© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Psicologia di marketing e comunicazione. Pulsioni d’acquisto, leve persuasive, nuove strategie di comunicazione e management”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore
L’avversione alla perdita
Una delle principali caratteristiche del comportamento del consumatore è l’avversione alla perdita (loss aversion). Diverse ricerche indicano che nel consumatore, in media l’avversione alla perdita è superiore alla propensione al guadagno[1]. Le persone spesso richiedono un compenso maggiore per privarsi di un oggetto, rispetto a quello che sarebbero disposte a pagare per esso (effetto denominato endowment effect)[2]. Inoltre, le persone si differenziano in termini di propensione al rischio. Ipotizziamo di trovarci di fronte ad una scelta tra alternative. In un gioco a testa o croce, ci vengono fatte due proposte tra cui dover scegliere:
- l’opzione (A) consente di guadagnare 1000 dollari se vinciamo o vincerne comunque 100 se perdiamo;
- l’opzione (B) implica perdere 200 se si perde o vincere 2000 se si vince.
Cosa scegliereste? A o B ? In base a scelte di questo tipo, è possibile misurare la propensione al rischio (risk-taking) delle persone e degli imprenditori. Chi ha un basso livello di risk-taking tenderà a scegliere (A), la scelta sicura, mentre chi possiede un livello alto di risk-taking tenderà a scegliere (B), meno sicura ma dai potenziali di guadagno più alti.
La loss aversion è anche un fattore sociale e culturale, oltre che personale. Vi sono culture che premiano il “non prendere rischi” e favoriscono il lavoro dipendente rispetto al lavoro autonomo o la creazione d’impresa[3].
La perdita sul mercato si configura ogniqualvolta il cliente ritenga di aver esborsato denaro o altre risorse avendone ricevuto una prestazione non corrispondente. Si basa quindi su un meccanismo di calcolo differenziale di guadagni e perdite che si instaurano in una transazione.
Quanto guadagno e quanto perdo se scelgo questa linea di azione? Cosa mi costa acquistare, cosa mi costa non farlo? Riceverò in cambio ciò che spero?
Per risolvere alcuni di questi problemi, le persone attuano meccanismi di ricerca di informazioni. Il fabbisogno di informazioni e la ricerca di informazioni (information seeking) è connaturato al tentativo del cliente di evitare una perdita potenziale. Esso rappresenta una condizione comune nei momenti di scelta, nella quale il terrore di avviarsi verso una perdita viene in un certo senso monitorato, previsto e contabilizzato.
Ogni processo di ricerca rappresenta un momento di uncertainty reduction (riduzione dell’incertezza decisionale), e si prefigge di raggiungere la condizione psicologica che permette di prendere una decisione con serenità, avendone valutato tutti i pro e contro, e sentendo di aver fatto il possibile per decidere al meglio.
La ricerca di informazioni
Diversi studi hanno evidenziato la presenza di un search cost effect (il costo della ricerca di informazioni): l’acquirente cercherà ulteriori informazioni solo fintanto che il costo marginale della ricerca non eccede il beneficio marginale ricavabile dall’informazione.
Le ricerche di informazioni, per una singola scelta, non possono durare tutta la vita. Ad un certo punto si fermeranno, considerato il tempo e costo necessario per la ricerca stessa, in comparazione a quanto vi sia in gioco in termini di acquisto.
Vi sono molti casi, tuttavia, di mancanza di equilibrio manageriale nel tempo dedicato a valutare la bontà delle proprie spese e decisioni, soprattutto in campo aziendale. A volte decisioni miliardarie o dagli effetti potenzialmente devastanti sull’azienda (in caso di errore) vengono prese senza perdere tanto tempo nella ricerca di informazioni indispensabili, mentre per decisioni tutto sommato stupide ed ininfluenti si perdono intere giornate in riunioni, o si investono somme ingenti in consulenza, in tempo manageriale e complesse ricerche.
I costi di ricerca possono essere analizzati secondo diversi parametri (disgiunti o congiunti):
- costi monetari: ammontare economico, costi monetari di ricerca;
- costi temporali: quantità di ore/uomo necessarie per la ricerca delle informazioni;
- costi cognitivi: interni al buyer, riflettono lo sforzo mentale necessario per impostare una buona ricerca, dividere e valutare le informazioni in ingresso, ed integrarle con informazioni preesistenti.[4]
I consumatori si trovano spesso, oggi, nell’incapacità di elaborare tutta l’informazione presente sui mercati, particolarmente nei settori caratterizzati da rapida innovazione e cambiamenti tecnologici.
Il commercio elettronico e i canali internet accrescono a dismisura il mercato di offerta e l’informazione disponibile, così che per un determinato acquisto, mentre in passato esisteva solo il negozio del paese (e non si poteva comprare altro che lì), oggi esistono innumerevoli potenziali punti di vendita e fonti informative. L’esito è un possibile overload informativo, un eccesso di dati che il soggetto non riesce più a manipolare. Questo confonde il consumatore e crea un senso di inadeguatezza.
I consumatori devono quindi apprendere nuove competenze:
Principali competenze di ricerca dell’acquirente consapevole:
- capire cosa si cerca veramente nel prodotto/servizio (far esplodere la propria wish-list) e razionalizzarne le scelte (capire che tipo di acquisto si sta compiendo: autogratificativo, utilitaristico, simbolico, ecc.);
- scegliere in quali fonti ricercare (dove e come si può trovare l’informazione utile a far luce sulla bontà della decisione); possedere un ampio repertorio di fonti informative;
- apprendere a decidere quanto tempo dedicare ad una ricerca di informazioni necessarie all’acquisto, quanto sforzo è necessario, a che punto occorre fermarsi;
- decidere quanto tempo trascorrere presso le singole fonti di ricerca, quali meritano più attenzione, quali sono dispersive, vuote o superficiali;
- saper individuare il momento in cui si dispone delle informazioni sufficienti per decidere, ed è opportuno arrestare la ricerca per poter dedicare il proprio tempo ad altro (evitazione della dispersione di energie cognitive, utilizzo ottimale del tempo);
- discriminare l’affidabilità delle fonti (discernere tra informazioni di qualità e informazioni poco attendibili), come diagnosticarne la credibilità della fonte.
Questo curriculum di studi dovrebbe essere presente in ogni percorso scolastico di base, intermedio e superiore. Se si pensa a quanto tempo si perde nelle scuole per apprendere informazioni che non si utilizzeranno mai, e quanto tempo non si impiega ad apprendere come acquistare bene (azione che si compie ogni giorno della propria vita) viene da chiedersi se non vi sia una regia occulta che determina questo stato di cose, o se si tratti semplicemente di ignoranza o incapacità politica.
Le informazioni diagnostiche
Le informazioni raccolte sui possibili fornitori o sui prodotti non hanno tutte lo stesso peso. Infatti, nei processi di scelta solo le informazioni altamente diagnostiche hanno il potere di generare fiducia nelle proprie valutazioni (van-Wallendael, 1995)[5]. La diagnosticità di un’informazione riguarda la sua pertinenza rispetto alla capacità di discriminare le caratteristiche ricercate. Ad esempio, nell’acquisto di un computer, la composizione chimica della vernice esterna non ha un potere diagnostico, ma lo avranno i termini di garanzia, le prestazioni assicurate, la velocità, e altre informazioni. Il marchio visibile su un prodotto (ad esempio uno zaino da scuola) può essere del tutto ininfluente per un genitore, e assolutamente strategico per la figlia, influenzata dalla moda del momento e dal fatto che tutte le amiche nella classe hanno quello zaino, e non uno zaino qualsiasi.
Il problema del rapporto tra informazione e consumo non è affatto lineare. Infatti la qualità della decisione migliora al crescere della quantità di informazione posseduta, ma solo in linea teorica. Nella realtà, quando la quantità di informazione eccede la capacità elaborativa, il decisore viene sovraccaricato da informazioni, rendendo il processo decisionale lungo e difficoltoso (overload informativo). Il consumatore si trova quindi costretto a ridurre e scegliere le proprie fonti informative.
Questo porta spesso ad affidarsi alle proprie relazioni, a rivolgersi ai consigli degli altri, ad osservare quanto fanno gli altri, per un aiuto nella scelta, sfruttando, in un certo senso, la fatica decisionale già svolta da altri.
Sheth e Parvatyar (1995)[6] hanno analizzato le tematiche del Relationship Marketing, evidenziando che i consumatori utilizzano la propria rete di conoscenze per ridurre le scelte possibili (ricerca di suggerimenti, osservazione del comportamento già svolto da altri, imitazione). Lo scopo sottostante è l’intento di semplificare i compiti di consumo e acquisto, ridurre la necessità di information processing, diminuire il rischio percepito e mantenere la consistenza cognitiva e il comfort psicologico, riducendo l’ansia di scegliere.
Qualsiasi scelta di acquisto ha un margine di errore (che il consumatore cercherà in vari modi di ridurre) e produce timori di perdita in chi la compie.
Le perdite possono distinguersi in perdite assolute e in perdite relative. Una perdita assoluta accade quando la prestazione ricercata non viene ottenuta affatto. Ad esempio, acquisto un nuovo sistema operativo per il mio PC per ottenere più stabilità, e ottengo meno stabilità (prima si bloccava due volte al giorno, adesso quattro). Una perdita relativa si ottiene quando, successivamente all’acquisto, il consumatore si accorge che era possibile trovare lo stesso prodotto, ma ad un prezzo migliore, o a condizioni migliori, o che un prodotto concorrente offriva prestazioni migliori allo stesso prezzo, oppure ancora il prodotto fornisce una prestazione inferiore alle aspettative. Ad esempio, scopro che un negozio della stessa città offriva quelle scarpe speciali da escursione, che stavo cercando, con uno sconto del 40%. Oppure ottengo un miglioramento nella velocità di connessione molto basso rispetto all’investimento fatto per acquistare la nuova linea di telecomunicazione.
Il consumatore ricercherà sia di evitare una perdita assoluta (acquistare un prodotto che non risolve il problema), che evitare una perdita relativa (situazione in cui il prodotto raggiunge solo parzialmente il suo scopo, o vi è la percezione che il problema potesse essere risolto con minore esborso di risorse). Per farlo, ricercherà informazioni diagnostiche utili ad orientarsi. Accumulate le informazioni necessarie, quindi, deciderà.
Pertanto, il modello di decisione formalizzato è sostanzialmente basato sul processo di input-elaborazione-output.
Kotler, in un classico del marketing[7], evidenzia uno schema di acquisto così composto:
- Percezione del problema
- Ricerca di informazioni
- Valutazione delle alternative
- Decisione d’acquisto
- Comportamento del dopo-acquisto
Sottolineiamo che questo modello funziona soprattutto negli acquisti maggiormente razionali o consci, là dove il soggetto è consapevole di quali siano le variabili in gioco, e si dia una strategia di acquisto. Il che non accade molto spesso.
Il modello comportamentale stimolo-risposta
Partiremo nella nostra analisi da un modello comportamentale dove il soggetto viene assimilato, come evidenziato, ad un “processore” che elabora stimoli ed informazioni, producendo output decisionali e comportamentali.
Nel modello “comportamentale”, il consumatore è considerato un soggetto elaboratore di informazioni, dotato di sue caratteristiche peculiari, il quale reagisce a determinati stimoli, producendo, di conseguenza, delle risposte comportamentali (modello S-R: stimolo-risposta).
Il consumatore percepisce eventi e informazioni, elabora dati e reagisce agli stimoli esterni, che costituiscono variabili di input. In parte, gli stimoli esterni incidenti sul consumatore sono determinati dall’azienda offerente (marketing mix: caratteristiche del prodotto, caratteristiche del prezzo e formule di pagamento, promozione e pubblicità del prodotto e del marchio, distribuzione, punto di vendita e facilità di accesso al prodotto). Altri tipi di stimolo provengono dal macroambiente (fattori ambientali, politici, culturali, eventi sociali, offerta della concorrenza, comportamenti di altri consumatori che vengono assunti come riferimento ecc..).
Pertanto diversi individui possono produrre risposte comportamentali assolutamente diverse a fronte della stessa stimolazione o messaggio di marketing, dando luogo ad una interazione soggetto-messaggio.
Nella comunicazione aziendale, ad esempio, l’utilizzo di una leva pubblicitaria per un prodotto alimentare promosso come “dietetico” e ipocalorico avrà effetti positivi sulla decisione di acquisto per un soggetto che cerca riduzione di peso, e effetti altamente negativi su bodybuilder in fase di “massa”[8] o soggetti eccessivamente magri che cercano un rafforzamento fisico nell’alimentazione.
Il consumatore diviene processore di informazione, e le sue caratteristiche sociodemografiche (status, età, titolo di studio, professione) e psicografiche (valori, atteggiamenti, credenze politiche, religiose, stili di vita, cultura, bisogni) determinano il tipo di risposta che esso darà agli stimoli (output). Gli stimoli esterni interagiscono con gli stati emotivi e le caratteristiche psicografiche del soggetto, che costituiscono variabili intervenienti nella decisione (desideri, necessità, paure, bisogni). Comprendere le dinamiche di elaborazione dell’informazione attuate dal cliente assume forte valenza competitiva per l’azienda.
Principio – Information processing
- La competitività dipende dall’identificazione di quali siano le pressioni ambientali, le variabili di input che stanno agendo sul mercato e sul singolo cliente
- Richiede la comprensione di come le caratteristiche del consumatore (culturali, sociali, emotive, bisogni manifesti e latenti, struttura attuale dei budget mentali) incideranno sulle sue modalità di trattamento dell’informazione (elaborazione interna);
- Richiede la previsione delle possibili risposte (riallocazione dei budget mentali output comportamentali), per capire quali forme di input possano avere maggiore probabilità di successo.
Segmentazione del mercato
Le differenze tra consumatori portano alla necessità di svolgere una attività di segmentazione del mercato consumer sufficientemente approfondita, per poter identificare cluster (gruppi) di clienti accomunati da esigenze comuni e modalità di risposta prevedibili agli stimoli di marketing.
La segmentazione ha la finalità di evidenziare la strutturazione del mercato, identificando la presenza di gruppi di consumatori accomunati da similarità psicografiche e di valori (segmentazione psicografica-valoriale) o sociodemografiche (segmentazione sociodemografica).
La segmentazione è indispensabile al fine di produrre strategie mirate sulle caratteristiche peculiari e specifiche di tali gruppi.
La segmentazione richiede l’analisi della struttura del mercato, la comprensione della sua composizione. Le fasi strategiche prevedono la scelta dei segmenti su cui operare e la definizione di strategie mirate ai diversi segmenti.
Il processo di segmentazione si applica, con opportune modifiche, al mercato del business-to-business, con lo scopo di evidenziare quali siano le aziende prioritarie su cui operare.
Cultura e reazione ai prodotti
Secondo un orientamento antropologico, la cultura (insieme di modalità di percezione, comunicazione e visione del mondo) può essere considerata una delle determinanti principali dei bisogni percepiti da una persona, nonché dei comportamenti, inclusi quelli di consumo. L’influenza culturale determina in larga misura i consumi intellettuali e sociali e le modalità di risposta a bisogni di livello superiore (i gradini elevati della scala di Maslow), ma incide anche sulla modalità di soddisfazione dei bisogni primari (gli elementi di base della scala di Maslow), ad esempio nella scelta del cibo.
Tra i casi più noti di influenza culturale sulla modalità di soddisfare bisogni di base, ad esempio, le culture Islamiche pongono barriere al consumo di carne di maiale, e richiedono una macellazione del bestiame scrupolosamente confacente ai dettami religiosi, così come in India la mucca assume valore di sacralità, o negli Stati Uniti e in occidente non è visto di buon occhio, culturalmente parlando, mangiare cani o gatti.
Il fallimento di molti programmi alimentari o di profilassi condotti dalle agenzie internazionali nei paesi poveri, è dato, in larga misura, dalla scarsa conoscenza antropologica della cultura locale, che produce metodi di intervento controculturali e non accettabili dai destinatari. Operare nel buio culturale genera alta probabilità di fallimento.
Il fattore culturale porta un italiano a consumare volentieri pasta piuttosto che insetti, mentre in realtà il valore nutrizionale di questi è superiore. In alcune culture orientali essi costituiscono un normale piatto di portata e nessuno verrebbe colto da malore se essi fossero serviti a tavola.
In altre parole, la cultura determina la “lettura” che le persone danno dei comportamenti di consumo, e dei prodotti, si pone come interfaccia tra soggetto e realtà, e crea “frames interpretativi” che guidano le conseguenti reazioni.
La distanza culturale come variabile di marketing
La cultura incide sia su macro-comportamenti di consumo (scelte di categoria) che su micro-comportamenti, quali le modalità di utilizzo o le valutazioni relative a singole caratteristiche del prodotto. All’aumentare della distanza culturale aumenta la probabilità di incomprensione reciproca e si modificano i significati di oggetti e comportamenti. La distanza culturale deve entrare a far parte delle valutazioni strategiche, anche alla luce della crescente internazionalizzazione e globalizzazione dei mercati.
Il fattore culturale deve essere tenuto tanto più presente quanto più distante è la cultura dell’acquirente da quella dell’offerente. Specialmente a livello internazionale (marketing internazionale), operando sui mercati esteri o con clienti stranieri, le differenze possono essere sostanziali e necessitano di conoscenza, adeguamenti e strategie specifiche. Si determina quindi la nascita di una nuova forma di marketing – il marketing interculturale – ovvero un insieme di strategie finalizzate ad implementare il fattore culturale nel marketing mix: nel prodotto, nelle formule di prezzo, nelle strategie distributive, e nelle modalità di comunicazione ai mercati culturalmente distanti.[9]
[1] Vedi ad esempio Kahneman, D. & Tversky, A. (1979). Prospect theory: an analysis of decision under risk. Econometrica 47, 263-291.
[2] Thaler R. (1980). Toward a positive theory of consumer choice. Journal of Economic Behavior and Organization, 1, 39-60, cit. in van Dijk, E., & van Knippenberg, D. (1998). Trading wine: on the endowment effect, loss aversion, and the comparability of consumer goods. Journal of Economic Psychology, 19, 485-495.
[3] In uno studio sul campo realizzato dall’autore su studenti 18enni all’ultimo anno di scuola professionale, in un territorio ad alto grado di disoccupazione giovanile, la valutazione di un alto grado di rischio connesso all’imprenditoria veniva ulteriormente rafforzata dall’opinione che la famiglia reagirebbe più positivamente alla notizia che il proprio figlio/figlia trovi un lavoro dipendente, rispetto alla notizia che il giovane intende avviare un impresa autonoma.
[4] Per quanto riguarda i costi cognitivi, vedi Smith, G.E., Venkatraman M. P. & Dholakia, R.R. (1999). Diagnosing the search cost effect: Waiting time and the moderating impact of prior category knowledge. Journal of Economic Psychology, 20, 285-314.
[5] Van Wallendael, L.R. (1995). Implicit diagnosticity in and information buying task: How do we use the information that we bring with us to a problem? Journal of Behavioral Decision Making, 8, 245-264.
[6] Sheth, J. N., & Parvatiyar, A. (1995). Relationship marketing in consumer markets: antecedents and consequences. Journal of the Academy of Marketing Sciences, vol. 23, 255-271.
[7] Kotler, P. (1993). Marketing management. Torino, Isedi.
[8] periodo della preparazione atletica nel quale l’atleta ricerca l’aumento di peso.
[9] Per una valutazione delle problematiche di marketing e persuasione interculturale, vedi Aaker, J.L. (2000). The Influence of Culture on Persuasion Processes and Attitudes: Diagnosticity or Accessibility? Journal of Consumer Research. -Volume 26, N. 4, Marzo 2000.
Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:
Altre risorse online
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