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Liberarsi dall’apnea psicologica: attivare e potenziare le energie mentali, agire sullo stato psicoenergetico e la preparazione psicologica in chi pratica arti marziali e sport di combattimento

Di Daniele Trevisani www.danieletrevisani.com – Fulbright Scholar, esperto in Potenziale Umano, Psicologia e Formazione per le Arti Marziali e di Combattimento. Sensei 8° Dan Sistema Daoshi http://daoshi.wordpress.com/ – Gruppo Facebook Praticanti di Arti Marziali e Sport di Combattimento in Italia

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© Articolo elaborato dall’autore, con modifiche, dal volume “Il Potenziale Umano” di Daniele Trevisani, Franco Angeli editore, Milano. Approfondimenti del volume originario sono disponibili anche al link www.studiotrevisani.it/hpm2

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© Daniele Trevisani

Jules: Per me è troppo stare insieme a te!

Hilary: Fammi capire… stare con me è troppo cosa?

È… troppo divertente? O troppo intenso? Troppo bello?

Jules: Richiede troppa energia.

Dal film: A time for dancing, di Peter Gilbert

Ricordo perfettamente gare di Karate full contact negli “Open Tournaments” negli USA ad inizio anni 90. Molto simili ai tornei che si vedono nei film di “Karate Kid”, tanto per dare un’idea. In quella gabbia di matti, potevi incontrare chiunque, di qualsiasi disciplina, di qualsiasi livello tecnico, c’erano persone che vivevano e dormivano in palestra, li ho incontrati davvero. Eccitante, emozionante, sfidante… ma… c’è un “ma” che spesso tendiamo a nascondere, e adesso voglio parlare proprio di quel “ma…” quel “ma…” che è diventata per me una missione di studio e di insegnamento…

Facevo sia Full che Taekwondo (stile Moo Duk Kwan a contatto pieno) all’epoca, avevo già 2 cinture nere, e la mia specialità erano i calci alti e girati, ero tra i migliori davvero, in allenamento, in riscaldamento, nell’insegnamento nel piccolo club di emarginati in cui insegnavo ai ragazzi cubani, nella cittadina calda e sudata di Gainesville, Florida.

Piccolo e assurdo problema: in combattimento non tiravo calci. Sembrava che mi avessero amputato le gambe, uscivano solo colpi di braccia. E tutti a dire… ma perché non tiri i tuoi calci? La risposta…  non l’avevo neanch’io…. Semplicemente, non uscivano. Davvero, avevo i  piedi incollati al suolo… da un colla che non capivo… una colla in combattimento, un’apnea mentale che mi impediva di respirare a pieni polmoni la gioia di quei momenti speciali.

In quegli istanti di contatto con la vita, che non tornano più, se hai la mente libera puoi toccare il cielo con un dito, anche se perdi, non importa. Hai vissuto qualcosa, hai incontrato te stesso e le tue possibilità, ti sei misurato con lealtà… sei stato vivo… ma se seri annebbiato e la mente si fa confusa, questa magia svanisce. Le mie 2 cinture nere, le mie 4 ore di allenamento al giorno, non valevano più niente, se la mente non era libera…

I miei precedenti preparatori non mi avevano mai parlato del concetto di training mentale, e di allenamento psicoenergetico. Semplicemente, pensavano che più colpi tiravo in allenamento più sarei riuscito a tirarne in gara. Bugia, estrema bugia, detta non volontariamente, ma per mancanza di conoscenza.

Oggi, dopo 20 anni, so una cosa, e di questo voglio fare partecipi tutti.

Raggiungere il proprio potenziale non è solo materia muscolare o di sviluppo fisico. Anzi, vi sono attività nelle quali il supporto biologico e fisico è soprattutto latente, agisce in background, e predomina ampiamente la presenza di energia mentale e motivazionale, oltre alla la capacità di ripulirsi dai rumori di fondo psicologici che ci ostacolano nell’essere ciò che possiamo essere.

Durante le mie gare, e soprattutto prima, ero sopraffatto da rumori di fondo psicologici che mi assorbivano completamente, impedendomi di essere me stesso. Per dare 100 in gara, dovevo prepararmi per 1000. … Intanto, i calci che sapevo benissimo di poter fare, non uscivano lo stesso.

Come abbia fatto a vincere comunque dei tornei risiede solo nel fatto di essere arrivato ad allenarsi 365 giorni l’anno per oltre 10 anni, ma è come usare un Caterpillar per sollevare una pianticella in giardino.

Oggi nessuno deve più vivere nel regno dell’ignoranza, della materia fisica dimenticando quella spirituale. Le conoscenze devono uscire allo scoperto. E non vale solo per le Arti Marziali e gli sport di combattimento. La preparazione mentale vale per tutte le arti.

Tra queste, le professioni prettamente intellettuali, o la prestazione didattica-educativa, o ancora le micro-prestazioni quali gestire una riunione tra manager, o l’atto dell’ascoltare un cliente, un collega, un familiare. In tutte queste situazioni, e in molte altre, le energie mentali sono fondamentali.

Anche nelle prestazioni più prettamente fisiche, come correre, lottare, combattere, o saltare, il grado di motivazione e le energie mentali addizionali, ma soprattutto la pulizia mentale, possono fare la differenza tra una prestazione standard e una prestazione eccellente. La voglia di fare è più potente di qualsiasi integratore.

La capacità di tenere fuori i rumori psicologici è più potente di qualsiasi sostanza.

Le energie mentali si attivano ampiamente sul fronte delle relazioni interpersonali. Anche stare con una persona richiede energie. Nei rapporti umani vi sono storie che logorano e consumano energie, altre che ne danno, altri ancora che innescano forti flussi di scambio reciproco, e numerose sfumature intermedie. Servono energie anche per incontrare le persone.

In ogni attività umana la componente fisica rimane importante ma comunque il supporto biologico non è condizione sufficiente ad esprimere performance: è una condizione necessaria, ma non l’unica parte della ricetta.

Le attivazioni fisiche sono diverse, impegnando maggiormente il sistema cognitivo e relazionale nell’attività manageriale, e il sistema muscolare e respiratorio nel caso di azioni ad alta fisicità. Tuttavia, nessun manager può permettersi di non respirare, e nessun pugile può permettersi di non pensare. Sono dati di fatto. Corpo e mente funzionano bene solo in sinergia.

Mentre il supporto bioenergetico è decisamente variabile, il supporto motivazionale deve essere presente in ogni situazione nella quale si richieda sforzo, impegno, dedizione, presenza mentale.

Il senso della psicoenergetica è quindi orientato a cogliere la componente non fisica della performance e del wellness.

La prestazione umana è ampiamente condizionata dal fatto di sentirsi “su di morale” o “giù di morale”, pieni di “voglia di fare” oppure svuotati, “carichi” o “scarichi”. Una scarsa condizione psicoenergetica si traduce in senso di stanchezza psicologica, apatia, perdita di vitalità, incapacità di reagire o di fare.

Si nota anche nella riduzione di performance tra il “fare tranquillo” e il “fare in condizioni di stress”, dove non ci riconosciamo più.

Esistono certamente collegamenti importanti tra energie biologiche e energie mentali. Ad esempio, la condizione di insufficienza di zuccheri e di ossigeno nel sangue conduce ad una diminuzione della capacità di ragionamento. Il nutrimento biologico della mente è indispensabile per farla funzionare. Ma se la benzina è di scarsa qualità, il motore andrà male.

I tentativi goffi di accrescimento delle energie mentali agendo esclusivamente tramite la via biochimica, dimenticando il lato esistenziale, sono distruttivi. Gli interventi chimici vanno distinti da quelli esistenziali.

Curare l’infelicità con le medicine, o generare motivazione o tranquillità mentale con una pillola non sono lo scopo di una via umanistica per le performance e il potenziale.

Ridurre tutto a chimica e fisica (riduzionismo psicofisiologico), impedisce di ragionare seriamente sul piano spirituale della vita. Negare un livello di valutazione esistenziale e filosofica dell’essere umano impoverisce l’analisi.

I rimedi farmaceutici finalizzati a risolvere il fattore “energie mentali” su un piano puramente biologico (sostanze psicoattive e psicofarmaci) sono da tempo considerati approcci insufficienti. Sono utili a spegnere incendi, non a creare felicità vera, lavorano sul sintomo e non sulla radice esistenziale di un disagio o della motivazione. E nemmeno possono durare a lungo.

Come evidenzia Jung, è molto riduttivo accettare una concezione materialistica…

secondo la quale la psiche sarebbe il prodotto delle secrezioni del cervello, come la bile lo è del fegato. Una psicologia che concepisca ciò che è psichico come un epifenomeno farebbe meglio a chiamarsi “fisiologia cerebrale” e ad accontentarsi dei modestissimi risultati che offre una psicofisiologia del genere[1].

Un’eccellente condizione psicoenergetica vede la persona lucida, “su di morale”, carica di energia, capace di tenere fuori dal campo l’ansia da prestazione, e – nel campo professionale – creativa, concentrata, produttiva, più saggia, meno vittima degli umori, e, nel campo fisico, desiderosa di esprimere tutto il suo corpo nell’azione, vogliosa di fare, di sudare, di correre, saltare, lottare, muoversi, e di amare.

Le stesse attività che possono dare gioia (es.: correre, nuotare, giocare, fare una vacanza, stare con amici) diventano fonte di dolore se affrontate con livelli di energie mentali basse e in condizioni di umore negativo.

Per me il tempo che precedeva la gara anziché diventare piacere era dolore, e questo dolore consumava tutto quello che potevo dare. Ero in apnea psicologica e tornavo a respirare solo dopo la gara. Nessuno mi aveva insegnato a gestire questo dolore e questa apnea psicologica e a capire da dove veniva.

Oggi, con i miei agonisti, pratico tecniche di Training Mentale e riduzione dello stress psicologico sia in allenamento, che nel pre-gara, ricorrendo soprattutto alle tecniche di visualizzazione (Visual Imagery), alla respirazione Pranayama, e alla bioenergetica.

Ma per conoscerle, sono dovuto uscire dal territorio in cui mi muovevo, ho dovuto muovermi in territori a me prima sconosciuti. Ho dovuto imparare a capire concetti come “ansia di stato” e “ansia di tratto” che si studiano in genere solo in campo clinico, mentre solo dopo ho capito quanto fossero importanti per chi si applica nei nostri sport. E non basta conoscerli, bisogna poi lavorarvi sopra, e non è facile. E poi.. visto che di apnea mentale si trattava..

..ho iniziato davvero a studiare cosa fanno gli apneisti prima di immergersi.

Ho contattato e lavorato, su di me, con l’allenatore della Nazionale Italiana di Apnea, Prof Lorenzo Manfredini, psicologo e psicoterapeuta, che ha allenato tra l’altro il Campione del Mondo Umberto Pellizari, e che dal 2001 (e stiamo ancora continuando = non si finisce mai di imparare) mi ha insegnato tecniche che ora pratico con i miei allievi e insegno nei miei seminari anche ad ufficiali dell’Esercito. Non è un caso se ora lui è nel comitato scientifico del Daoshi, la disciplina di insegnamento marziale che racchiude tutto ciò che ho appreso in questi 25 annni, così come lo sono persone che non praticano Arti Marziali, come un Comandante di Marina che insegna ai miei istruttori Leadership. Dobbiamo aprirci agli altri mondi, in caso contrario, predichiamo apertura e pratichiamo chiusura.

E allora? che implicazioni ci sono per chi insegna Arti Marziali o sport da Ring?

Sviluppare energie mentali elevate e addestrare la mente diventa il nostro obiettivo primario, ancora più sfidante rispetto al piano di lavoro delle energie fisiche, poiché lo stato di avanzamento delle conoscenze scientifiche sul funzionamento della mente è meno evoluto rispetto a quello sul corpo.

Il lavoro sulle energie mentali può essere avviato in un coaching ma diventa poi responsabilità della persona farlo diventare normalità, con un impegno essenzialmente quotidiano, continuativo, determinato dalla volontà di una progressione. Come evidenzia un classico di Jung:

Per progressione s’intende anzitutto l’avanzamento quotidiano del processo psicologico di adattamento. Come è noto, l’adattamento non si raggiunge mai una volta per tutte…[2].

Jung affronta, già nel 1928[3], i problemi dell’energia mentale, cercando (almeno concettualmente) di distinguere l’energia vitale dalla forza vitale. Secondo Jung l’energia vitale rappresenta un concetto soprattutto biologico, mentre la forza vitale sarebbe una specificazione di un’energia universale.

Possiamo o meno essere d’accordo, tuttavia il lavoro pionieristico di Jung avanza temi di frontiera e pone domande ancora non risposte, sulle connessioni tra energie biologiche e mentali, e su come accrescere l’“energia vitale”.

Ciò che sappiamo è che le energie mentali elevate non sono analizzabili in modo riduzionistico (solo biologicamente): esiste il tema delle condizioni esistenziali (e non solo biologiche), ad esempio una buona autostima e la fiducia in sé, il supporto degli altri, avere vicino persone sincere che ci apprezzano anche nei nostri difetti e non ci giudicano in continuazione, o il giocare un ruolo che si sente a pieno come proprio, tratti che non vogliamo esaminare solo sotto il profilo biochimico ma richiedono un intervento di analisi esistenziale.

Dobbiamo quindi comprendere che lo sviluppo delle energie mentali richiede il frutto congiunto di una analisi fisica delle condizioni biologiche dell’organismo (condizione bioenergetica) abbinata ad una analisi esistenziale dell’individuo.

Non insegniamo solo tecniche, non trattiamo solo con carne e muscoli. Il nostro lavoro sulla mente dei ragazzi, il nostro aiutarli a diventare pienamente sereni, creativi, generosi, buoni, ottimisti, persone non schiave del sistema e che pensano da sole… liberi di essere il massimo che possono essere, è una sfida al tempo stesso enorme, entusiasmante ed eroica, perché lavora sul cuore pulsante dell’uomo, la liberazione dalle catene che ci impediscono di essere ciò che potremmo.

Dal più profondo del mio animo, spero di essere con voi in questo sforzo eroico.

Dott. Daniele Treviani

Note sull’autore:

dott. Daniele Trevisani (www.danieletrevisani.com), Fulbright Scholar, consulente in formazione aziendale e coaching (www.studiotrevisani.it) insignito dal Governo USA del premio Fulbright per gli studi sulla Comunicazione nel 1990, è Master of Arts in Mass Communication alla University of Florida e tra i principali esperti mondiali in Sviluppo del Potenziale Umano.

In campo marziale e sportivo, è preparatore certificato Federazione Italiana Fitness, praticante di oltre 10 diverse discipline, Maestro di Kickboxing, Sensei (8° Dan DaoShi® Bushido), formatore di atleti e istruttori di Muay Thai, Kickboxing e MMA. E’ stato agonista negli USA nei trofei di Karate Open Interstile.

Formatore e ricercatore in Psicologia e Potenziale Umano, è consulente NATO e dell’Esercito Italiano. Laureato in Dams-Comunicazione, è inoltre specializzato in Psicometria all’Università di Padova.

Ha realizzato docenze in oltre 10 Università Italiane ed estere, ed è il tra i principali esperti italiani nella ricerca sul potenziale umano, nella formazione di manager, di istruttori e trainer per le discipline marziali e di combattimento.


[1] Jung, C. G. (1928), Energetica Psichica, Boringhieri, Torino, p. 48 (traduzione italiana, edizione 1970), p. 20.

[2] Ivi, p. 48.

[3] Ibidem.

Il Potenziale Umano nelle Arti Marziali e negli Sport di Combattimento

Di Daniele Trevisani www.danieletrevisani.com – Fulbright Scholar, esperto in Potenziale Umano, Psicologia e Formazione per le Arti Marziali e di Combattimento. Sensei 8° Dan Sistema Daoshi http://daoshi.wordpress.com/ – Gruppo Facebook Praticanti di Arti Marziali e Sport di Combattimento in Italia

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© Articolo elaborato dall’autore, con modifiche, dal volume “Il Potenziale Umano” di Daniele Trevisani, Franco Angeli editore, Milano. Approfondimenti del volume originario sono disponibili anche al link www.studiotrevisani.it/hpm2

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© Daniele Trevisani

Come agire sul potenziale umano per chi pratica arti marziali e sport di combattimento

Ogni Maestro o Istruttore che insegni a “tirare una tecnica” sta cogliendo solo una frazione infinitesimale di quello che veramente facciamo. Non siamo qui per insegnare alle persone a dare pugni, o fare leve e proiezioni, o tagliare bambù, e qualsiasi altra azione fisica intraprendiamo.

Siamo qui per dare acqua alla radice della “pianta” che è la persona, e veder crescere un bel bosco, un bosco di alberi sani e forti, un gruppo di persone che andranno in giro nella società a dare dei contributi. Persone capaci di risolvere problemi, persone capaci di affrontare la vita con spirito marziale e da combattenti. Questo non significa formare degli arroganti, anzi. Significa formare e plasmare la parte più nobile delle persone: la loro anima, il loro cuore.

Il messaggio che volevo lanciare è tutto qui.

Solo per chi insegna a livello professionale, passiamo ad esaminare gli aspetti tecnici di un lavoro serio sul potenziale umano.

Le azioni di sviluppo del potenziale umano si dividono in:

–  sviluppo bioenergetico: si prefigge di accrescere le energie del corpo, le forze fisiche, lo stato di salute, forze su cui poggiano tutti gli altri sistemi; vengono individuate sia azioni globali (es.: migliorare lo stato di forma fisico) che azioni localizzate su specifici micro-obiettivi, es.: aumentare la resistenza aerobica, migliorare la postura, rivedere l’alimentazione. Gli interventi si dividono in azioni (1) di riparazione (terapeutiche) o (2) di potenziamento; esse riguardano (a) economie dei distretti locali del corpo e (b) azioni centrate sull’economia corporea complessiva;

…sull’atleta o artista marziale, questo significa sviluppare il corpo e i distretti muscolari, le capacità biofisiche quali forza, elasticità, coordinamento etc.

–  sviluppo psicoenergetico: crescita delle energie psichiche, motivazione, volontà, spinta interiore ad agire e a progredire; rimozione di blocchi psicologici e stili di pensiero che impediscono di raggiungere il potenziale, individuazione delle auto-limitazioni, irrigidimenti cognitivi, credenze culturali autolimitanti o dannose per sé e per il team; lavoro di consapevolezza dei potenziali, riduzione dello stress negativo, incremento di autostima, lucidità decisionale, chiarezza delle proprie risorse interiori; il lavoro è sia sull’economia cognitiva generale (es.: ridurre l’ansia generalizzata, aumentare l’autoefficacia generale) che su economie di specifiche aree psicologiche in azione, es.: lavorare sull’ansia in un public speaking, o l’ansia pre-gara, o la visualizzazione mentale dell’evento;

…sull’atleta o artista marziale, questo significa sviluppare resilienza (capacità di rialzarsi dopo uno stress o caduta), motivazione, capacità di gestire lo stress che precede una gara o una competizione, ma anche vivere rimuovendo l’ansia generale ed aumentando il piacere di ogni singolo allenamento, come forma di “alimentazione dell’anima” e non solo somma di gesti atletici etc.

–  sviluppo delle micro-competenze: è un lavoro specifico, inteso come innestato all’interno di una matrice di obiettivi legati al ruolo. Richiede di individuare fattori che creano differenza tra un’esecuzione (1) scarsa, (2) normale o media, (3) un’esecuzione di alto livello (il nostro obiettivo finale). Gli esempi possono essere tanti. Es.: localizzare i dettagli che differenziano una vendita da principiante vs. una vendita di alto livello (dove sono esattamente le differenze?); capire le “distintività” (azioni, dettagli, micro-atteggiamenti, micro-comportamenti) che mette in campo un combattente professionista rispetto ad un dilettante, nella preparazione, e durante un incontro. O la differenza che c’è tra un rigore tirato bene e un rigore tirato male, o tra una riformulazione corretta e una sbagliata (per un terapeuta), o per un cuoco, il tempo ottimale di cottura e uno leggermente peggiore. La ricerca di dettagli delle performance può essere applicata in ogni campo. Possiamo localizzare le micro-competenze di un direttore, di un venditore, di un atleta, di un medico, di uno psicologo, di un negoziatore, di un educatore. Il lavoro sulle micro-competenze richiede sia una fase di riconoscimento (detection aumentata, stimolo della capacità di percezione e localizzazione) che una fase di formazione (lavorare sulle variabili prima isolate); produce inoltre un forte incremento della sensibilità ai dettagli, dell’attenzione, della capacità di trovare “cose concrete su cui lavorare”;

…sull’atleta o artista marziale, questo significa sviluppare i dettagli di esecuzione, es, lavorare su come viene portata una singola tecnica, sull’appoggio al suolo (grounding…) e mille altri dettagli.

– sviluppo delle macro-competenze: le macro-competenze sono la connessione tra (1) il repertorio globale di abilità della persona e (2) il ruolo che quella persona vuole ricoprire. Le due sfere possono di fatto collimare perfettamente, o invece essere scollegate o ridotte (il che mette la persona in sicura difficoltà). Possono anche essere sovrabbondanti e anticipatorie dei futuri cambiamenti (creando agio e una condizione di maggiore elasticità e sicurezza). Prevedono l’esame del ruolo, delle aspirazioni, delle traiettorie, la rilevazione di gaps (lacune) e incoerenze professionali, analisi di bisogni di revisione o cambiamento significativo del proprio lavoro o della posizione professionale, dei ruoli giocati in campo; richiede valutazione e anticipazione dei mutamenti organizzativi cui dare risposta; sviluppo di una coerenza tra proprio profilo professionale e propri obiettivi di vita o obiettivi aziendali da raggiungere, tra le proprie aspirazioni e le opzioni reali dell’azienda e del team, ricerca di spazi nuovi di espressione;

…sull’atleta o artista marziale, questo significa aiutarlo a costruirsi un bagaglio culturale ampio, con la conoscenza di altre discipline marziali e di combattimento, così come di alre conoscenze indispensabili come alimentazione e dietetica, elementi di fisiologia etc.

– sviluppo della vision e del piano morale: localizzazione degli ancoraggi morali forti, dare spessore morale e senso alla vita e all’azione, costruzione e revisione di un piano di lungo periodo, costruire una linea di tendenza ideale, sognare e idealizzare una traiettoria di crescita positiva; coltivare saggezza nelle scelte, cercare un ancoraggio a valori guida, revisione della mappa di credenze morali e consolidamento di una filosofia di vita positiva. Comprende la ricerca di nuovi stimoli all’autorealizzazione, connessione a valori umani positivi e forti, senso pieno del fare e dell’esistenza, ricerca di un senso profondo dei progetti, trovare motivi e direzioni per cui vale la pena impegnarsi; e persino nuove aree di obiettivi esistenziali o/o professionali che diano sapore e senso alla vita, idee e pensieri ispirativi sui quali la persona non aveva ancora riflettuto.

…sull’atleta o artista marziale, questo significa sviluppare la connessione con valori ancestrali, il senso di quello che facciamo e del come lo facciamo quali atti d’amore verso la vita, scoprire le arti marziali e sport di combattimento come forme di espressioni spirituali, e costruire persone più solide nelle loro radici morali.

–  sviluppo di mete, traguardi, goal e progettualità necessaria: definizione di obiettivi precisi da raggiungere, misurabili, tempificabili; progettualità su risultati concretamente raggiungibili; sviluppo della capacità di gestione di tempi (time management) e progetti (project management), gestione efficace delle proprie risorse, capacità di concretizzazione, di realizzazione, abilità nel calare nella realtà un concetto o un obiettivo, trasformare una visione d’insieme in to-do-list (lista delle cose da fare); capacità di tradurre un ideale o un proprio valore in un piano di azione.

…sull’atleta o artista marziale, questo significa la capacità di creare programmi allenati, dividere lo studio in cicli e fasi, ciascuna delle quali ha propri obiettivi, stimolare il raggiungimento di alcuni obiettivi focalizzati, non lasciare che le persone si fermino e si considerino arrivate, ma procedano in un percorso di espolorazione continua di cioò che ancora possono apprendere, e aiutari a scorgere le prossime mete.

Meccanismi di diffusione e drenaggio di energie

I meccanismi energetici nel modello HPM (Human Potential Modeling) sono molteplici, ma per ora osserviamo due meccanismi in particolare:

  • le diffusioni energetiche: le immissioni di energia in un’area hanno implicazioni positive (fanno bene) anche alle altre aree;
  • i drenaggi energetici: i cali o blocchi di energia in un’area danneggiano anche le altre aree.

Le implicazioni per lo sviluppo personale sono numerose, ma soprattutto:

– è possibile realizzare una strategia di immissione selettiva di energie in un’area, per poi utilizzarla come perno per lo sviluppo di altre aree. Ad esempio, creare grounding bioenergetico, il che significa lavorare principalmente sulle energie del corpo per poi poter “fare leva” su un corpo energeticamente carico, su un fisico forte, pronto ad assumersi impegni psicologicamente rilevanti, anche gravosi, goal e obiettivi sfidanti;

–  è possibile realizzare una strategia di immissione multipla di energie ricercando una crescita su più livelli e stadi. Ad esempio, lavorare sistematicamente e contemporaneamente su tutte le aree del modello HPM.

In generale, un lavoro su un’area è possibile solo se i livelli energetici di base dell’area toccata sono a livello sufficiente per supportare carichi superiori. Se non vi sono condizioni minime, occorre trovare strade alternative.

Ad esempio, in campo manageriale è completamente inutile realizzare un intervento dalle grandi ambizioni  (job enrichment, job enlargement, role-modeling, e altri), attaccando lo strato delle macro-competenze, se le micro-competenze di supporto sono insufficienti. Se una persona non sa nemmeno gestire una riunione di un piccolo gruppo di lavoro, inutile passare a temi ancora più complessi che poggiano su competenze che ancora non ci sono.

…sull’atleta o artista marziale, è come pensare che un atleta possa sostenere gare a contatto pieno senza avere mai fatto sparring a contatto limitato, o possa compiere uno stage duro senza essere allenato in modo costante e continuativo.

Altrettanto inutile è riempire di competenze (skills) un manager o un atleta se mancano le energie motivazionali (volontà) necessarie a mettersi in gioco.

Inutile studiare nuovi progetti creativi se l’intero team è in stato di demotivazione cronica o affaticamento. Una persona disabilitata nelle energie mentali non va da nessuna parte, non porta avanti nemmeno se stessa, e tantomeno il progetto più ambizioso che qualsiasi mente possa partorire.

In generale, in mancanza di energie, il “nuovo” non viene affrontato. Sem­plicemente non ci sono le forze per affrontare il cambiamento.

L’area psicoenergetica assieme a quella bioenergetica sono quindi ancoraggi forti di lavoro per un coaching e una formazione seria e analitica.

Saltarli piè pari e passare subito alle competenze applicative è inutile. Così come costruire progetti che richiedono presenza di energie che non ci sono.

In sostanza, il nostro lavoro sul Potenziale Umano nelle Arti Marziali e Sport di Combattimento – se condotto secondo lo spirito adeguato – punta più a far crescere le energie fisiche, mentali e morali delle persone che non a riempirle di tecniche. Punta più a osservare un seme, o un alberello, con il piacere e l’intento di dare un contributo a farla diventare, un giorno, una grande quercia.

Questo da valore e senso non solo a chi cresce, ma anche e soprattutto un senso alla nostra esistenza di Maestri o Educatori che aiutano le persone a crescere. Crescere  fuori, nel corpo, e crescre dentro, nello spirito, nell’anima, in quello spazio immateriale di sogni e di valori che rende il nostro lavoro più nobile e tanto più difficile quanto più ci proponiamo di essere educatori veri e non solo “ammaestratori”.

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Note sull’autore:

dott. Daniele Trevisani (www.danieletrevisani.com), Fulbright Scholar, consulente in formazione aziendale e coaching (www.studiotrevisani.it) insignito dal Governo USA del premio Fulbright per gli studi sulla Comunicazione nel 1990, è Master of Arts in Mass Communication alla University of Florida e tra i principali esperti mondiali in Sviluppo del Potenziale Umano.

In campo marziale e sportivo, è preparatore certificato Federazione Italiana Fitness, praticante di oltre 10 diverse discipline, Maestro di Kickboxing, Sensei (8° Dan DaoShi® Bushido), formatore di atleti e istruttori di Muay Thai, Kickboxing e MMA. E’ stato agonista negli USA nei trofei di Karate Open Interstile.

Formatore e ricercatore in Psicologia e Potenziale Umano, è consulente NATO e dell’Esercito Italiano. Laureato in Dams-Comunicazione, è inoltre specializzato in Psicometria all’Università di Padova.

Ha realizzato docenze in oltre 10 Università Italiane ed estere, ed è il tra i principali esperti italiani nella ricerca sul potenziale umano, nella formazione di manager, di istruttori e trainer per le discipline marziali e di combattimento.

… quando si pensa ad un Segreto…  spesso è qualcosa di molto semplice

Di: dott. Daniele Trevisani  – Fulbright Scholar, Formatore Aziendale esperto in Potenziale Umano. Maestro ed esperto in Psicologia e Formazione per le Arti Marziali e di Combattimento. Sensei 8° Dan Sistema Daoshi – Gruppo Facebook Praticanti di Arti Marziali e Sport di Combattimento in Italia

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© Articolo elaborato dall’autore, con modifiche, dal volume “Il Potenziale Umano” di Daniele Trevisani, Franco Angeli editore, Milano. Approfondimenti del volume originario sono disponibili anche al link www.studiotrevisani.it/hpm2

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© Daniele Trevisani

I Segreti Semplici nascosti nel Libro dei 5 Anelli

Musashi era un Samurai. In Giappone è considerato il più grande di tutti i Samurai mai vissuti. Ha avuto il suo primo combattimento per la vita e la morte a 13 anni, un Samurai esperto voleva vendicarsi e ucciderlo.

Vendicarsi di cosa, su un 13enne? Vendicarsi, per una disputa avuta con il padre di Musashi, uccidendo il figlio. A lui non gli rimase che combattere.

Musashi uccise il Samurai esperto con un bastone trovato lungo la strada. Un bastone contro una spada, usato da un ragazzino, contro un Samurai esperto.

Da allora ebbe decine e decine di duelli, tutti per la vita, e mai per gioco, duelli nei quali venne affrontato anche da 10 persone contemporaneamente, che volevano sfidarlo per diventare famose o alle quali la sua presenza dava fastidio. Li uccise sempre tutti, senza nemmeno guardarli, e senza vantarsene, proseguendo per la sua strada.

Nonostante quello che i benpensanti possono rapidamente pensare e giudicare, non era un violento, non fu mai né aggressivo né prepotente con nessuno, ma semplicemente, come Ronin (Samurai senza padrone), difendeva la sua libertà da chi lo voleva uccidere, in un momento del Giappone Medioevale nel quale non vi erano scelte: nei combattimenti, o si uccideva o si veniva uccisi. Quelle erano le regole. Fu tra l’altro uno dei più grandi pittori Giapponesi…

Per noi, oggi risulta difficile pensare che un pugile professionista, un kickboxer o un karateka possa essere anche Poeta o Filosof, ma in realtà il “viaggio” vero di ricerca di un praticante Marziale non è mai limitato, se interpretato in modo corretto, e si estende ad ogni campo e disciplina…

Musashi ne è un esempio per tutti, e per sempre.

Il suo segreto era un abito mentale. Quandos i considerò vecchio, si ritirò in una grotta e scrisse i suoi Segreti. Nove segreti semplici, assieme ad un libretto di qualche decina di pagine “Il Libro dei 5 Anelli”, affinché si tramandassero.

Ne vorrei parlare perché oggi – di fronte alle sfide e ai problemi veri del pianeta –  di fronte alle ingiustizie e prepotenze, alle arroganze, alle cattiverie – molti non reagiscono, come fece Musashi, ma si nascondono da vigliacchi, sperando che qualcun altro, in un futuro non determinato, se ne faccia carico. Non si rendono conto che i problemi non affrontati oggi ricadranno sui nostri figli entro poco tempo.

Allora, è bene parlare di chi si impegna oggi, per produrre un contributo nelle attività umane, nello sport e fuori dallo sport, nella arti marziali ma anche nella vita, nella società, nel dare un futuro ai ragazzi, nell’insegnare qualcosa dentro e fuori le palestre.

L’insegnamento deve assumere un preciso abito mentale.

È l’assetto del guerriero, del Samurai, del combattente, del ricercatore concentrato, del missionario che crede in una causa. Di chi non si lascia distrarre dalle cose futili e dai valori di plastica.

È l’atteggiamento focalizzato di chi desidera ottenere qualcosa che reputa importante e – durante l’esecuzione – non si lascia distrarre da altro. Di chi ha un valore e lotta per esso. Di chi fa della causa una parte di sé.

Non riguarda solo  enormi imprese, ma anche e soprattutto la vita di ogni giorno. Il più grande Samurai di ogni tempo, Musashi[1], così descrive l’abito mentale di chi vuole intraprendere la vita del Samurai: si tratta di segreti davvero semplici, ma per questo assolutamente attuali:

Chi voglia intraprendere la via dell’Hejò (strategia)

tenga a mente i seguenti precetti.

  • Primo: Non coltivare cattivi pensieri.
  • Secondo: Esercitati con dedizione.
  • Terzo: Studia tutte le arti.
  • Quarto: Conosci anche gli altri mestieri.
  • Quinto: Distingui l’utile dall’inutile.
  • Sesto: Riconosci il vero dal falso.
  • Settimo: Percepisci anche quello che non vedi con gli occhi.
  • Ottavo: Non essere trascurato neppure nelle minuzie.
  • Nono: Non abbandonarti in attività futili[2].

Se li rileggiamo, e vi chiedo di farlo adesso… a caldo…  noterete, una cosa: è qualcosa di tremendamente attuale, di tremendamente semplice. E’ soprattutto, di una pulizia assoluta.

Per questo motivo, ho deciso come sviluppatore del Sistema Marziale DaoShi, di mettere questi principi alla base di chiunque pretenda un giorno di definirsi insegnante di Arti Marziali o di Sport di Combattimento nel Sistema Daoshi. Chi insegna solo a menare le mani e non fa crescere le menti non è degno di essere chiamato Maestro e nemmeno di insegnare nel mio nome…. E’ una posizione radicale ma almeno è chiara. 

Ma torniamo a Musashi.

È eccezionale notare come anche oggi questo abito mentale sia dotato di enorme suggestività per chi intende sviluppare il proprio potenziale. Ci parla, infatti, di un atteggiamento di fondo.

  • È l’atteggiamento di serietà con cui un calciatore professionista rimane persona umile, cura alimentazione e riposo, rispetto al divo del calcio che assume atteggiamenti da star e si presenta tardi agli allenamenti.
  • È lo spirito di una ragazza che decide di sputare (esatto, sputare) sul modello proposto dai media di cosa sia una ragazza “arrivata” (fotomodella,  star televisiva, protagonista di reality show, anoressica, o bambola da chirurgo plastico) e piuttosto si impegna nello studio, in una professione utile, o in campo sociale, mandando a quel paese il modello che fa coincidere carriera con arcata dentale, natiche e scollatura.
  • È il coraggio di un ricercatore che intraprende vie di ricerca e sperimentazione inusuali ma dalle quali pensa di poter dare una aiuto al mondo, piccolo o grande, anche andando contro i baroni accademici e lo status quo.
  • È la saggezza del lottatore che cura attentamente il suo recupero prima di gettarsi in una nuova battaglia, consapevole del fatto che se non avrà riposato abbastanza non potrà sostenere molte battaglie e si brucerà.
  • È la passione di chi si impegna per una causa, fatica, fa rinunce ma non le rimpiange, e si sacrifica per qualcosa di cui forse non vedrà nemmeno i frutti in vita.

Ma non tutto è solo sacrificio. Le performance sono anche contribuzione, gioia, celebrazione, divertimento, piacere, il gusto di fare qualcosa di importante, essere parte di qualcosa, di lasciare un segno, di compiere imprese assieme a qualcuno e fare team. O la voglia di essere ciò che possiamo essere.

I veri performer sanno anche celebrare i propri risultati e vivere a pieno.

Ciascun precetto di Musashi si riferisce anche oggi ad una o più aree della psicologia delle performance e mantiene una validità assoluta:

Un approfondimento e una riflessione sui 9 Segreti Semplici di Musashi

Primo: Non coltivare cattivi pensieri. L’esercizio di un atteggiamento mentale positivo, il pensiero positivo, la concentrazione su ciò che di buono e utile vogliamo ottenere, allontanarsi da pensieri negativi o dal male; la ricerca di quello che oggi chiamiamo uno “stile cognitivo” efficace.

Secondo: Esercitati con dedizione. Oggi chiamato training, formazione, tecniche di allenamento e addestramento, e soprattutto, la necessità del performer di applicarsi in un active training, cioè in esercitazioni attive e non solo analisi teorica, e farlo con dedizione, nel tempo, e con continuità.

Terzo: Studia tutte le arti. L’approccio enciclopedico, la contaminazione positiva che deriva dall’andare fuori dai propri recinti e studiare le cose più disparate, interessarsi anche di ciò che altre discipline indagano, il contrario della chiusura in un recinto professionale o disciplinare, male odierno, il contrario delle sette, e della cultura dell’egoismo.

Quarto: Conosci anche gli altri mestieri. La capacità di muoversi ed agire anche in campi esterni, l’allargamento del proprio repertorio professionale, sapersi muovere anche fuori dal proprio campo di azione limitato, essere capaci anche in altre abilità e professioni, spaziare, non chiudersi.

Quinto: Distingui l’utile dall’inutile. Concetto similare a quello che nel sistema HPM chiamiamo Retargeting Mental Energy, o ricentraggio delle energie mentali, ciò che permette alle persone di capire veramente cosa merita il proprio impegno e cosa non lo merita, dove centrarsi o ricentrarsi nel proprio focus di attenzione, e quindi verso cosa direzionare le energie personali.

Sesto: Riconosci il vero dal falso. Coltivare le capacità di analisi, la percezione pura e decontaminata da preconcetti e distorsioni, il bisogno di verità, il bisogno di pulizia psicologica, il bisogno di sviluppare le capacità di riconoscimento (detection) indispensabile ad esempio in chi svolge il mestiere di negoziatore o di comunicatore, o in chi guida le persone (leader) o in chi lavora in gruppo (team working). Ed ancora, il bisogno di distinguere fatti da opinioni, teorie accertate da ipotesi, affermazioni personali da idee condivise.

Settimo: Percepisci anche quello che non vedi con gli occhi. La percezione è il fenomeno oggi più centrale in molte forme di psicologia, e comprende sia la propriocezione (capacità di percepire se stessi), che la percezione ambientale. Il settimo precetto di Musashi indirizza verso abilità di percezione aumentata, disambiguamento dalle illusioni percettive, sviluppo della sensibilità umana e sensoriale, ricerca di significati e quadri di analisi (Gestalt), e il potenziamento delle facoltà di osservazione. Tratta quindi di una “percezione allargata”, opposta ad una chiusura percettiva.

Ottavo: Non essere trascurato neppure nelle minuzie. Il bisogno di entrare nelle micro-competenze, la ricerca dell’eccellenza, l’abbandono di un atteggiamento di pressapochismo e banalizzazione. Attenzione ai dettagli che contano, assunzione di un atteggiamento di amore per quello che si fa e per come lo si fa.

Nono: Non abbandonarti in attività futili. Capire che il tempo è prezioso, e dobbiamo veramente decidere se abbandonarci ad uno squallido clone del modo con cui le persone comuni usano il tempo (copiare il mainstream), lasciarsi andare come bastoni sul corso di un fiume di qualunquismo, assecondare la piattezza di ciò che tutti gli altri fanno, o assertivamente prendere in mano il nostro tempo e decidere di farne qualcosa, allenarci, studiare, intraprendere, esplorare, scrivere, condividere, sperimentare nuove conoscenze; ed ancora, capire che esistono diversi macro-tempi, quello della produttività, dello studio, dell’auto-organizzazione, delle relazioni sociali, e quello del recupero, della meditazione, del relax, ma non esistono i tempi delle relazioni obbligate, lo spreco di tempo con persone piatte o arroganti o prepotenti, e vanno riconosciute e rimosse le attività di pura abulia o distruzione di sé.

Le lezioni di Musashi vengono da un performer che ha passato la vita a sfidare la morte, e hanno un significato odierno assoluto.

È ancora più incredibile notare come già nel 1600 Musashi concentrasse tutta la sua analisi su aspetti di enorme attualità: sinergia tra corpo e mente, correlazione tra preparazione fisica e mentale, il fatto che la preparazione o una vittoria sia una conquista personale e non un diritto da pretendere, e che prima si debba cercare un approccio mentale e strategico valido, e solo dopo vengono i dettegli operativi. Una lezione che nel terzo millennio moltissimi sportivi e manager devono ancora imparare.

Quando si dedicano assiduamente tutte le proprie energie all’Hejò e si cerca con costanza la verità è possibile battere chiunque e ovviamente raggiungere la supremazia, sia perché si ha il pieno controllo del proprio corpo, grazie all’esercizio fisico, e sia perché si è padroni della mente, per merito della disciplina spirituale. Chi ha raggiunto questo livello di preparazione non può essere sconfitto[3].

Dobbiamo oggi riflettere sul significato profondo che queste parole assumono: dedizione, ricerca della verità, pulizia spirituale, sono il vero messaggio di fondo. La ricerca della supremazia e della vittoria appartengono ad una realtà medioevale, vengono dall’essere nati in un certo momento storico dove questo significava vivere o morire. Se, in una mattina del 1600, qualcuno si fosse presentato a noi con una spada per ucciderci, sarebbero state drammaticamente importanti anche per noi.

Oggi i nemici veri non portano spade ma, là fuori, si aggirano ringhiando.

Si chiamano miseria, ignoranza, ipocrisia, prepotenza, arroganza, dolore esistenziale, fame, violenza, bambini che soffrono, nepotismi, corruzione, sistemi clientelari – e soprattutto- fonte di ogni male, l’incomunicabilità.

I nemici possono essere anche dentro: presunzione, chiusura mentale, perdita di senso, perdita di stima in sè, perdita di valori, perdita di orizzonti, chiusura verso nuovi concetti, auto-castrazione, smettere di sognare o credere in qualcosa, chiusura della propria prospettiva temporale in orizzonti sempre più brevi e limitati, vivere solo per se stessi.

Contro questi nemici gli insegnamenti di Musashi, e lo spirito guerriero che li anima, hanno ancora enorme senso e validità.

 

Respirare ogni giorno a pieni polmoni uno spirito guerriero per fini positivi è un abito mentale. Alzarsi con questo spirito, andare a dormire con questo spirito, risvegliare gli archetipi guerrieri e direzionarli per costruire, è una sfida nuova, entusiasmante, che fa onore al dono di esistere.

© Daniele Trevisani, articolo elaborato con modifiche dal volume “Il Potenziale Umano” (Franco Angeli editore)

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Ps.   Per chi desidera acquistare il libro di Musashi in Italiano, “Il Libro dei 5 Anelli”, è disponibile anche online sul sito IBS Italia, cliccando qui

Note sull’autore:

dott. Daniele Trevisani (www.danieletrevisani.com), Fulbright Scholar, consulente in formazione aziendale e coaching (www.studiotrevisani.it) insignito dal Governo USA del premio Fulbright per gli studi sulla Comunicazione nel 1990, è Master of Arts in Mass Communication alla University of Florida e tra i principali esperti mondiali in Sviluppo del Potenziale Umano.

In campo marziale e sportivo, è preparatore certificato Federazione Italiana Fitness, praticante di oltre 10 diverse discipline, Maestro di Kickboxing, Sensei (8° Dan DaoShi® Bushido), formatore di atleti e istruttori di Muay Thai, Kickboxing e MMA. E’ stato agonista negli USA nei trofei di Karate Open Interstile.

Formatore e ricercatore in Psicologia e Potenziale Umano, è consulente NATO e dell’Esercito Italiano. Laureato in Dams-Comunicazione, è inoltre specializzato in Psicometria all’Università di Padova.

Ha realizzato docenze in oltre 10 Università Italiane ed estere, ed è il tra i principali esperti italiani nella ricerca sul potenziale umano, nella formazione di manager, di istruttori e trainer per le discipline marziali e di combattimento.


[1] Miyamoto Musashi, 1584-1645, giapponese, considerato nelle arti marziali come il più grande Samurai vissuto in ogni tempo. Ebbe il primo duello mortale a 13 anni, e vinse. Vagò per il Giappone come Ronin (guerriero errante) per anni, battendosi per sessanta volte ottenendo sempre la vittoria, lottando anche contro più avversari contemporaneamente o superando imboscate e duelli con decine di avversari. A 50 anni si ritirò per dedicarsi allo studio, alla letteratura e ad altre discipline artistiche risultando un maestro in molte di esse. Nel­la pittura, nella calligrafia, le sue opere oggi fanno parte del patrimonio artistico giapponese. A 60 anni si ritirò in una grotta per scrivere il suo Manuale. In Giappone oggi è leggenda.

[2] Musashi, Myamoto (1644), Il libro dei cinque anelli (Gorin No Sho), edizione italiana Mediterranee, Roma, 1985, ristampa 2005, p. 61.

[3] Ivi, p. 62.

Arte Marziale e Sport

Contributo del Maestro Samuel Onofri

Direttore Didattico e fondatore del Kihon Aikibudo – http://www.kihon.it/

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Pubblico volentieri questo contributo del collega M° Onofri, su un tema caldo, che trovo raramente dibattuto, e penso sia una stimolo di riflessione straordinario, al di la di qualsiasi sia il proprio punto di vista personale. Un augurio di buona lettura, Dott. Daniele Trevisani www.studiotrevisani.com

Dopo aver dato un rapido sguardo su quelle che potremmo definire come le spinte originarie che hanno portato alla creazione delle principali Arti Marziali, è’ arrivato ora il momento di calarci nella realtà di oggi e di analizzare come si è evoluto e come viene percepito attualmente il concetto di Arte Marziale. Focalizzeremo soprattutto la nostra attenzione sulla differenza sostanziale che intercorre tra Sport e Arte Marziale, tentando di chiarificarne i caratteri distintivi.

Generalmente oggi siamo abituati ad associare qualsiasi attività che implichi un confronto fisico, o comunque lo studio di tecniche finalizzate allo stesso, come forme più o meno moderne di arte marziale. Che esse siano riconosciute come sport olimpici o che siano combattute in una gabbia piuttosto che su un ring o un tappeto; che vengano studiate in un tempio o in una palestra di aerobica, mettiamo tutto nel grande calderone delle Arti Marziali. Effettivamente vi è molta confusione in proposito, e sono cosciente del fatto che quello che sto per dire può disorientare o suscitare risentimento. Vorrei sottolineare quindi subito una cosa. Le considerazioni qui esposte non sono minimamente volte a sminuire in qualche modo ciò che non troverete definito come “arte marziale”, bensì mirano a fare chiarezza sul tema utilizzando dei dati di fatto scaturiti dall’applicazione pratica.

Iniziamo subito con il fare una distinzione tra attività che prevedono gare e non.

Tutto ciò che trova la sua finalizzazione in una gara necessita di regole ben precise, concepite al fine di evitare il più possibile incidenti, e consentire nel contempo la definizione di chi sia il vincitore. Quando si parla di combattimenti il tutto si traduce nell’utilizzo di diversi espedienti quali:

  • Utilizzo di protezioni
  • Tecniche consentite e proibite
  • Arbitraggi
  • Attribuzione di punteggi in base alla tecnica che si ritiene abbia raggiunto il bersaglio
  • Controlli sullo stato di salute dei combattenti, ecc.

Le arti marziali di contro sono nate, se vogliamo definire forse la motivazione primaria, dall’esigenza squisitamente pratica di sopravvivere ad uno scontro.

Nella sua accezione più cruda e senza considerare gli aspetti filosofici che ne scaturirono a posteriori, possiamo affermare che l’arte marziale era una ricerca continua di tecniche utili a restare vivi, il che coincideva sì con la vittoria ma, dal punto di vista individuale doveva essere, per ovvie ragioni, secondario. Nelle arti marziali originarie quindi non vi erano regole o arbitri, o considerazioni del tipo “oggi non mi sento di combattere e mi ritiro dal torneo…”, o “la giuria mi ha penalizzato perché era di parte..” , o “ ho la gamba che mi fa male, meglio rinunciare alle nazionali per prepararmi alle olimpiadi..” ecc. Ogni colpo era buono, ogni momento era buono, ogni contesto era buono e non c’era giusto o sbagliato, né corretto o scorretto, c’era solo vita o morte.

Con questo non voglio dire che le attività agonistiche siano meno “toste” di un’arte marziale definita tale. Anzi, come vedremo in seguito, sotto un certo punto di vista, ed allo stato attuale, potremmo dire il contrario, ma credo che sia importante non confondere le due cose.

Per approfondire e nel contempo rendere più chiari i concetti sopra esposti, credo che sia utile vedere le differenze dal punto di vista pratico facendo l’esempio del Karate e provando a comparare gli stessi momenti di un combattimento analizzati dal punto di vista marziale e da quello agonistico.

Momento Combattimento agonistico Combattimento marziale
Incontro I due contendenti si salutano vicendevolmente e rispettosamente davanti ad una giuria. Entrambi sanno perché sono lì e probabilmente già si sono visti altre volte, o almeno si conoscono sotto gli aspetti tecnici avendo assistito l’uno a gli incontri dell’altro. Il loro scopo è strappare punti e vincere. Due uomini si incontrano. Nessuno sa nulla dell’altro. Non sanno nemmeno se vi sarà uno scontro oppure si saluteranno con cortesia per poi non rivedersi mai più. In ogni caso, entrambe sono pronti a mettersi in guardia e si tengono a debita distanza.
Inizio L’arbitro, appurato che i due contendenti sono pronti ed in posizione, grida : “Ajime!”. Ha inizio il combattimento. Accennando un saluto di cortesia uno dei due uomini si avvicina all’altro accennando ad un inchino. L’altro risponde con la medesima attenta cortesia. Nell’attimo esatto in cui china la testa, però l’altro lo attacca furiosamente con un coltello mirando dritto al collo.
La guardia I due si muovono saltellando sul tatami, attenti a non uscire dal quadrato. L’attenzione dell’uno è completamente focalizzata sull’altro, e i loro movimenti sono sciolti. Sanno che qualunque cosa succeda vi sono ben tre arbitri, medici, pronto soccorso e protezioni, ma soprattutto sono certi di chi e dove sia il loro avversario, e che l’incontro ha una durata fissa, per la quale si sono allenati. L’uomo schiva il fendente allontanandosi e si mette in guardia stabile. Immediatamente la sua attenzione scandaglia la situazione esaminando vari aspetti in poche frazioni di secondo:

  1. Il luogo.
    Controlla cosa vi sia intorno a lui e se potrebbero esserci le condizioni per essere attaccati alle spalle da altre persone.
  2. Il terreno.
    Controlla se la superficie su cui si trova è irregolare o scivolosa, o vi siano ostacoli che gli possano impedire dei movimenti.
  3. Il sole.
    Controlla dove sia il Sole in quel momento. In base a quello deciderà dove muoversi onde evitare di ritrovarselo in faccia.

La sua attenzione non può essere focalizzata solo sul suo avversario perché sa che ce ne potrebbero essere degli altri, e le sue energie le risparmia perché non ha la minima idea di quanto durerà quella assurda situazione.

Scopo Vincere la medaglia, il titolo, il torneo, la coppa ecc. Uscirne vivo.
Obbiettivi tecnici. Ottenere dei punti entrando con dei colpi nella guardia dell’avversario, ma senza affondare, né toccare mai il viso (pena la squalifica). Se non andrà bene la prima tecnica, durante il combattimento ci sarà tempo e modo di rifarsi. Entrambe i combattenti sanno che non basterà entrare con dei colpi, che siano dati con il coltello o a mani nude. I corpi di entrambe sono inondati di adrenalina e non sentiranno né dolore né potenza. Se il colpo non viene portato in punti vitali, l’azione dell’altro non si arresterà ed il combattimento andrà avanti. E’ anche possibile che pur colpendo in un punto vitale, l’altro prima di cadere possa colpire a sua volta e ferire a morte (soprattutto se ha un’arma). Quindi bisognerà colpire con precisione chirurgica punti vitali e, nel contempo, stare molto attenti alla posizione nella quale ci si trova all’atto dell’esecuzione della tecnica e possibilmente allontanandosi immediatamente dopo il colpo.

In ogni caso il combattimento deve essere risolto il prima possibile.

Strumenti Per evitare incidenti, in ambito agonistico, si è deciso di eliminare i colpi più letali e pericolosi e conseguentemente, la rosa delle tecniche consentite è necessariamente limitata. Generalmente nei combattimenti agonistici di karate raramente si va oltre un paio di tecniche di braccia (che di solito sono giakutzuki e uraken) e tre o quattro tecniche di gambe (maegeri, mawashigeri, yokogeri, ushirogeri). Se si va a terra, l’arbitro interverrà, facendo riprendere dalla posizione iniziale, quindi non c’è bisogno di studiare particolari tecniche di caduta (ukemi) o tecniche di combattimento a terra (o da terra). In ambito marziale tutto è consentito, e quindi da tutto bisogna imparare a difendersi. Ogni tecnica può essere utilizzata e ogni strumento può servire a realizzarla, dal coltello al bastone, dal sasso alla polvere. In più i due combattenti, non conoscendosi, non hanno la minima idea del bagaglio tecnico dell’altro. Per sopravvivere bisogna padroneggiare ogni situazione.

Probabilmente nessuno li vedrà e in ogni caso raramente interverrà (onde evitare danni alla sua persona).

Le tecniche utilizzate non avranno nulla di spettacolare, ma saranno portate nella maniera più efficace possibile e nell’ottica del massimo risparmio di energie.

Questo piccolo esempio già ci propone una visione diversa della faccenda. Ovviamente le considerazioni di cui sopra possono essere applicate ad ogni combattimento agonistico, anche i famosi combattimenti senza regole, che apparentemente ci sembrano così veritieri, alla fine si svolgono sulle loro brave superfici piane e delimitate, hanno i loro assistenti, i loro arbitri ecc.

Vista così sembra che tutto fili e che sia lecito pensare che un’arte marziale propriamente detta, studi di fatto, aspetti infinitamente più complicati di uno sport da combattimento, e che sia dunque più difficile e rivolta a pochi “pazzi” eletti.

Ma, proprio in virtu del detto cinese:“ quando sei certo di un punto di vista, quello è il momento in cui lo devi cambiare”,le cose non stanno proprio così.

Il concetto è molto semplice. Un’Arte Marziale, per essere studiata con i presupposti che abbiamo appena espresso, non può prevedere combattimenti veri e propri in sede di allenamento. O meglio può prevedere surrogati che si avvicinano più possibile alla realtà, ma che non arriveranno mai, per ovvie ragioni, alla completa, cruda verità del combattimento per la vita e per la morte. Questa limitazione, in tempo di guerra, era ampiamente compensata dalle battaglie e dai duelli, nei quali si aveva modo di mettere alla prova “veramente” tutto lo studio e gli estenuanti allenamenti a cui si sottoponeva la classe guerriera. Con l’avvento dei periodi di pace, e ringraziamo il cielo per questo, questo genere di test estremi è venuto a mancare; al quesito che metteva in dubbio se fosse o no opportuno il continuare a studiare vecchi sistemi di combattimento, si aggiungeva, come se non bastasse, anche la questione di come continuare a studiare “veramente” l’arte marziale. Le risposte sono state molteplici. Molti, come abbiamo detto, hanno preferito buttarsi nell’agonismo, ritenendo indispensabile una qualche forma di scontro diretto, mediante il quale si potesse, effettivamente mettere alla prova la propria crescita tecnica, se pur consapevoli delle limitazioni a cui sarebbero andati incontro (vedi sopra). Altri hanno preferito una soluzione mista continuando a studiare kata e tecniche tradizionali, ma mettendosi comunque in gioco in qualche gara; altri ancora, in fine hanno scelto di continuare con il metodo tradizionale, aborrendo l’agonismo e coltivando la disciplina come anticamente veniva fatto. Per le prime due categorie vi erano dunque delle prove da affrontare contro avversari che certamente non avevano nessuna intenzione di soccombere o perdere, mentre le scuole che avevano scelto la terza opzione, non dovendosi “scontrare” con nessuno se non con membri della propria scuola, potevano, per così dire, stabilire le proprie regole e le proprie limitazioni in maniera del tutto indipendente ed autonoma. Sostanzialmente era il Maestro che stabiliva quale fosse la didattica per lui più conveniente e produttiva. Insomma il Maestro di una scuola tradizionale, rappresentava, per i suoi studenti, la Legge insindacabile.

Si ponevano a quel punto due problemi di fondamentale importanza. Il primo era che tale legge non poteva essere messa alla prova, dato che non erano previsti confronti con altre scuole (e altre leggi). Al massimo ci si incontrava, come succede tuttora, per dei seminari o degli allenamenti collettivi nei quali ci si scambiano tecniche e sudore evitando accuratamente critiche e confronti.

Il secondo, ma non ultimo, era che elementi come veridicità dei messaggi, efficacia delle tecniche, valore della didattica in termini di crescita degli studenti, interpretazione del messaggio originale della disciplina ecc., erano interamente affidati ad un singolo individuo: il Maestro appunto. Ora… fin quando il Maestro può considerarsi veramente tale (ed in seguito parleremo ampiamente anche su questo tema) tutto fila; i problemi si possono verificare quando la persona che insegna non possiede quel bagaglio di esperienza tale da poter affrontare certi temi con cognizione e con perizia, e va avanti per supposizioni o, peggio ancora per teorie lette o dette senza essersi preoccupato di testarle sulla propria pelle, il che è già pericoloso quando si tratta di tecniche, figuriamoci quando la materia in questione è l’etica o peggio le interpretazioni filosofiche di ciò che si sta studiando.

Anni fa lessi in un libro, di cui volutamente non cito né titolo né autore, un concetto singolare. L’autore affermava in sostanza che, dato che un particolare attacco circolare poteva essere parato in un certo modo, quella era la maniera più indicata di fronteggiare qualsiasi altro tipo di attacco circolare. Sulla carta tutto fila, dato che in termini di linee e di forze non apparivano grosse differenze, peccato che se poi si tentava di mettere in pratica la lezione, si finiva subito in infermeria. Con tutta probabilità l’autore, di cui, a parte queste piccole defaillance riconosco però il valore come scrittore, come storico e come ricercatore, aveva “dedotto”, in maniera teorica e logica, delle azioni che custodivano invece, nel loro svolgimento reale, molte sfumature e variabili che solo la pratica poteva evidenziare.

Di esempi del genere se ne potrebbero fare all’infinito, e in ogni caso torneremo sulla questione più avanti. Per il momento, tornando alla tema principale di questo paragrafo, mi sembra che ora possiamo essere nella condizione di affermare che non sempre, un’arte marziale studiata in maniera tradizionale e senza agonismo o incontri, possa effettivamente essere studiata in maniera seria ed esauriente, in quanto la sua didattica dipende essenzialmente da un solo Maestro e non può essere, di fatto messa alla prova in senso realistico. Ne consegue quindi che, di fatto a tutt’oggi si trovano molto più spesso elementi realistici e vicini alla tecnica originale in una competizione sportiva, che in una dimostrazione di uno stile tradizionale. Di contro l’agonismo esige anch’esso il suo scotto da pagare limitando per forza di cose le azioni e le tecniche originarie trasformandole ed adattandole alle finalità della vittoria, ben diversa (lo abbiamo detto) da quella della sopravvivenza. In proposito cito ancora un esempio che a mio parere può rendere chiaro il concetto. Tempo fa fu organizzata in Tailandia un confronto tra studenti di Kung Fu e Combattenti di Thai Box. Ora.. se andiamo ad analizzare singolarmente i due metodi di combattimento, risulta fin troppo chiaro che il Kung Fu sia estremamente più raffinato e complesso. Ricco di tecniche e sfumature, di stili che si intersecano e di escamotages, inganni e strategie. La Thai Boxe, di contro appare come uno stile rozzo, anche abbastanza grossolano nelle tecniche e nelle guardie. Bhe, volete sapere come è andata?….. Gli studenti di Kung Fu furono letteralmente massacrati dagli atleti di Thai Boxe. Il bello è che i praticanti di Kung Fu furono totalmente spiazzati dalla cosa e non si riuscivano a spiegare il perché di tale catastrofico esito. La risposta era semplice quanto potente: gli atleti di Thai Boxe avevano sì una tecnica più rozza, ma erano abituati a metterla in pratica veramente. Per loro un calcio preso era naturale come respirare, il sangue era pane quotidiano, la fatica la loro vita, la violenza la loro compagna. Gli studenti di Kung Fu, al contrario, pur avendo anni di allenamento durissimo anche loro alle spalle, avevano studiato con avversari immaginari o magari con bersagli inerti, senza mai cimentarsi veramente in un combattimento reale e dove i colpi si scambiavano senza sconti. La cosa incredibile è che, dopo quella manifestazione, tutti sono convinti che la Thai Boxe sia più efficace del Kung Fu, il che non è vero affatto. Il problema di quell’incontro, sono convinto che sia stato che agli studenti di Kung Fu siano stati consegnati nelle mani strumenti estremamente raffinati da subito, senza farli passare attraverso percorsi più semplici e diretti. In più i metodi insegnati loro, erano frutto di interpretazioni di tecniche e concetti, a loro volta interpretati da altri attraverso i secoli (sempre in tempo di pace) e, soprattutto, senza che nessuno li mettesse mai realmente alla prova. Tecniche che anticamente si erano dimostrate in battaglia armi micidiali, si erano trasformate, nel tempo, in movimenti eleganti ed armonici, ricchi di volteggi e pose plastiche veramente belli da vedere, ma completamente inefficaci se utilizzati in una situazione reale. Gli atleti di Thai Boxe, al contrario avevano strumenti più grossolani, ma continuamente messi alla prova sul ring e senza complimenti. Potremmo dire senza difficoltà che la Thai Boxe non si è scontrata con il vero Kung Fu, ma con un suo surrogato addolcito dal tempo.

Del resto, dove viene a mancare la sostanza, cresce la forma, e questo non è solo un problema che ha a che fare con le arti marziali, ma con tutte le cose che, non più applicate realmente, tendono ad essere eccessivamente teorizzate.

Attenzione però, non è assolutamente certo che i Thai Boxers tailandesi uscirebbero vivi da una situazione di reale pericolo, condita magari di coltelli e armi varie. Non preoccupatevi, una soluzione possibile c’è, ma ne parleremo in seguito, per ora continuiamo nell’analisi dell’Aikido seguendo il metodo Kihon.