© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Negoziazione interculturale. Comunicare oltre le barriere culturali. Dalle relazioni interne sino alle trattative internazionali”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore
Gli atteggiamenti creano il rapporto
Un aspetto fondamentale della negoziazione, spesso trascurato, è la comunicazione non verbale che avviene tra i partecipanti. Il linguaggio del corpo può esprimere una grande varietà di significati, che “trasudano” e irrompono nella negoziazione anche senza il controllo diretto dei soggetti.
Il negoziatore attento a misurare le parole può essere poco consapevole del livello non verbale, e dello scambio “sotterraneo” di messaggi che il corpo e le espressioni facciali lasciano filtrare.
I canali principali attraverso i quali il negoziatore può lanciare messaggi sono composti dal sistema paralinguistico (aspetti vocali della comunicazione, escluso l’aspetto linguistico, come i toni, gli accenti, i silenzi, le interiezioni), dal body language (il linguaggio del corpo), e dagli accessori personali, incluso l’abbigliamento e il look generale.
Per negoziare a livello interculturale è necessario creare rapporto, e gli atteggiamenti corporali sono in grado di esprimere con forza il gradimento per l’interlocutore, così come il disgusto e la sofferenza emotiva.
L’atteggiamento percepito nell’altro dipende in larga misura dal “come” viene espresso il comportamento, piuttosto che dal contenuto linguistico, il quale rimane alla superficie del rapporto stesso. In profondità, il rapporto è determinato dagli atteggiamenti del corpo e del volto, dagli sguardi, dalle espressioni facciali, e più in generale da tutto il repertorio non verbale del comunicatore.
Ad esempio, è stato notato come sia più facile dare del “tu” a qualcuno che porta una cravatta slacciata, piuttosto che una cravatta rigorosamente allacciata.
Evidentemente il fatto di essere “morbidi” o non rigorosi nell’abbigliamento crea una sensazione di minore rigidità e maggiore tolleranza verso comportamenti amicali. Con questo non si vuol dire di portare una cravatta allacciata o slacciata, ma semplicemente confermare che gli atteggiamenti incidono sul rapporto, e che tra gli atteggiamenti vi sono anche dettagli apparenti quale il grado di allacciatura di una cravatta, o la rigorosità dell’abbigliamento.
Pertanto, il negoziatore interculturale deve sempre considerare la possibilità che alcuni segnali di atteggiamento utilizzati nella propria cultura siano colti in modo anche diametralmente opposto in una cultura diversa.
Le escalation e le de-esclalation
Atteggiamenti non verbali e corporei sbagliati possono portare facilmente ad una escalation (salita di tensione, nervosismo e irritazione), mentre il compito del negoziatore interculturale è quello di creare de-escalation: moderazione dei toni, clima rilassato, ambiente favorevole alla negoziazione.
Si escludono da questi principi unicamente i setting nei quali volutamente si voglia creare tensione, che non costituiscono la norma e devono essere trattati a parte, come tecniche speciali da usare con cautela.
L’obiettivo generale della negoziazione interculturale è di essere efficaci e raggiungere risultati, il che prevede generalmente un clima di cooperazione.
Obiettivo del negoziatore interculturale è di attivare “di default” (come posizione di partenza di ogni negoziazione) le conflict deescalation procedures, le prassi che portano ad una situazione negoziale non conflittuale[1].
Quali sono queste prassi? In generale, ogni cultura usa regole non verbali diverse, e pertanto sarebbe necessario un manuale per ogni nazione o cultura con cui si deve trattare.
In assenza di precise indicazioni che provengano da conoscitori aggiornati della cultura stessa, possiamo utilizzare come base di partenza alcune regole generali di buona comunicazione per ridurre il potenziale di errore, come esposto dal Public Policy Center della University of Nebraska[2]:
- tono di voce pacato, non aggressivo;
- sorriso, esprimere accettazione dell’altro;
- espressione facciale di interesse;
- gesti aperti;
- permettere alla persona con cui si sta parlando di dettare le distanze spaziali tra di voi (le distanze spaziali variano ampiamente da cultura a cultura);
- annuire, dare cenni di assenso;
- focalizzarsi sulle persone e non sui documenti presenti sul tavolo;
- piegare il corpo in avanti in segno di interesse;
- mantenere una condizione di relax;
- tenere una posizione a L, disporsi non di fronte (posizione confrontazionale), ma su due lati vicini del tavolo.
Teniamo a sottolineare che queste indicazioni di massima sono solo “possibili opzioni” e devono essere di volta in volta adattate alla cultura di riferimento.
Il body language
Il corpo parla, esprime emozioni e sentimenti. Anche i tentativi di bloccare queste emozioni e sentimenti sono essi stessi “metamessaggi”, vedere una persona che non esprime alcuna emozioni, il quale agisce come “mummia emotiva”, è di per se un segnale che porta a specifiche riflessioni.
Il body language riguarda:
- la mimica facciale e le espressioni facciali;
- i cenni del capo;
- i movimenti degli arti e la gestualità;
- i movimenti del corpo e le distanze;
- il tatto e il contatto fisico.
Le differenze culturali su questi punti possono essere molto ampie. Le culture variano molto sul tipo di gestualità. In una negoziazione italo-cinese si possono notare evidenti differenze tra la gestualità italiana (mediamente più ampia) e quella cinese, più contenuta, così come nelle espressioni facciali, più evidenti per l’Italia e più contenute per la Cina.
Su cosa sia meglio fare non esistono regole auree, ogni scelta è strategica e legata al contesto del momento, alle “appropriatezze contestuali”.
Il contatto fisico è uno degli elementi più critici e difficili da trattare sul piano interculturale.
Mentre alcuni standard occidentali di contatto fisico si diffondono nell’intera comunità di business (es: il dare la mano), ogni cultura esprime un diverso grado di contatto nel saluti e nelle interazioni.
Gestire abbracci, baci, toccare il corpo, sapere chi può toccare chi, rimane un punto difficile, da risolvere soprattutto ricorrendo ad una analisi della cultura locale. In generale, qualora non sia possibile raccogliere informazioni accurate da esperti della cultura locale, è suggeribile limitare il contatto fisico per non generare senso di invasività.
Le distanze personali
Sul fronte della negoziazione le implicazioni sono numerose: porsi vicino o lontano dall’interlocutore è un preciso messaggio negoziale. Porsi di fronte o di lato, o persino sullo stesso lato, è un’altra forma di messaggio.
Ogni cultura ha regole non scritte per delimitare i confini di accettabilità delle distanze interpersonali e delle disposizioni delle persone.
Anche in questo caso, vale il principio di ricorrere alla conoscenza di esperti della cultura locale, mentre una regola valida in caso di mancata conoscenza è quella di lasciare che sia la controparte a definire il proprio grado di distanza, senza forzare nè un avvicinamento nè un allontanamento.
Le distanze critiche umane hanno una base animale e una forte varianza culturale, con le culture arabe e latine spesso maggiormente “vicine” e le culture anglosassoni molto “lontane”. La distanza personale è come “una bolla invisibile che circonda l’organismo”[3]
Per il negoziatore consapevole, non è da intendere come pura sottomissione, ma può assumere anche la funzione di mossa tattica, atto di cortesia relazionale che precede il confronto negoziale vero e proprio. Far stare scomodi, al contrario, serve per stabilire forti distanze.
La tattica adeguata è quella di esigere un grado di comfort superiore, ma solo se si ha la quasi matematica certezza che una specifica mossa sia in corso, e quelle non siano le reali condizioni massime di accoglienza che il soggetto è in grado di offrire.
La disposizione delle persone frontale è in genere ritenuta confrontazionale, mentre a fianco è considerata maggiormente collaborativa, e sullo stesso lato “tra pari”. Come evidenzia Hall, “ogni animale ha bisogno di uno spazio critico, senza il quale la sua sopravvivenza è impossibile”. In termini negoziali, lo spazio da considerare è sia a livello ambientale, che psicologico.
I canali paralinguistici
La paralinguistica riguarda tutte le emissioni vocali che non siano riconducibili strettamente a “parole”, e comprende:
- il tono della voce;
- il volume;
- i silenzi;
- le pause;
- il ritmo del parlato;
- le interiezioni (brevi emissioni, tipo ehm, uhm…).
La paralinguistica stabilisce la punteggiatura del parlato, e contribuisce a trasmettere le informazioni emotive. Messaggi quali “sono teso”, “sono arrabbiato” o “sono ben disposto”, trasudano più dal sistema paralinguistico che dal sistema linguistico.
Una frase può portare con sè significati completamente diversi che dipendono dall’enfasi su parole ed il tono di voce.
La formazione ed il training non verbale
L’addestramento all’uso del paralinguistico richiede un training sull’uso strategico delle pause e dei toni. In generale, la formazione per il non verbale prevede l’accesso a tutti i repertori delle tecniche teatrali e dell’attore, il metodo Stanislavskij e altri metodi di formazione teatrale, gli unici veramente in grado di agire in profondità sulla trasformazione dei comportamenti espressivi.
Un training adeguato può essere utile per addestrare il negoziatore a cogliere il tremore della voce altrui (sintomo di nervosismo e stress), e le reazioni non verbali alle proprie affermazioni, ad agire “teatralmente” tramite movimento, pause e alternanze di ritmi per dare enfasi a parti del discorso e ai punti chiave da fare emergere.
Come per ogni altro compito manageriale, senza una adeguata preparazione le chances di essere competitivi sul piano negoziale calano quando gli equilibri di competenze sono sbilanciati. All’aumentare del divario tra il nostro training e il grado di training della controparte, aumentano i rischi di esito sfavorevole di ogni negoziazione.
I canali allargati
Alcuni luoghi comuni nei campus universitari multiculturali sono che i bianchi “sanno di pollo”, gli asiatici “puzzano di aglio”, i neri “sanno di sudore”, e altri stereotipi curiosi.
Le differenze olfattive sul piano etnico e genetico sono realmente esistenti, ma l’olfatto percepito è determinato in larga misura da fattori culturali quali l’alimentazione, la pulizia o l’uso di profumi.
Le emissioni olfattive personali sono uno strumento di comunicazione.
È certo che l’olfatto incide sulla percezione, e che l’alimentazione produce essenze che trasudano dalla pelle e dal fiato. Questi aspetti sono da curare per chi vuole gestire ogni aspetto, anche i minimi dettagli, della negoziazione interculturale e più in generale del contatto umano
La risposta non è quella di divenire manager iper-profumati avvolti in nubi di essenza alla fragola, ma una gestione consapevole delle odorizzazioni conscie e subconscie.
Anche l’odore della stanza in cui si negozia, le percezioni olfattive incontrare lungo il percorso, nei corridoi, nei parcheggi e piazzali formano la “people perception” complessiva (l’immagine dell’altro).
Tutto ciò che si può attribuire in qualche misura al soggetto o all’ambiente aziendale incide sulla percezione e sull’immagine. Alcune catene di abbigliamento sono ricorse alla odorizzazione mirata dei punti di vendita per creare un clima più rilassato e piacevole (marketing olfattivo ambientale).
I segnali di fiducia e sfiducia, la percezione delle emozioni altrui, sono quindi da affinare soprattutto nella capacità del negoziatore di cogliere i movimenti facciali emotivamente incontrollati, il timbro vocale e le rotture del tono della voce che segnalano stress vocale ed emotivo.
Esistono implicazioni pratiche per una odorizzazione personale consapevole – evitare cibi che possono dare luogo a forti emissioni tramite il fiato, evitare profumazioni personali eccessive, essere consapevoli degli odori personali (es, sudore), considerare dell’importanza di un marketing ambientale olfattivo adeguato.
In termini allargati, la comunicazione non verbale comprende anche i comportamenti tenuti durante l’interazione negoziale, le azioni su oggetti, uso e manipolazione di strumenti. Ad esempio, durante una vendita in cui si dimostri come funziona uno strumento, rappresenta un messaggio (e quindi una forma di comunicazione) anche la perizia ed abilità con cui si manipola uno strumento. Ed ancora, quando si prendono appunti, il nostro interlocutore può prestare attenzione alla cura con cui si scrive, ai i tic sulle penne, alla precisione dimostrata nel disegnare uno schema.
Gli elementi di comunicazione simbolica
Della storia reale dei soggetti possiamo conoscere praticamente niente, eccetto i simboli che scorgiamo e dai quali traiamo possibili significati e associazioni.
La comunicazione simbolica riguarda i significati che le persone associano o recepiscono da particolari “segni” che notano nell’interlocutore e nel suo spazio comunicativo. Per spazio comunicativo intendiamo qui ogni area di elementi che venga attribuita al “sistema” del soggetto, alle sue possibili espressioni consapevoli o meno, come la sua macchina, o lo sfondo del suo PC, e qualsiasi altro segno da cui ricaviamo inferenze, significati, interpretazioni.
Dal punto di vista semiotico, diventa “segno” ogni elemento dal quale un soggetto trae significati, sia che il portatore ne sia consapevole o meno[4].
Look, abbigliamento e accessori sono tra i fattori più incisivi per costruire immagine personale.
Le differenze o similarità di abbigliamento fanno rientrare un soggetto all’interno degli ingroup professionali (“uno come noi”, gli “uguali”) o degli outgroup (“uno diverso da noi”), qualsiasi cosa rappresenti per il soggetto il “noi”.
Tra gli elementi primari di comunicazione simbolica troviamo l’abbigliamento, i capelli e l’acconciatura, i gioielli, orologi, strumenti professionali (telefoni, PC portatili e altri strumenti informatici), ma anche i segni sul corpo (tagli, abrasioni, tatuaggi), lo stato della pelle (cura, presenza di barba e suo stato, trucco, peli nel corpo e nel volto, colore della pelle, abbronzatura, sudore).
In un sistema di significazione allargata, diventano importanti anche le simbologie che esprimono i marchi utilizzati, il tipo di auto (da lavoro, da città, fuoristrada, sportiva, lussuosa), le griffes, e persino gli arredi degli uffici, i quadri appesi alle pareti, l’arredamento.
Costituiscono segnali allargati anche i comportamenti cronemici (il seguirsi delle azioni nel tempo), come la frequenza che notiamo nel cambiarsi d’abito, la puntualità, la tranquillità o nervosismo nel modo di guidare, i tempi che una persona impiega nel mangiare o nel bere (lento e calmo vs. veloce e vorace).
Anche il tempo che una persona impiega a rispondere ad una domanda può essere significativo: risposte lente o troppo meditate possono essere interpretate come poco sincere nelle culture occidentali, oppure al contrario sagge e ponderate in culture “ad alto contesto” come quelle orientali.
Si può dire che nel campo della comunicazione interculturale nulla sfugge all’osservazione dell’interlocutore, e ogni “segno” contribuisce alla sua classificazione e valutazione.
La varianza dei colori tra culture
Un elemento ulteriore di comunicazione simbolica è dato dall’uso dei colori. Anche l’uso dei colori e i simbolismi associati ai colori variano a seconda delle culture.
Il giallo viene associato nei paesi occidentali ai segnali di attenzione, mentre in Cina rappresenta la ricchezza e l’autorità. Il viola rappresenta in America Latina un colore funebre (la morte) mentre in Europa si associa alla regalità, ai velluti preziosi delle corti.
Il principio base per evitare macroscopici errori è l’uso del pre-test, della “prova pilota” su alcuni soggetti, piccoli campioni, persone rappresentative della cultura locale che siano in grado di dare feedback sulla appropriatezza dei colori, delle forme e dei simbolismi, dei messaggi, visti dall’interno della cultura stessa.
Il metodo del pre-test vale anche per la scelta di regali, doni, e ogni altra azione simbolica il cui impatto possa variare su base culturale.
Lo stile linguistico e lo stile non verbale
La comunicazione non verbale può rinforzare il messaggio verbale o essere dissonante rispetto a questo.
Ascoltare attentamente e dare cenni di assenso può segnalare interesse molto più di una semplice dichiarazione verbale. Dire “sono interessato” con le parole ed esprimere noia o disgusto con le azioni del corpo produce un segnale dissonante e crea sospetto o irritazione.
La coerenza (matching) tra parole e azioni:
- aumenta l’onestà percepita del soggetto;
- denota fiducia (trustworthiness);
- dimostra interessamento;
- mostra che siamo in controllo della situazione;
- produce senso di sicurezza e solidità dei contenuti.
Al contrario, l’incongruenza:
- crea senso di sfiducia;
- genera sensazioni di scarsa autenticità;
- produce dubbi e sospetti di falsità sui contenuti verbali ascoltati.
Ogni stile linguistico (a livello interpersonale), si associa ad una precisa modulazione dello stile non verbale. Possiamo infatti avere:
- situazioni di rinforzo comunicativo (lo stile non verbale rafforza lo stile verbale);
- situazioni di dissonanza o incongruenza tra verbale e non-verbale: la comunicazione non verbale procede su un registro diverso rispetto a quella verbale).
Le dissonanze riguardano ogni sistema semiotico, ogni segno portatore di possibili significati. Un’azienda che si dichiari importante e non abbia un sito internet, o abbia un sito amatoriale, esprime una dissonanza d’immagine, così come un negoziatore dimentichi di portare con sè strumenti indispensabili (cataloghi, calcolatori, e ogni altro strumento necessario e atteso).
I segnali non verbali negativi dell’interlocutore
I segnali non verbali, come la tensione ed il disinteresse, possono indicare che l’interlocutore stia seguendo con atteggiamento positivo o negativo il dialogo. Le reazioni negative in generale sono denotate da:
- angolazioni del corpo: spalle ritratte, allontanamento;
- volto: teso, dimostra rabbia;
- voce: tono negativo, silenzi improvvisi;
- mani: movimenti di rifiuto o disapprovazione, movimenti tesi;
- braccia: tese, incrociate sul petto;
- gambe: incrociate o che si allontanano nell’angolazione.
[1] Le tecniche di deesclation vengono utilizzate in vari contesti, ad esempio da parte delle forze dell’ordine per calmare litigi familiari rissosi, vedi ad esempio Ogle, Robbin S., e Beichner, Dawn (2003). A Legal and Policy Argument for Bail Denial and Preventative Treatment for Batterers. 2003 American Society of Criminology Conference. Department of Criminology and Criminal Justice, University of Maryland.
[2] Nebraska Disaster Behavioral Health, University of Nebraska, Public Policy Center.
[3] Hall, Edward T. (1988). La dimensione nascosta. Milano, Bompiani. Tit. orig. “The Hidden Dimension” (1966).
[4] Cfr. Eco, Umberto (1975) Trattato di Semiotica Generale. Milano, Bompiani.
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