action Line Management).

Questi sono solo alcuni dei molti elementi che devono essere parte di un piano di formazione per la vendita consulenziale.

Key-accounting e Solutions Selling

Il Key-Accounting rappresenta il grado di relazione in cui un soggetto (Key-Account) viene incaricato della missione di presidiare la relazione con un cliente importante, mantenerla “calda” e “lubrificata”, sondare continuamente i trend che accadono entro l’azienda cliente, capirne gli equilibri decisionali e i loro mutamenti, anticiparne le possibili mosse, e prepararsi adeguatamente.

Il Key-Account (a seconda di come il ruolo viene definito e interpretato nelle singole aziende) è responsabile anche dei budget del cliente, delle offerte economiche, della formulazione delle soluzioni di vendita, preventivazione e verifica della customer satisfaction. 

Opera soprattutto con uno spirito di vendita consulenziale centrato sulla ricerca di soluzioni (Solution Selling).

Corporate Relationship Building

Il Corporate Relationship Building rappresenta l’attività di costruzione di relazioni tra imprese (marketing relazionale). 

Il CRB è un’attività propedeutica alla vendita, essendo finalizzato alla “entratura” in un sistema-impresa da angolazioni non strettamente commerciali o non unicamente commerciali. 

Può trattarsi di creare conoscenza tra tecnici e tecnici, in un incontro organizzato da una terza parte. Può richiedere la partecipazione ad eventi politici o associativi da parte della direzione, o di manager. Può includere scambi di favori o di informazioni, ricerca di eventi sociali cui parteciperanno le persone che ci interessa contattare, e altre linee di azione (action lines) di avvicinamento ad un sistema-impresa.

Nel CRB la preoccupazione principale non è siglare un contratto ora e subito (fretta di concludere), ma creare le condizioni affinché si possa avviare un rapporto commerciale saltando i filtri e le barriere classiche, negoziando a livelli più elevati nell’organizzazione, o riducendo le difficoltà che si presentano a chi si avvicina ad un sistema che non conosce e nel quale non ha entrature.

Un’impresa moderna deve fare formazione su tutti i livelli, ad esempio:

  • Corporate Relationship Building: per avviare nuovi contatti
  • Solution Selling; per apprendere la vendita consulenziale basata sulla costruzione di “soluzioni”
  • Brand Communication Management: a tutti i livelli aziendali, per evitare che comportamenti e comunicazioni inquinino l’immagine di marchio o distruggano le trattative in corso, o riducano la customer satisfaction di chi ha già comprato e vogliamo fidelizzare.

Un’impresa che intenda affrontare la vendita in modo serio dovrebbe decisamente praticare training e coaching costante, permanente, a cadenze fissate, e non solo come soluzione d’emergenza.

Quando le cose vanno male o le vendite calano, l’intervento formativo deve essere accompagnato da una buona dose di diagnosi organizzativa e ristrutturazione organizzativa, che porti a localizzare e rimuovere gli elementi che hanno portato a quella condizione negativa.


[1] Stakeholder: portatore di interessi, soggetto in grado di avere influenza sulle decisioni.

[2] Ricordiamo a questo fine alcune “deviazioni” delle tecniche PICOS, nate inizialmente come tecniche di co-makership tra industrie automobilistiche e loro fornitori, e trasformate da altri come strumenti scientifici di indebolimento psicologico del venditore.

Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Stili di comunicazione e relazione

Ognuno di noi comunica con un certo stile. È importante:

  • riconoscere con quale stile comunichiamo;
  • saper flessibilizzare lo stile per potersi relazionare ad interlocutori diversificati

Esempi di stili comunicativi, con parole tipiche dello stile:

  • Intellettuale – parallelismo, canovaccio, piattaforma progettuale.
  • Dinamico – veloce, rapido, risultato, obiettivi, vincere.
  • Aggressivo – ha capito? Non so se sono stato chiaro? Mi sta seguendo? Qui c’è troppa gente che cazzeggia, non abbiamo tempo da perdere. È ora di concludere, adesso!
  • Sottomesso – se lei vuole, se preferisce, come lei desidera, se non disturbo, facciamo quello che vuole lei, non c’è problema, siamo molto flessibili su tutto.
  • Rustico/volgare – ma và, non rompere i coglioni,  sono tutte seghe, ve la tirate troppo, è ora che ci diamo una mossa.
  • Politicante – bisogna valutare, si tratta di ricercare un compromesso, dobbiamo trovare delle sinergie, serve una piattaforma programmatica, è necessario un confronto di visioni.
  • Anglo-manageriale – il breakeven point, il marketing mix, la supply chain, la customer loyalty, è una questione di customer satisfaction, dobbiamo fare qualcosina sul cross-selling, anche in relazione alla gantizzazione del progetto.
  • Ottimista – è una bella opportunità, ci sono forti possibilità, è un progetto bellissimo, sento che le cose andranno veramente bene, sono sicuro che ce la faremo. 
  • Pessimista – non si può fare, è difficile, non ce la possiamo fare, ci sono troppe incognite, è un mondo difficile, non lo hanno mai fatto altri, è troppo nuovo, non lo conosco, non mi fido.
  • Concreto: scadenze, fissare, concludere, concretizzare, definire, inquadrare, arrivare a stringere, non perdere tempo, non perdiamo tempo, andiamo al sodo, badiamo ai risultati.

…ogni altro stile identificabile nel panorama sociale circostante.

Ognuno di noi comunica con un certo stile. È importante per la vendita consulenziale e la negoziazione saper riconoscere gli stili altrui e capire con quale stile rispondere.

Caratteristiche

Conoscere bene le caratteristiche dei prodotti e dei servizi, conoscerle a fondo e nei dettagli.

La conoscenza delle caratteristiche di prodotto, o delle caratteristiche del progetto che stiamo esaminando, è conseguibile attraverso lo studio, il confronto con esperti, e soprattutto attraverso metodi che permettano di metterla alla prova, come il role-playing.

Sessioni di domanda-risposta possono aiutare molto a mettere alla prova la conoscenza del prodotto.

Per una società di formazione, il direttore potrebbe dire ai propri consulenti: fammi vedere come spieghi ad un cliente la differenza tra coaching, training, counseling, e un workshop. Fammi vedere cosa risponderesti se un cliente ti chiede che differenza c’è.

Vantaggi

Conoscere i vantaggi competitivi significa sapere quali plus abbiamo rispetto alla concorrenza, e come questi vantaggi diventano utili, si trasformano in benefici tangibili o percepibili per un cliente o utilizzatore.

I vantaggi possono essere sia competitivi (riferiti a possibili alternative della concorrenza: in cosa siamo migliori rispetto ad altri) o vantaggi assoluti, riferiti al beneficio che ne può trarre il fruitore (che aiuto e vantaggi hanno le nostre proposte o soluzioni).

Benefici e relazione tra benefici ipotizzati e bisogni reali

Che benefici può trarre un cliente dalle nostre caratteristiche, dai nostri vantaggi competitivi?

I benefici riguardano una molteplice sfera di bisogni, sui quali dovremmo fare grande chiarezza. Spesso i benefici ipotizzati sono altamente distanti dai bisogni reali, che possono riguardare aree come:

  • il bisogno di risparmiare e liberare risorse per altri progetti;
  • il bisogno di sicurezza, garanzie, affidabilità;
  • il bisogno di efficienza, e di strumenti che la rendono possibile;
  • il bisogno di immagine, la necessità di poter esibire qualcosa ai propri interlocutori esterni, clienti o referenti politici;
  • il bisogno di azione, la necessità di poter dire ai propri interlocutori esterni, clienti o referenti politici, che si sta facendo qualcosa;
  • il bisogno autorealizzativo, diventare il massimo di ciò che si può essere, raggiungere il proprio potenziale, o un proprio sogno, sviluppare un proprio ideale.

I benefici non si collegano automaticamente alle caratteristiche dei prodotti, servizi o idee, ma diventano tali solo quando si realizza una connessione mentale tra caratteristica e bisogno.

Unicità e distintività

In quali elementi di prodotto o di servizio riusciamo ad essere unici, ineguagliabili? In quali punti di forza si concentra la nostra unicità? Cosa possiamo fare solo noi così, avere solo noi, o “essere” solo noi?

In cosa si caratterizza la nostra distintività? Nella certezza della parola data? Nei tempi di consegna? In qualche brevetto? Nelle relazioni umane? Nella capacità di analisi? Nella capacità di vendere fiducia? Nell’essere i leader di mercato per ricerca e sviluppo? O nell’essere i leader di costo? O di convenienza? O in quali altri campi? 

In altre parole, in cosa vogliamo essere percepiti come “diversi” per uscire dalla massa indistinta dei possibili fornitori?

Il nostro valore, il valore reale e il valore percettivo

Da dove deriva il nostro valore? Essenzialmente, dalla capacità di offrire benefici, soluzioni, e dare risposte ad esigenze sentite. Il valore può provenire anche dall’insieme delle caratteristiche di credibilità personale, di credibilità aziendale, sommato alle caratteristiche, vantaggi, benefici e unicità del mix di offerta aziendale, dei suoi prodotti/servizi, sistemi di prezzo, logistica, distribuzione, informazione, e customer care

Il valore reale (osservato dal punto di vista del venditore) è spesso diverso dal valore percettivo visto dal cliente. Il cliente può solo intuire e cogliere solo in parte, da pochi elementi di contatto, una realtà complessa. 

Il valore può essere amplificato o invece “ucciso” da poche informazioni o da dettagli apparentemente insignificanti che distruggono la fiducia (distrust signals, segnali di sfiducia). 

Una delle missioni fondamentali del venditore e del negoziatore è far emergere il valore e costruire il clima di fiducia ed emettere i segnali generatori di fiducia (trust signals) che permettono alla relazione di avanzare.

Trasmettere il concetto di cui si è portatori, e interessarsi al processo del cliente

Ogni venditore porta con sè stesso un’immagine di sè (self image) e una immagine della propria azienda (corporate image). Queste realtà percettive emergono in ogni interazione, che egli ne sia consapevole o meno. 

Egli porta con sè anche l’immagine che possiede della propria azienda, i suoi limiti, i suoi punti di forza, ne definisce una immagine mentale: “azienda tradizionalista” “azienda tecnologica” “boutique”, oppure “discount” – non importa di quale settore merceologico si stia parlando.

Vendere i prodotti di un’impresa non significa esporre semplicemente il suo catalogo prodotti. Significa soprattutto vendere il “concetto” che l’azienda rappresenta. 

Ad esempio, un venditore BMW dovrebbe sapere che in qualsiasi trattativa di vendita sta rappresentando non solo un insieme di bulloni, ruote e lamiere, ma soprattutto il concetto di un’auto prestigiosa, tedesca, solida, sportiva, un punto di arrivo

Sulla negoziazione politica o progettuale, troviamo un parallelo. Avere come partner un paese come la Germania in un progetto significa far entrare nel progetto un senso di “ordine” e di “tecnologia”, avere l’Italia può significare far entrare il concetto di “creatività”, ma anche connotazioni negative come “confusione” per l’Italia, o “rigidità” per la Germania.

Ogni negoziatore deve sapere quali immagini mentali porta con sè e quali sono associate al proprio sistema di appartenenza.

Identificarsi come un “punto di arrivo”

Chi entra in negoziazione vedendosi come una “seconda scelta” inevitabilmente trasmette questo concetto alla controparte. 

Identificarsi come un punto di arrivo è importante per creare un senso di autostima e sicurezza che emergerà nella trattativa. Questo è reso possibile solo da un grande lavoro sulla consapevolezza di sè e dei punti di forza aziendali.

Vendere un “punto di arrivo” è ben diverso dal vendere un insieme di parti meccaniche o pezzi di servizio.

La scena si complica se consideriamo che il cliente ha una propria percezione di cosa sia un “punto di arrivo” e questa può essere diversa dalla nostra.

Entra qui in scena la “psicologia della comprensione del cliente”, il desiderio forte di entrare nel suo mondo, alimentato da curiosità, volontà di capire, desiderio di non fermarsi alla superficie.

Per vendere un concetto assimilabile ad un “punto di arrivo” bisogna sapere quale è il punto di partenza, cioè da quale situazione parte il cliente, e perché egli aspira ad un diverso punto di arrivo. 

Dobbiamo chiederci se e perché il cliente è contento della situazione che in quel momento ha o vive, cosa desidera cambiare, in quali termini desidera evolvere, e cosa lo frena. In altre parole, dobbiamo interessarci del processo del cliente (entrare nei processi). Solo in questo modo la vendita potrà diventare consulenziale e trovare le migliori opzioni che permettono di concretizzare un risultato aziendale. 

Fare questo, significa applicare alla vendita i metodi della “Consulenza di Processo”, ovvero far convergere vendita e consulenza in un unico metodo di vendita consulenziale.

Passare dall’interesse generico alle pratiche conversazionali che lo rendono concreto

Tutti condividono a parole e in teoria un generico senso di “attenzione verso il cliente” ma pochi lo sanno tradurre in pratiche conversazionali e azione. 

Nei “momenti della verità”, in una vera negoziazione di vendita con un vero cliente, possiamo osservare e misurare se i concetti diventano realtà conversazionale, se cioè il venditore riesce a tradurre i concetti di “centratura sul cliente” in vere domande, in riformulazioni, in esplorazione, ricentraggio degli argomenti di conversazione. 

Dobbiamo analizzare se egli sa cogliere i depistaggi, o i tentativi di esproprialo del suo ruolo consulenziale. Dobbiamo accorgerci, se siamo Direttori Vendite o coach di vendita, se il venditore ha vere capacità di fare domande centrali e fare analisi – o se invece si disinteressa del processo del cliente, non pone domande, non cerca di capirlo veramente, non esplora il suo “mondo” e le sue evoluzioni, e lascia che sia il cliente a decidere quale ruolo egli deve giocare.

Un altro esempio sul tema del “vendere un concetto” prima ancora di un prodotto. L’esempio questa volta è semi-autobiografico, poiché tratta di un mercato, quello della formazione e del coaching, nel quale viviamo ogni giorno. 

Chi opera con o per il nostro Studio, ad esempio, deve essere ben consapevole del fatto che fare consulenza e formazione significa applicare dei modelli scientifici e non essere dei ciarlatani improvvisati. Un consulente o formatore può essere interprete, anche ottimo, di teorie e modelli elaborati da altri autori, oppure può diventare contemporaneamente autore e ricercatore se ha adeguate capacità. 

Nel nostro studio abbiamo svolto un grande sforzo di ricerca per produrre (generare, creare) numerosi modelli proprietari, prodotti formativi e consulenziali nuovi, integrandoli in paradigmi evoluti per lo sviluppo personale e organizzativo. Tra questi modelli troviamo il Metodo Action Line Management (ALM) ™, le Regie di Cambiamento™ per la formazione avanzata, il Deep Coaching Protocol™ per lo sviluppo personale, e creando inoltre il metodo HPM™ (Human Performance Modeling) per lo sviluppo del potenziale personale.

Chi opera con il nostro Studio deve quindi sapere che per i suoi servizi di formazione il cliente troverà un mondo di unicità, di modelli proprietari che altri non hanno. Questo permette al cliente di ottenere formazione consulenziale con tecniche nuove e proprietarie, anticipare di anni quello che uscirà sul mercato “per tutti” ed avere un vantaggio competitivo, scoprire tecniche uniche create dalla ricerca attuata direttamente dallo Studio, avere a disposizione modelli non reperibili altrove. 

Una consulenza o training centrata sul cliente e sul suo processo deve essere distanziata dal concetto di “corsificio” e questo significa saperlo comunicare, per chi opera dal lato dello Studio. 

Lo stesso problema e obiettivo, capire le unicità, vale per ogni azienda di prodotti o servizi.

La conoscenza che deve possedere chi opera per un’impresa non può essere superficiale. In generale, chi rappresenta una realtà deve essere consapevole di quale realtà rappresenta, quali potenziali porta con se.

Una rappresentazione di sè distorta, o lacunosa, emerge inevitabilmente in ogni “momento della verità” e in ogni vendita che aspira ad essere consulenziale. 

Le tecniche conversazionali

Cosa significa “tecnica conversazionale”? Dobbiamo innanzitutto capire che una interazione di vendita e una negoziazione sono basate – nel face to face – su specifici meccanismi della conversazione. Tra questi:

  • la gestione dei turni di conversazione (turn management)
  • il ricentraggio degli argomenti di conversazione
  • le tecniche di “ammorbidimento” delle relazioni (repair)
  • la produzione di domande (dare ascolto), opposta alla produzione di emissioni persuasive o informative (ottenere ascolto).

Riuscire a bilanciare il flusso che esiste tra dare ascolto e ottenere ascolto (balancing) è una precisa tecnica conversazionale.

Nella vendita classica il conflitto è “per parlare” e lo scopo è parlare più dell’altro o sovrastarlo con le proprie argomentazioni. 

Nella vendita consulenziale troviamo il gioco opposto, il gioco diventa “chi fa parlare di più l’altro”, e lo scopo strategico è indurre il cliente in uno stato di “apertura” per poter ottenere le informazioni indispensabili a costruire un pacchetto consulenziale o di offerta. 

Ottenere uno stato di apertura significa aprire sempre più il “flusso empatico” – il flusso di attenzione verso l’interlocutore che lo porta a fare delle aperture (disclosure), a dischiudere le proprie informazioni o posizioni. Tale tecnica è denominata nel nostro metodo Info-Bleeding (trasudazione informativa) e permette di ottenere informazioni indispensabili a rifinire la strategia e formularla.

Questo risultato richiede precise tecniche conversazionali, che nel nostro metodo assorbiamo dalle scienze di Analisi della Conversazione (Conversation Analysis), dalle tecniche di intervista degli informatori (Humint), dalle tecniche di intervista clinica in psicoterapia, e da altre fonti scientifiche, non ultime le tecniche utilizzate nelle investigazioni, opportunamente adattate al fatto di non volere in nessun modo creare una sensazione di “interrogatorio”.

Dietro ad ogni incontro tra realtà personali (incontro tra persone) e tra realtà aziendali (incontro tra aziende) esistono enormi potenziali da esplorare e questa consapevolezza alimenta chiunque non si accontenta della superficie, in ogni manifestazione dell’essere umano e della conoscenza umana.

La consapevolezza di sè (self-awareness) include il “come io comunico”, l’analisi di “qual è il mio stile conversazionale in una negoziazione”, ed è il tratto più importante della capacità di vendita, poiché in ogni vendita una persona porta con sè “se stesso”, i propri limiti, i propri principi morali e le sue esperienze ed abilità pratiche.

Le caratteristiche dell’azienda cliente e del sistema cliente – in senso più generale – sono estremamente importanti, ma (senza sminuirle) di minore importanza strategica rispetto alla costruzione di una buona conoscenza di sè e della propria azienda, poiché questo “lavoro” viene riutilizzato in ogni relazione di vendita, mentre lo studio di un cliente specifico è un investimento essenziale ma che trova rientro in una sola ed unica relazione di vendita. 

La consapevolezza dell’istituzione che rappresentiamo, delle sue persone, dei suoi confini, delle sue forze e debolezze, è un anello forte della vendita consulenziale che ci accompagna in ogni trattativa, ma esso non verrà mai valorizzato se non è sostenuto dallo sviluppo delle proprie competenze comunicative.


Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategie di comunicazione e marketing. Un metodo in 12 punti per campagne di comunicazione persuasiva”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Definizione dei budget della campagna di comunicazione

Poiché non sarà possibile disporre di un budget di comunicazione infinito, sarà necessario definire delle priorità di intervento, che si prefiggano diversi obiettivi.

Le priorità potrebbero essere le seguenti :

  1. Campagna di informazione attivazionale : fornire informazioni operative (dove andare, cosa fare, come) alle aziende che non abbiano ancora definito un piano formativo, ma siano interessate a farlo. Su queste aziende non dovrà essere “venduto il concetto” della formazione. Si tratta semplicemente di aiutarle ad attivare, a rendere concreto, un atteggiamento positivo preesistente.
  2. Campagna di rafforzamento: portare informazioni e testimonianze di successo di aziende che hanno deciso di attivare percorsi di formazione continua nell’impresa, utilizzando promoter che realizzano incontri personali con amministratori aziendale. Dissipare dubbi e fornire prospettive e dati di supporto. In questo caso lo sforzo persuasivo esiste, ma non parte da pregiudizi negativi che richiedono maggiore sforzo persuasivo.

In questo modo, il budget disponibile consente di raggiungere il massimo obiettivo possibile, se l’obiettivo è misurato come “numero di corsi attivati nel campione d’imprese”. 

Diverso discorso è quello invece di “acculturare alla formazione” le aziende arretrate e che vedono in essa una perdita di tempo o energie. Questo obiettivo, tuttavia, è del tutto diverso da quello sopra indicato (attivare il maggior numero di corsi con il budget disponibile), e chi confonde i due obiettivi commette un grave errore sia strategico che politico (se in buona fede) o un grave atto di ipocrisia (se fatto nel tentativo di nascondere l’incapacità gestionale tramite la definizione di obiettivi poco chiari, che possano essere facilmente confusi a posteriori). 

Una decisione poco manageriale, dove l’unico risultato è quello di disperdere il budget su aziende poco o per nulla interessate, sulle quali la probabilità di successo sarebbe pari a zero, salvo miracoli. Dato lo sforzo persuasivo (quantità e qualità) estremamente superiore che esse richiedono, eventuali ricavi sarebbero minimali.

Seminare sulla sabbia richiede semi particolarmente robusti e tanta acqua, e spesso l’acqua è poca e preziosa.

Metodi per la fissazione dei budget

Esistono diverse “scuole di pensiero” o metodi nella fissazione dei budget di comunicazione: 

Le opzioni disponibili sono:

(1) assegnazione del budget in base agli obiettivi da raggiungere: consiste nel determinare il costo delle diverse fasi della campagna, per poi giungere tramite una sommatoria ad una preventivazione di costo finale.

(2) definizione per budget disponibile: consiste nella realizzazione di una campagna utilizzando le risorse disponibili al momento, o fissate in un apposito capitolo di bilancio.

(3) definizione in corso d’opera o a consuntivo: la campagna viene finanziata senza limitazioni, e le risorse vengono fornite man mano che se ne presenta la necessità, praticamente senza una programmazione.

target

Il primo metodo (prima gli obiettivi, poi il budget) produce indiscutibilmente i risultati più alti, in quanto al primo posto – per definizione – vengono gli obiettivi da raggiungere. 

Se le risorse non sono sufficienti, gli obiettivi non verranno raggiunti. Quando il computo di preventivazione fa emergere una spesa troppo elevata per i budget aziendali disponibili al momento, è molto più opportuno ridurre realisticamente il target, ridimensionare il numero di soggetti da raggiungere, piuttosto che realizzare azioni approssimative su un target troppo ampio. 

In altre parole, gli eventuali tagli di spesa non devono andare a discapito della qualità della comunicazione ma piuttosto della quantità (ridefinizione dei confini di campagna).

Per quanto riguarda la realizzazione dei preventivi di campagna, i programmi di project management moderni dispongono di moduli che associano ad ogni step e risorsa un costo specifico. È così possibile svolgere la preventivazione di costo già all’interno del project-management, collegando in modo esplicito e riconoscibile i costi alle diverse fasi di campagna.

Il secondo metodo (prima il budget, poi gli obiettivi) presenta la limitazione di adattare il risultato atteso alle risorse disponibili. È un metodo lacunoso, ma molto utilizzato da diverse aziende. Il suo limite è di assecondare una tendenza egoistica e miope innata nell’uomo: voler raggiungere un risultato elevato senza destinare risorse adeguate (con la spesa necessaria per fare “A” voglio ottenere anche “B” e “C”, senza aumentare il budget). 

La modalità standard con cui vengono fissati i budget annuali di comunicazione (l’affordable method, o un x% del fatturato, nel migliore dei casi) riflette un orientamento alla “gestione finanziaria della comunicazione” opposto ad un orientamento di “gestione dei risultati da produrre tramite la comunicazione” [1].

Il terzo metodo (“intanto iniziamo, poi si vedrà”) è molto praticato ma estremamente approssimativo, rischioso per lo scarso controllo sui costi che presenta. Inoltre si presta poco ad attività di comunicazione che avvengono tramite communication campaign planning.

I costi della progettazione

Uno dei punti nodali da sottolineare è che tra i costi da computare in una campagna di comunicazione o campagna commerciale vi è la stesura stessa dello schema o impianto di campagna – la fase progettuale che definisce la struttura portante e strategica di tutte le attività da realizzare.

L’approccio vincente per la realizzazione del progetto richiede una competenza trasversale di marketing e management, comunicazione interpersonale e public relationsmedia-planning, tecniche di vendita e marketing relazionale, webmarketing e comunicazione in internet, skills di ricerca di marketing qualitative e quantitative, con competenze trasversali di project management in grado di sinergizzare le diverse azioni.

Questa fase, di solito condotta dal consulente in comunicazione, è un lavoro professionale impegnativo che richiede esso stesso un budget. Sbagliare questa fase farebbe saltare l’intero impianto del progetto.

cost

Così come per la realizzazione di un ponte esistono costi di progettazione, (anche molto elevati), per la realizzazione di una campagna di comunicazione di qualità devono esistere costi di progettazione. La campagna realizzata senza adeguata progettazione equivale ad un edificio su fondamenta d’argilla. 

Un progetto che non include costi di progettazione dovrebbe immediatamente indurre sospetti sulla qualità del progetto stesso. L’assenza di un budget di progettazione denota di per sé una campagna di scarsa qualità, qualcosa che è persino meglio non fare. Una comunicazione di scarsa qualità o una campagna mal progettata (di comunicazione, di formazione, o di marketing) producono effetti negativi e demotivanti sulla struttura stessa. 

I risultati che non arrivano, i costi che non trovano ritorni, messaggi ed azioni che producono effetti negativi sono da eliminare in partenza. 

Questi costi aziendali e motivazionali sono errori che un’azienda moderna non può nemmeno considerare di pagare, per risparmiare su un capitolo di spesa (la progettazione) che è il fondamento di tutto l’impianto comunicativo.

Un’interessante osservazione da Slade[2], evidenzia come la necessità di consapevolezza su come le persone distribuiscono le proprie risorse per raggiungere i goals, poiché :

“l’importanza del goal è proporzionale alle risorse che l’agente è disposto a spendere per raggiungere quel goal”. 

Questa formulazione rafforza la nostra considerazione primaria: senza risorse adeguate (culturali, manageriali, ed economiche) non è possibile realizzare azioni comunicative di qualità ed ottenere risultati.

Il training come fattore di successo

Il training deve essere svolto professionalmente, secondo lo schema collaudato che prevede:

  • Progettazione dell’intervento formativo (includente analisi e diagnosi dei bisogni)
  • Sperimentazione delle metodiche formative su iniziative pilota
  • Ri-taratura degli interventi e allargamento del training
  • Immissione a regime delle nuove competenze
training

Non possiamo lontanamente pensare che una campagna si possa svolgere senza training.

Ciascuna di queste fasi rappresenta un costo da preventivare. Gli errori nelle prime fasi sono cruciali e si ripercuotono a catena sulle fasi successive producendo danni. Ogni euro speso in diagnosi e progettazione ritorna invece a cascata sotto forma di beneficio per l’azienda e i suoi manager. 

Non è possibile saltare la fase progettuale/diagnostica e passare direttamente al training, i risultati saranno scarsi o persino controproducenti. 

Ancora una volta, sottolineiamo che ogni azienda deve porsi prima di tutto il problema di fornire alle risorse umane gli strumenti per agire, poi affidare loro compiti e obiettivi sfidanti. Non si poteva ieri, e non si può oggi, andare ad una sfida disarmati. 

I costi variabili e gli incentivi per i goals raggiunti

Quando un progetto raggiunge gli obiettivi, è necessario che i membri del team siano premiati. Bisogna assolutamente premiare chi è stato responsabile e protagonista del successo sia per l’impegno umano che per i risultati tangibili.

Esiste un’ampia letteratura manageriale sul tema dell’incentivazione e remunerazione incentivante, ma il concetto è questo. 

Diventa elemento vincente di una campagna la remunerazione incentivante e le forme di premiazione monetaria anche non monetaria, per i risultati raggiunti. 

incentivo

Il programma di remunerazione deve considerare:

  • La natura degli incentivi: un piano di incentivazione include sia incentivi monetari e tangibili (premi in denaro, beni e servizi), che riconoscimenti immateriali e gratificazioni umane (incentivi intangibili e psicologici o relazionali).
  • La progressione degli incentivi: è possibile fissare obiettivi del tipo pass/fail (conseguimento totale o fallimento), oppure scale di incentivi. In una scala di incentivi, si fissa un budget incentivi (poniamo 100 come base) e su questa base si applica una progressione: 0 al raggiungimento di meno del 60% dei goals, 80% del premio al raggiungimento del 90% dei goals, 110% al raggiungimento di oltre il 90%, o altre forme più o meno graduate e progressive.
  • L’equità degli incentivi: i membri del team devono percepire che viene tenuto conto del grado di sfida in essere. Obiettivi numericamente simili (es: acquisire 10 aziende) possono comportare sforzi enormemente diversi (pensiamo alla differenza tra acquisire 10 piccole imprese artigianali vs. 10 clienti multinazionali). Devono esistere sistemi premianti che includano un meccanismo di computazione del “peso qualitativo” per i risultati conseguiti.

[1] Affordable method: Metodo usato per definire il budget pubblicitario. Consiste nel valutare la spesa che ci si può permettere di destinare alla pubblicità, solo dopo la decisione degli obiettivi generali di spesa e profitto dell’impresa e dopo aver stanziato il denaro corrente per tutte le altre spese. Fonte: Nuovo Dizionario Illustrato della Pubblicità e della Comunicazione a cura di Fausto Lupetti e Giuliana Manfredini, Lupetti Editore.

[2] Slade, S. (1994). Goal-based Decision Making: An Interpersonal Model. Lawrence Erlbaum. Hillsdale.

Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategie di comunicazione e marketing. Un metodo in 12 punti per campagne di comunicazione persuasiva”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Competenza tecnica e qualificazione dei membri interni ed esterni del Campaign Team

Di assoluta importanza e priorità è decidere quali siano i confini dei ruoli : chi deciderà la strategia del messaggio? Il creativo o lo psicologo, o il direttore commerciale? 

Se non chiariamo prima i confini del “chi fa cosa” la campagna sarà un continuo susseguirsi di rimpalli di responsabilità o lotte di potere, e in un caso o nell’altro non ne uscirà nulla di buono.

In ogni organizzazione la certezza della responsabilità nominale (un nome per ogni responsabilità) è un ingrediente fondamentale.

Nessun titolare d’azienda si affiderebbe ad un idraulico per un’operazione al cuore, e la comunicazione aziendale è materia altrettanto delicata. 

La comunicazione punta al cuore dell’azienda e al cuore del cliente.

Sbagliare la comunicazione produce danni. Gli errori costano cari. 

Per gestire una campagna di comunicazione dobbiamo quindi definire competenze scientifiche e di coordinamento forti, e delegare solo i compiti veramente amministrativi a chi ha competenze amministrative. Dobbiamo inoltre capire che molte competenze prima giudicate amministrative sono in realtà comunicazionali. 

Il fatto di considerare un operatore di telemarketing come amministrativo è un errore, in quanto il telemarketing è attività comunicazionale che richiede forti skills verbali, paralinguistiche e di ascolto, un training adeguato, e una selezione di partenza forte. Lo stesso vale per la vendita diretta.

Ancora di più vale per il Key Leader Engagement, la dove abbiamo persone fisiche che vanno ad ingaggiare leader e decisori. La preparazione deve essere massima.

Ogni campagna di comunicazione deve costruirsi sulle basi di un pool manageriale, tecnico e scientifico dalla consolidata esperienza e capacità.

I ruoli e le funzioni più importanti nell’impostazione di una campagna di comunicazione aziendale sono connessi alle sue diverse fasi. 

Mentre nelle grandi campagne di comunicazione, che dispongono di budget elevati, è opportuno che i ruoli siano assunti da diverse persone, nelle campagne di comunicazione e nelle campagne commerciali delle PMI è invece possibile accorpare diverse funzioni in più persone, considerando la realtà delle risorse disponibili.

In questo caso (accorpamento di più ruoli) dovremmo comunque distinguere quale “cappello” il soggetto stia vestendo nei diversi momenti della campagna, per evitare di confondere le responsabilità, che devono invece rimanere separate.

I ruoli e le funzioni principali della campagna di comunicazione

  • Direttore commerciale, direttore marketing, o titolare/proprietà: il direttore commerciale o direttore marketing (in alcuni casi la proprietà stessa) deve esplicitare il risultato da raggiungere in termini aziendalistici e verificare tramite le sue conoscenze dirette del mercato la fattibilità di alcune fasi della campagna. È il referente verso il quale la campagna deve produrre risultati.
  • Consulente in comunicazione: il consulente deve agire da direttore scientifico, facilitatore di processo e referente tecnico, esponendo le linee guida da seguire. Tra i suoi compiti si inseriscono la fissazione dei communication goals in accordo con la direzione commerciale, la supervisione scientifica dei processi di ricerca, message planning e communication planning, pre-test e verifiche di risultato, e la definizione della channel strategy.
  • Creativo: il creativo può ricevere il compito di elaborare un messaggio che concretizzi la linea di azione comunicativa decisa strategicamente dalla direzione e dai consulenti.
  • Copywriter: il copy è responsabile della redazione dei testi, e in alcuni casi della realizzazione degli scripts (strutture di comunicazione).
  • Ricercatore/analista: ha il compito di curare progetti di ricerca e realizzare raccolte dati (primari o secondari) che facciano luce sul problema, svolgendo inoltre le necessarie ricerche sui target primari e secondari. Se dotato di skills elevate, possiede le competenze per realizzare i test sperimentali di efficacia del messaggio (pre-test), ricerche qualitative e verifiche di risultato (post-campagna). Deve compiere analisi qualitative e/o quantitative.
  • Media-planner (solo nei casi di campagne tramite mass-media): ha il compito di verificare la disponibilità dei media e acquistare gli spazi media, considerando i  tempi e momenti di esposizione esatti nei quali il messaggio deve uscire, e i canali/media sui quali si intende comparire.
  • Key Leader Engagement Specialist (KLE): ha il compito di ingaggiare, contattare le persone chiave, i decision makers, gli influenzatori, e quando vi sono più Engager, gestire le operazioni di KLE e coordinarle
  • Project manager: ha il compito di coordinare le diverse risorse umane, i tempi e le risorse di progetto.
  • Finanziatore: reperisce le risorse per le diverse fasi. Può essere il titolare o un manager che gestisce un budget. Il più grave errore che può compiere è ricercare risultati elevati stirando un budget risicato su molteplici obiettivi, senza raggiungerne alcuno.

Partner potenziali e loro ruolo nella campagna di comunicazione

Molti progetti richiedono la presenza di partner qualificati. I partner possono essere sia strutture pubbliche e private, enti o aziende, consulenti o associazioni, fornitori o clienti, e altre entità cointeressate alla realizzazione degli obiettivi di progetto. 

pa
ship

I partner devono avere ritorni forti e responsabilità accettate in modo altrettanto forte e chiaro.

E’ facile ignorare la responsabilità quando si è soltanto un anello intermedio in una catena di azioni.

Stanley Milgram

La costruzione di un network di progetto funge da facilitatore ed aumenta il peso politico dello stesso. Per un’azienda produttrice di utensili, riuscire a realizzare una campagna commerciale con il supporto o senza il supporto dei sui principali fornitori produce effetti decisamente diversi. Quando si riesce a creare una “cordata” di enti, aziende, persone, interessate agli esiti del progetto, il progetto ha più motori e più propulsori.

Per un club sportivo intenzionato a promuovere una nuova disciplina, il supporto di una federazione nazionale (che faccia sentire il proprio peso politico, e organizzi una dimostrazione pratica con atleti di alto livello) può fare la differenza.

Per un produttore di software, poter disporre di testimonianze dei principali clienti sui benefici ottenuti grazie alle soluzioni progettate, farli partecipare di persona come testimonial di un evento informativo, rappresenta un fattore critico di successo. In tutti questi casi, la sinergia tra attori di mercato aumenta il risultato finale dell’operazione.

Nel caso precedentemente riportato (l’azienda Secure) la campagna commerciale per la sicurezza degli stabilimenti chimici aveva negli Assessori all’ambiente e Sindaci dei comuni del territorio un cardine fondamentale, sia per il potere di boicottaggio che essi potevano assumere verso gli “inadempienti” alla fase di verifica della sicurezza in azienda, che per il potere di facilitazione del progetto o di co-finanziamento.

Deve essere tuttavia evitata la frammentazione decisionale: uno specifico ente o azienda – uno solo – deve assumere la leadership di progetto e i partner devono accettare le regole decise dal Project Leader.

Nella definizione delle partnership il problema principale dell’azienda è quello della motivazione dei partner stessi. Il leader deve porsi il problema di collocare – sul piatto della bilancia – ritorni importanti, inclusa l’immagine del far parte del progetto ma anche la visibilità, opzioni di incremento delle vendite, e altri ritorni, che siano in grado di motivare e incoraggiare un’effettiva partecipazione dei partner. 

La partecipazione dei partner può essere ripagata tramite ritorni d’immagine chiari (presenza del logo su ogni comunicazione) e/o anche tramite aumenti di vendite verificabili, e altre forme di ritorno per cui i partner non stiano solo “facendo un favore” (“nessuno fa niente per niente”, è un detto decisamente applicabile nel campo del business), ma ricavino concreti benefici dal partecipare alla campagna.

In un certo senso, la vendita del progetto ai partner è un sotto-piano di comunicazione innestato nella campagna. Se questo fallisce l’azienda si troverà a gestire la campagna da sola, contando su risorse e apporti esterni che non perverranno mai.

Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

©Copyright. Estratto dal testo di Daniele Trevisani “Psicologia della libertà. Liberare le potenzialità delle persone”. Roma, Mediterranee. Articolo estratto dal testo e pubblicato con il permesso dell’autore.

Life Coaching: Aumentare i “Gradi di libertà” fisici e mentali

Avrai sentito molte volte la frase “sii te stesso”.

Bella frase, ma quel “me stesso”, è veramente chi sono io, o è quello che è stato buttato dentro al mio frullatore mentale? Scoprire chi e cosa è veramente quel “me stesso” è un lavoro stupendo e sfidante per il coaching e il counseling.

Il nostro sistema mente-corpo è immerso in un oceano di messaggi, di informazioni, di sensazioni tattili, olfattive, gustative, di pensieri su cosa è giusto e sbagliato, sui “devi” e “non devi fare”, persino “cosa devi e non devi pensare, nella tua testa”, messaggi che lo plasmano sin dalla nascita.

Ci sono persone che vedono lontano e non hanno timore di esprimere il loro sogno, la loro visione. Alcune di queste visioni sono state considerate pazzie, altre sono diventate realtà e storia.

“Non solo la potenza atomica verrà sprigionata, ma un giorno imbriglieremo la salita e la discesa delle maree e imprigioneremo i raggi del sole.”

Thomas Edison

Edison, pensavano i suoi contemporanei, sognava. Oggi possiamo dire: anticipava.

Il timore crea prigioni. Alcune persone temono persino di farsi notare, di esistere, di dire qualsiasi cosa che qualcuno possa contraddire. Muoiono da vivi.

La libertà non è uno stato singolo, ma piuttosto una posizione tra un continuum tra due poli. Da un lato abbiamo la costrizione assoluta (fisica e mentale) e dall’altro lato la libera scelta assoluta (fisica e mentale). Ogni “grado di libertà” che possiamo e riusciamo a scalfire dalla costrizione aggiunge un tassello alla nostra libertà totale.

La formazione dei guerrieri Ninja passava attraverso fasi importanti di superamento delle paure. Queste paure erano viste come ombre che impedivano alle abilità di esprimersi. I Ninja consideravano il superamento delle paure attraverso formazione iniziatica. 

Nelle iniziazioni e addestramenti venivano inseriti elementi di paura controllata, “in modo che l’ombra possa essere portata alla luce della mente dell’iniziato, che potrà così attraversare quella determinata paura. La paura è la porta più importante, perché senza lo slancio energetico che deriva dall’abbandono delle nostre paure ci sarà difficile proseguire nel nostro viaggio”[1].

Nelle pratiche di coaching esistono specifici esercizi, sia tradizionali (es, firewalking, seppure condotti da personaggi a volte discutibili) che innovativi. Personalmente, mi sono occupato di sviluppare alcuni esercizi speciali i quali attingono dalla mia esperienza trentennale nelle arti marziali, mentre altri nascono sulla base di esercizi psicodrammatici o comunicativi. Il fine ultimo è di crescere superando paure e generare slancio emotivo, senza con questo creare rischi fisici stupidi e inutili. Le stesse tecniche possono essere applicate nel counseling.

Possiamo dire che il coaching e il counseling siano due discipline che vogliono dire un grande “adesso basta!” all’essere plasmati a forza da ideologie esterne, da paure interne inutili, e cercano una via vera, più personale, depurata da ogni forma di falsità, consci persino che la libertà vera diventa un fine utopico ma senza quel fine ci sentiremmo morti. Queste discipline vogliono una vita più vera, più propria, più gestita con consapevolezza anziché in un sentimento di schiavitù. 

E’ un approccio rivoluzionario di sommossa esistenziale e non armata ma che cambia, attimo dopo attimo, vita dopo vita, l’intero pianeta.

Non bastassero le informazioni esterne, siamo a nostra insaputa inondati da informazioni interne (enterocettive, provenienti dal corpo stesso), alle quali prestiamo scarsa attenzione se non adeguatamente allenati. 

Alcune di queste sono deboli, sottili, ma importanti, ad esempio i segnali dello stress fisico e mentale, le posture, il respiro stesso.

Le tensioni muscolari latenti, croniche, dovute a stress mentale, sono un esempio classico di segnale “non ascoltato” che però porta a mal di testa, a mal di stomaco, a dolore fisico poi molto concreto, persino all’alterazione della nostra postura. 

Sto dicendo, assolutamente, che il nostro corpo fa trasparire fuori come ci sentiamo dentro, e se impariamo a leggerlo e a leggerci, possiamo fare di noi stessi un grande laboratorio di crescita personale. 

Imparare a leggere i segnali deboli e farli diventare segnali forti è un’arte che si apprende nel coaching e nel counseling corporeo.

Questi segnali sono così anestetizzati dalle nostre menti bombardate da rumore, che scopriamo che qualcosa non va solo quando ci troviamo al pronto soccorso.

Siamo persino sottoposti ad energie come onde elettromagnetiche (la luce solare è una), la forza di gravità e tantissime altre, sulle quali non riflettiamo più di tanto e ancora meno “sentiamo”, tranne quando, come il sole preso troppo, ti bruciano. 

Esistono anche forze psicologiche, come i “calchi mentali” e le credenze più forti che abbiamo assorbito dalle famiglie e dalle persone con cui ci siamo rapportati. Sono forze che sono penetrate nella nostra testa tramite religioni, libri di testo, letture, televisioni, conversazioni, e tanto altro materiale dell’acquario comunicativo nel quale abbiamo respirato e nuotato sinora.

“Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere, metti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io. Vivi il mio dolore. i miei dubbi, le mie risate. Vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e soprattutto prova a rialzarti come ho fatto io.” Luigi Pirandello

Siamo in balia di forze tanto potenti e persistenti, che il fatto di metterle in discussione non passa nemmeno nella testa ai più. Qualche lamento si, qualche boffonchiamento si, ma niente di vero, niente di radicale. Anche nelle città dove l’economia fa schifo e le economie languono, anno dopo anno, i voti non cambiano più di tanto, gli stili di vita non cambiano più di tanto, e molti se potessero non cambierebbero proprio, resistendo al cambiamento fino a morire. 

Zombie che camminano verso la bara.

Ma risvegliarsi in vita è possibile. Può accadere quando accade un incontro con una persona illuminata, o molto più spesso una crisi, un esaurimento fisico o nervoso, o un trauma, ti fanno capire che quel sistema di forze e di equilibri ora non regge più. 

Non è più adatto per te. Poteva andare bene per chi l’ha sviluppato, nell’epoca in cui si è formato, ma non va bene per te, non ora, non qui. E tu te ne rendi conto e vuoi agire.

Coaching Umanistico

Siamo fatti per seguire la direzione mitica della nostra vita, per scoprire e poi intraprendere le più grandi imprese”

 Caroline Miss.

Il Coaching Umanistico vuole dare voce ad una pulsione di speranza, di forza, di azione, di vita vissuta a pieno. 

Il Counseling Corporeo pone invece l’accento sugli intricati meccanismi che rendono il nostro corpo l’unico mezzo abilitante, il mezzo con cui poter, di fatto, accedere al mondo esterno, l’unico ponte della mente verso realtà.

Da questo ponte possiamo cogliere le “pietre preziose” che il nostro cosmo racchiude, quando riusciamo a sviluppare facoltà di percezione aumentata, il che significa che la nostra percezione deve essere (1) abilitata e (2) allenato a vedere queste pietre preziose. 

Parliamo di “Abilitato” (enabled) in quanto alcune parti del nostro corpo, come la retina, devono esistere, materialmente, per cogliere fotoni, e quindi vedere, e questo solo per quanto riguarda la vista, ma per ogni fonte di senso e informazione. Ma qui non parliamo solo di una “abilitazione fisica”, bensì di allenare la nostra percezione a “vedere” di più e cogliere messaggi che ci sono, ma non percepisci semplicemente perché non li sai vedere.

La mente va anche “Allenata” (trained) perché in ogni secondo di “visione” entrano nel nostro cervello circa 20 Giga di dati, ma se nessuno ti ha mai insegnato a cogliere l’essenza e alcuni dettagli speciali, selezionando, di quei 20 giga non rimarrà altro che il nulla, o una visione sbiadita.

Peggio ancora non vedrai le “pietre preziose” che l’universo costantemente ci mette sotto gli occhi in un flusso costante di possibili meraviglie. 

Solo passando attraverso un training specifico di percezione aumentata potrai vedere la realtà un pò più vera, un pò più vicina a quella che è. 

Sarai, allora, un pò più libero.


[1] Heaven, Ross (2006). The Spiritual Practices of the Ninja. Inner Traditions, Rochester. Trad it: 2008, Le Pratiche Spirituali dei Ninja. p. 43-44. Macroedizioni.

Altri materiali su Comunicazione, Ascolto, Empatia, Potenziale Umano e Crescita Personale disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online