I Benefici del Coaching – Hai mai pensato a quanto il coaching possa trasformare la tua vita professionale e personale?
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Il coaching, negli ultimi anni, è diventato uno strumento fondamentale per chi desidera migliorare le proprie competenze, ottenere maggiore chiarezza sui propri obiettivi e raggiungere un equilibrio tra la vita lavorativa e privata. Ma quali sono i benefici reali del coaching? Vediamo alcuni dei principali vantaggi che questo approccio può portare.
I Benefici del Coaching – 1. Chiarezza degli obiettivi e focus sul risultato
Uno dei principali benefici del coaching è la capacità di aiutare le persone a definire obiettivi chiari e raggiungibili. Spesso ci troviamo immersi in attività quotidiane, senza una direzione precisa, il che può portarci a disperdere energie e a non focalizzarci su ciò che conta davvero. Attraverso il coaching, è possibile stabilire priorità, creare piani di azione concreti e monitorare i progressi.
Come afferma Sir John Whitmore, uno dei pionieri del coaching, “Il coaching consiste nel sbloccare il potenziale di una persona per massimizzare la propria performance” . Questo approccio consente di superare la procrastinazione e di prendere decisioni più consapevoli.
I Benefici del Coaching – 2. Sviluppo della leadership e delle competenze interpersonali
Un altro aspetto fondamentale del coaching è la possibilità di sviluppare competenze chiave come la leadership e la comunicazione interpersonale. Per i manager e i dirigenti, un coach può fungere da specchio, aiutando a riflettere su aree di miglioramento e a lavorare sulle proprie soft skills.
Secondo uno studio pubblicato su Frontiers in Psychology, il coaching può migliorare significativamente la capacità di leadership, aumentando l’autoefficacia e l’empatia nei confronti del proprio team . Questo porta a una maggiore fiducia in se stessi e a una migliore gestione delle dinamiche di gruppo.
I Benefici del Coaching – 3. Miglioramento delle performance e della produttività
Il coaching aiuta non solo a identificare gli obiettivi, ma anche a sviluppare strategie per raggiungerli in modo efficace. Attraverso tecniche di time management e la definizione di abitudini produttive, le persone che si sottopongono a sessioni di coaching notano un miglioramento delle proprie performance lavorative.
Uno studio dell’International Coach Federation (ICF) ha rilevato che l’86% degli individui che hanno partecipato a un programma di coaching hanno visto migliorare il proprio livello di produttività . Inoltre, l’80% ha riferito un aumento della fiducia in sé stessi, un fattore determinante per una carriera di successo.
I Benefici del Coaching – 4. Crescita personale e riduzione dello stress
Oltre ai benefici tangibili nel lavoro, il coaching ha un impatto positivo anche sul benessere personale. Grazie a un miglioramento delle capacità di problem-solving e alla gestione delle emozioni, i coachee riescono a ridurre lo stress e ad affrontare le sfide della vita quotidiana con maggiore resilienza.
Un articolo pubblicato su The Journal of Occupational Health Psychology dimostra che il coaching riduce significativamente i livelli di stress e burnout, migliorando il benessere psicologico complessivo . Questa crescita personale è essenziale per mantenere un equilibrio sano tra lavoro e vita privata.
Il coaching non è solo uno strumento per migliorare la performance lavorativa, ma un vero e proprio catalizzatore per una crescita a 360 gradi. Dall’acquisizione di una maggiore chiarezza sugli obiettivi, allo sviluppo della leadership, fino alla riduzione dello stress e al miglioramento del benessere complessivo, i benefici sono innumerevoli.
Se stai cercando di sbloccare il tuo pieno potenziale, prendere in considerazione un percorso di coaching potrebbe essere la scelta giusta.
I Benefici del Coaching – Bibliografia per approfondimenti:
Whitmore, J. (2017). Coaching for Performance: The Principles and Practice of Coaching and Leadership. Nicholas Brealey Publishing.
Theeboom, T., Beersma, B., & Van Vianen, A. E. (2014). Does coaching work? A meta-analysis on the effects of coaching on individual level outcomes in an organizational context. The Journal of Positive Psychology, 9(1), 1-18.
International Coach Federation (ICF). (2021). Global Coaching Study. Retrieved from ICF website.
Grant, A. M., Curtayne, L., & Burton, G. (2009). Executive coaching enhances goal attainment, resilience, and workplace well-being: A randomized controlled study. The Journal of Positive Psychology, 4(5), 396-407.
de Haan, E., Duckworth, A., Birch, D., & Jones, C. (2013). Executive coaching outcome research: The contribution of common factors such as relationship, personality match, and self-efficacy. Consulting Psychology Journal: Practice and Research, 65(1), 40-57.
Passmore, J., & Fillery-Travis, A. (2011). A critical review of executive coaching research: A decade of progress and what’s to come. Coaching: An International Journal of Theory, Research and Practice, 4(2), 70-88.
Smither, J. W., London, M., Flautt, R., Vargas, Y., & Kucine, I. (2003). Can working with an executive coach improve multisource feedback ratings over time? A quasi-experimental field study. Personnel Psychology, 56(1), 23-44.
Jones, R. J., Woods, S. A., & Guillaume, Y. R. (2016). The effectiveness of workplace coaching: A meta‐analysis of learning and performance outcomes from coaching. The Journal of Occupational and Organizational Psychology, 89(2), 249-277.
Athanasopoulou, A., & Dopson, S. (2018). A systematic review of executive coaching outcomes: Is it the journey or the destination that matters the most? Leadership Quarterly, 29(1), 70-88.
Bozer, G., & Sarros, J. C. (2012). Examining the effectiveness of executive coaching on coachees’ performance in the Israeli context. International Journal of Evidence-Based Coaching and Mentoring, 10(1), 14-32.
In questo volume, abbiamo analizzato la differenza tra pulsioni conscie, subconscie e inconscie (cap. 1), definendo in seguito il tema delle leve temporali del prodotto (cap. 2). Abbiamo trattato gli aspetti fisiologici della percezione dei prodotti e (cap. 3), da cui abbiamo derivato nuovi concetti di marketing percettivo (cap. 4). In seguito, abbiamo affrontato la psicologia degli atteggiamenti verso il prodotto e la misurazione dell’immagine di marchio, di prodotto e personale (cap. 5), ed inoltre il rapporto tra valori, scelte di prodotto e simbolismi in grado di generare pulsioni d’acquisto (cap. 6). È stato affrontato il rapporto tra bisogni umani e moventi d’acquisto (cap. 7), con una riformulazione della scala dei bisogni di Maslow. Siamo poi passati ad affrontare il tema dei budget mentali (cap. 8), e della concorrenza psicologica tra prodotti (cap. 9).
Nel capitolo 10 abbiamo prodotto una riformulazione e un allargamento del concetto di customer satisfaction rispetto al modello prevalente nella letteratura attuale (modello di “distanza dalle aspettative”), introducendo un modello “prestazioni-aspettative-ideali” che coinvolge l’intero sistema di marketing mix.
Questo ha prodotto nuove linee guida per la misurazione della customer satisfaction (price satisfaction, relationship satisfaction, channel-&-distribution satisfaction, information satisfaction, communication satisfaction) per determinare un approccio manageriale più produttivo ed efficace nella soddisfazione totale del cliente.
Se equipariamo (grezzamente) la mente umana ad un processore informatico, possiamo distinguere due grandi sfere di prestazione: la potenza del processore (che determina la velocità di elaborazione dei dati) e l’utilizzo della potenza: concentrato su un singolo task o programma (monotasking) oppure distribuito su compiti multipli e più programmi (multitasking).
In termini mentali, la potenza del processore equivale alla rapidità cognitiva o rapidità del pensiero (soprattutto, la capacità di cogliere collegamenti tra variabili), mentre l’applicazione (monotasking vs. multitasking) equivale alla capacità di concentrazione mentale su un singolo problema o obiettivo.
L’abilità di ragionamento ha una componente genetica ma anche e soprattutto una forte componente esercitabile, praticabile, un’area di crescita che dipende da ciò che la nostra mente apprende a fare dalla nascita in poi.
All’interno di questa area, la parte relativa agli stimoli familiari, scolastici e dei media, ha un forte influsso: individui che hanno vissuto in un clima relazionale povero, che hanno avuto poche stimolazioni, pochi input sensoriali ed esperienziali, sono meno rapidi nel risolvere i problemi. La rapidità cognitiva richiede allenamento. Ma l’allenamento si può praticare.
Principio 9 – Rapidità cognitiva e problem solving
Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:
l’individuo cresce in un ambiente apatico, che non stimola ad inquadrare i problemi da analizzare (problem setting) e a risolvere problemi (problem solving);
l’individuo non mantiene un allenamento adeguato (per frequenza e intensità) sul problem setting e problem solving, o si fissa entro una sola delle due attività;
i problemi di grande portata non vengono scissi in sub-problemi affrontabili;
l’individuo non dispone di tools adeguati (strategie mentali) per risolvere i problemi in modo più rapido ed efficiente;
i materiali posti sotto forma di problema sono di quantità e complessità tale da superare le capacità individuali e si genera overload (sovraccarico mentale);
i materiali posti sotto forma di problema sono sgradevoli affettivamente per il soggetto, o sono estremamente lontani dalle proprie inclinazioni, interessi e attitudini.
Le energie mentali aumentano quando:
vengono acquisite abilità di problem setting (saper fissare i problemi, saperli localizzare, saperli inquadrare) e di problem-solving (risoluzione);
si ricerca equilibrio e distinzione tra le due attività (localizzare e risolvere problemi);
i problemi affrontati sono di misura e quantità gestibile;
viene allenata la flessibilità cognitiva tramite tecniche (stretching mentale);
esiste collimazione tra le proprie inclinazioni e il tema su cui applicare le proprie capacità o i problemi da risolvere.
Una delle forme di allenamento più utili nel determinare rapidità cognitiva e pensiero logico nel metodo HPM è la ricerca della precisione e chiarezza del linguaggio, svolta con appositi esercizi. Il training consiste nell’esercitarsi a produrre frasi brevi e compiute, con un effetto di riverbero forte sulla capacità di pensare in modo conciso e concentrato.
Le teste vuote hanno lingue lunghe.
Bruce Lee
Dobbiamo notare che questa tecnica allena la capacità di sintesi e di essere rapidi e concisi nel pensiero, mentre altre devono invece allenare la capacità di allargamento e creatività.
Le performance richiedono entrambe, ma al momento giusto.
Al di là di quanto sia ampio il patrimonio genetico, e al di là dell’acculturazione individuale, ciascuna persona può autonomamente dedicare parte del proprio tempo ad allenare la mente al ragionamento.
Nel training dedicato al problem solving sarà indispensabile procedere per gradi, assimilare strumenti di problem setting (imparare a fissare bene i termini del problema). Impegnarsi ed allenarsi in una tecnica di analisi dei problemi (es.:, il DCE, Diagramma di Causa-Effetto) allena la mente ad affrontarli.
È necessario evitare di esporre all’elaborazione mentale una mole eccessiva di dati o problematiche (sovraccarico o overload), a meno che non si tratti di una precisa strategia allenante di sovraccarico intenzionale (overreaching), che va ingegnerizzata e non deve accadere nella normalità.
Dobbiamo inoltre considerare il tema del piacere insito nelle varie attività. La sgradevolezza affettiva differenzia notevolmente l’operato freddo di un computer da quello di un essere umano vivo. Per un PC non si pone il problema se i dati o problemi da elaborare siano o meno affini con le proprie inclinazioni, mentre per un essere umano sì, e questo influisce sulle energie mentali che si riescono ad attivare sul task.
Altri materiali su Comunicazione, Coaching, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:
Essere consapevoli dei propri strumenti operativi (tools funzionali) e dei propri strumenti analitici e conoscitivi di base (meta-strumenti)
Se credo di poterlo fare,
acquisirò sicuramente la capacità di farlo,
anche se all’inizio non dovessi averla
Mahatma Gandhi
L’autoefficacia è un concetto che fa riferimento al “senso delle proprie possibilità”. La coscienza di ciò che è veramente nella sfera delle nostre possibilità e quello che non lo è in un certo momento, ci permette di fare letture corrette della situazione e dei compiti che ci attendono, senza cadere vittima di demoralizzazione precoce o inutile.
Bandura[1], sviluppatore del concetto sul piano scientifico, considera che l’autoefficacia percepita sia un insieme di credenze che le persone possiedono rispetto alle loro capacità di produrre livelli designati di performance specifiche (non generali), esercitare influenza sugli eventi e sulle proprie vite.
Include, inoltre, l’atteggiamento positivo verso la capacità di raccogliere sfide o porsi nuove sfide.
Nel nostro metodo, riteniamo che l’autoefficacia dipenda largamente dall’autostima ma anche dalla consapevolezza corretta, non distorta, dei repertori di esperienze e competenze possedute e di ciò che con quei repertori possiamo fare. Spesso queste possibilità sono enormi e inesplorate.
L’autoefficacia produce il fatto di non abbandonare di fronte a punti d’arresto, perseverare (resilienza), lavorando per ottimizzare i propri progetti, consapevoli della forza intrinseca che essi possono avere.
Come evidenziato in un articolo del Wall Street Journal, in un brano dal titolo illuminante: “Se all’inizio non hai successo, sei in una azienda eccellente”, i veri successi sono spesso preceduti da dinieghi o porte chiuse[2].
Tra i casi citati: il libro di J. K. Rowling rifiutato da 12 editori prima che una piccola casa editrice londinese lo pubblicasse come “Harry Potter e la Pietra Filosofale”, un successo mondiale. La Decca Records che, in uno dei primi provini dei Beatles, disse “non ci piace il loro suono”. Walt Disney fu licenziato da un editor di un giornale, dicendo che egli “mancava di immaginazione.” Michael Jordan (il più grande giocatore di basket della storia) non venne considerato da ragazzino all’altezza del team di basket della sua scuola superiore.
Senza una sana dose di autoefficacia e di resilienza, queste persone avrebbero abbandonato la propria strada.
L’autoefficacia richiede la consapevolezza dei propri strumenti operativi (tools funzionali) e dei propri strumenti analitici e conoscitivi di base (meta-strumenti). Sapere di poter imparare vale più della conoscenza in sé.
Se diminuisce la percezione di disporre di tali strumenti, prevalgono atteggiamenti di rinuncia, la continua richiesta di aiuto anche su ciò che è invece nel nostro campo di fattibilità, l’immagine di “non essere ancora pronto per…”, o il sentimento negativo “non fa per me, e non ci posso nemmeno provare, o prepararmi per…”.
L’autoefficacia richiede un certo grado di accettazione ragionata del rischio e la consapevolezza che – per molti task – non è indispensabile la perfezione prima di poter passare all’azione. Spesso è sufficiente una dose di comprensione (attuale o potenziale) della materia, un buon spirito di adattamento e una buona capacità generale di problem solving, per poter affrontare larga parte dei problemi o sfide manageriali, sportive, o personali.
La consapevolezza delle proprie meta-competenze è un punto basilare.
Non è necessario avere già fatto qualcosa per sentire di poterlo fare, ma è indispensabile avere coscienza della propria capacità di generare soluzioni, di analizzare problemi, di comprendere dinamiche, e sapere di poter apprendere. Questi meta-fattori aiutano ad accettare anche sfide e compiti sui quali non esiste ancora esperienza specifica diretta o consolidata.
L’autoefficacia non deve diventare sensazione di onnipotenza o delirio, va dovutamente bilanciata con la saggezza e senso pratico, ma questi ancoraggi al realismo non devono impedire di perseguire un sogno difficile che abbia qualche probabilità di successo. La paura di fallire o incontrare difficoltà non deve fermare aspirazioni giuste e sogni sfidanti.
Il caso di un docente cui viene chiesto di fare una lezione su temi non esattamente pertinenti alla propria formazione, ma vicini, è un esempio concreto. La flessibilità mentale è un fattore vincente.
Un docente che insegna statistica ed ha basso livello di autoefficacia non accetterà di insegnare una materia come la Qualità Totale (trovandovi molte differenze rispetto alla propria), mentre al contrario sarebbe assolutamente fattibile. Tale materia è ampiamente basata su metodi statistici. Aumentando l’autoefficacia, la stessa persona potrà lanciarsi verso l’insegnamento di Qualità Totale, ma anche altro, es.: Metodi di Ricerca, sapendo di avere sia una buona base e soprattutto le capacità di apprendimento che servono per poter acquisire ciò che manca.
In sostanza, quel docente conosce già almeno il 90% di un possibile programma, e sa che potrà apprendere il rimanente 10% con poco sforzo. Un individuo con bassa autoefficacia si concentrerà sul 10% da apprendere e sul come apprenderlo, un individuo con bassa autoefficacia lo vedrà come “quel 10% che manca, per cui non si può fare”. Una differenza notevole!
Lo stesso vale per un istruttore di karatè cui viene richiesto di insegnare difesa personale. Un istruttore con alto livello di autoefficacia capirà immediatamente che le sue skill di base sono ampiamente sufficienti ad insegnare a qualcuno come difendersi, e se percepisce una lacuna nel suo set di conoscenze si adopererà per colmarla. Un istruttore con basso livello di autoefficacia coglierà ogni possibile “scusa” per non farlo: “non è la mia materia”, “non so come si faccia”, “non sono preparato” etc.
Un’alta autoefficacia è basata sull’orientamento a cogliere, in ogni sfida, ciò che è fattibile, ciò che è realizzabile o quantomeno tentabile, e la ricerca autonoma di strumenti per colmare le eventuali carenze.
Una bassa autoefficacia vede la dominanza di un orientamento a cogliere la parte negativa della sfida, la concentrazione prevalente sulle proprie lacune e non sulle proprie possibilità, l’assenza di sforzi per dotarsi di strumenti ulteriori che permetterebbero di sentirsi all’altezza.
Allo stesso tempo, l’autoefficacia si correla alla consapevolezza di dove, quanto e come siamo in grado di potercela fare da soli. Questo punto (indipendenza e autonomia) non deve essere confuso con una chiusura verso l’esterno e verso l’aiuto. Autoefficacia anzi significa anche capire e volere l’aiuto che serve a compiere un progetto, ma con una consapevolezza di dove realmente si colloca il confine delle proprie capacità autonome e dove è importante ricercare aiuto. Coltivare coscienza di sé è fondamentale.
Le persone che sviluppano un alto livello di autoefficacia hanno credenze positive sulle loro capacità di raggiungere i goal, accettano sfide superiori, e provano con maggiore forza e impegno a raggiungere i loro obiettivi, dando il massimo delle loro capacità.
Chi ha una alta autoefficacia, pensa, agisce e affronta una sfida come se stia per avere successo. Chi ha bassa auto efficacia intraprende la sfida dandosi per perdente dall’inizio.
Diventa essenziale per ogni coach o counselor capire a quali modelli di autoefficacia sia stata esposta una persona, quali abbia assimilato, quali siano attivi, e soprattutto se vi siano dissonanze interiori o modeling negativi da fonte genitoriale o sociale, attivi sulla persona.
[1] Bandura, A. (1994), Self-efficacy, in V. S. Ramachaudran (Ed.), Encyclopedia of human behavior (vol. 4, pp. 71-81), Academic Press, New York (Reprinted in H. Friedman [Ed.], Encyclopedia of mental health, San Diego, Academic Press, 1998).
Bandura, A. (1986), Social foundations of thought and action: A social cognitive theory, Englewood Cliffs, NJ, Prentice-Hall.
Bandura, A. (1991a), Self-efficacy mechanism in physiological activation and health-promoting behavior, in J. Madden, IV (Ed.), Neurobiology of learning, emotion and affect (pp. 229- 270), Raven, New York.
Bandura, A. (1991b), Self-regulation of motivation through anticipatory and self-regulatory mechanisms, in R. A. Dienstbier (Ed.), Perspectives on motivation: Nebraska symposium on motivation (Vol. 38, pp. 69-164), University of Nebraska Press, Lincoln.
[2] Beck, M. (2008), If at First You Don’t Succeed, You’re in Excellent Company, The Wall Street Journal, April 29, p. D1.
Alcune domande chiave da porsi o da porre in termini di coaching:
Che desideri stai frenando per colpa di competenze che ti mancano?
In quali campi ti senti efficace e in quali meno?
Guardandoti indietro, cosa tenteresti adesso? Quali progetti, idee o ambizioni hai frenato perché non ti consideravi all’altezza?
Guardando avanti, cosa ti darebbe soddisfazione, cosa vorresti dire di aver fatto tra 10 anni?
Di cosa ti pentiresti se dovessi pensare di morire senza aver fatto qualcosa cui tieni? Cosa in particolare?
Cosa vorresti poter dire di aver fatto di buono, la prossima settimana?
Facciamo un elenco di idee o progetti anche ambiziosi che ti darebbero gratificazione, sogniamo ad occhi aperti per un pò.
Se dovessimo pensare ad una tua giornata ideale, come sarebbe?
In un anno ideale, cosa faresti?
Quanto siamo lontani adesso da (… sentirsi bene, sentirsi felici, sentirsi gratificati, aver raggiunto i tuoi scopi, etc…), e perché secondo te?
Nell’osservare i propri ragionamenti, o quelli di un cliente, ci si potrà concentrare non solo sui contenuti, ma anche sul senso generale di possibilità, di autoefficacia, di padronanza, sulle auto-percezioni, sulle credenze che trasudano, sugli archetipi di sè che emergono, sullo spirito di avventura e ricerca, o invece di rinuncia e disfattismo che permeano la persona. Su questi sarà importante lavorare seriamente, ancor più che sui contenuti.
Le energie mentali diminuiscono o si esauriscono quando:
l’individuo non è consapevole delle proprie potenzialità reali;
l’individuo non è consapevole di come le proprie meta-competenze possano trasformarsi in competenze applicative su nuovi compiti;
l’individuo coglie prevalentemente gli aspetti di difficoltà di una sfida e non quelli di fattibilità;
l’individuo non si attiva in una ricerca autonoma di strumenti per colmare i propri gaps percepiti;
l’individuo sviluppa eccessiva dipendenza sugli altri per portare a termine un compito e non sa contare sulle proprie forze interiori, o percepirle correttamente.
Le energie mentali aumentano quando:
l’individuo prende coscienza delle proprie potenzialità, sia teoriche, che per prova diretta;
l’individuo prende coscienza delle proprie meta-competenze e della possibilità di tradurle in competenze applicative in campi nuovi;
l’individuo tiene in considerazione i margini di fattibilità di una sfida e non solo quelli di difficoltà, applicandosi per aumentare le opzioni positive;
l’individuo è proattivo e si adopera attivamente in interventi che aumentano le proprie risorse o colmano gap, e in progetti di apprendimento e accrescimento;
l’individuo ha pieno accesso alla proprie forze interiori, sa individuare bene quante e quali sono le proprie energie, competenze e abilità.
Altri materiali su Comunicazione, Coaching, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:
Possiamo distinguere le fasi principali in tre livelli sequenziali:
fase della strategia di marketing;
fase della strategia di contatto (personal selling);
fase della strategia di fidelizzazione e sviluppo della relazione.
Le tre fasi sono accompagnate da momenti trasversali quali:
attività di fissazione e sviluppo della leadership e people management;
attività di training e coaching per lo sviluppo del venditore consulenziale;
attività di monitoraggio dei risultati, dei comportamenti ed atteggiamenti.
I punti salienti del piano di sviluppo-cliente sono :
Fase di pre-contatto – Strategie di Marketing :
la segmentazione del mercato (capire gli “strati” e tipologie di clienti esistenti),
la scelta dei segmenti di mercato su cui operare,
la selezione di specifici prospects (clienti ad alto tasso di interesse),
lo scouting di tali clienti (ricercare, identificare),
l’analisi del tipo di priorità da dare ai diversi prospects.
Fase di contatto e vendita:
i primi contatti personali o mediati, nei quali superare le barriere in ingresso e iniziare a costruire la fiducia, sia interpersonale che aziendale;
le fasi empatiche, di analisi e ascolto della situazione del cliente,
lo sviluppo di una attività consulenziale e migliorativa dal punto di vista delle forniture di cui dispone,
la ricerca di soluzioni (Solutions Selling) su cui chiudere e concludere una trattativa.
Fase di post-vendita – Sviluppo personale :
il consolidamento del cliente,
il cross-selling (ampliamento del tipo di prodotti),
assicurarsi che sia soddisfatto, sino a portarlo ad essere un nostro sostenitore e partner vero.
La vendita consulenziale si differenzia dalla vendita tradizionale per l’alto grado di valore aggiunto generato dal venditore stesso.
Il valore aggiunto consiste soprattutto:
nella localizzazione dei segmenti di mercato su cui agire;
nelle scelte di posizionamento: come vogliamo posizionarci e differenziarci rispetto ai tanti competitor?
nella capacità di ascolto praticato dal venditore nei riguardi del cliente,
nella ricerca di soluzioni personalizzate, frutto di negoziazione;
nella consulenza d’acquisto;
nel contributo culturale che si porta al cliente;
nel problem-solving e post-vendita, in grado di portare il cliente dallo stato di cliente occasionale a cliente fidelizzato e sostenitore.
Il consulente offre al cliente aiuto con la propria attenzione focalizzata.
La vendita consulenziale parte dalla volontà del venditore di divenire partecipe di un processo evolutivo del cliente, configurandosi quindi come una forma di consulenza di processo.
La vendita consulenziale si inserisce all’interno di una filosofia di marketing aziendale “centrata sul cliente”.
Come evidenzia Kotler:
Il concetto di marketing è emerso a metà degli anni ’50 e ha messo a dura prova i concetti precedenti. Invece di adottare una filosofia centrata sul prodotto, “produci-e-vendi”, si adotta una filosofia centrata sul cliente, “ascolta-e-rispondi”.[1]
Per poter dare concretezza a questa filosofia servono però venditori consulenziali all’altezza del compito e leader preparati.
I principi del CVBU : Caratteristiche, Vantaggi, Benefici, Unicità
I principi di marketing per la vendita consulenziale:
dare priorità alla ricerca di una soluzione efficace e positiva per il cliente (vendita consulenziale);
costruire piani di vendita strutturata anziché azioni di vendita “alla giornata”;
agire tramite campagne anziché con azioni spot;
formare i venditori e sviluppare il loro potenziale;
assicurarsi che i venditori dispongano di una conoscenza perfetta delle reali motivazioni di valore su ogni elemento del value mix: quali sono le caratteristiche, i vantaggi, i benefici, le eventuali unicità (CVBU), della nostra offerta e come queste si declinano per il singolo cliente.
L’analisi CVBU si applica non solo al prodotto ma all’intero marketing mix, includendo almeno CVBU del prodotto/servizio, del pricing, della distribuzione e della comunicazione/informazione.
Al centro di ogni analisi CVBU si colloca il potenziale cliente. Nessun ciclo CVBU può svolgersi in astratto: la percezione di valore ha luogo solamente nella mente del cliente.
I cinque punti primari per inquadrare le attività di vendita
Secondo la metodologia dell’Action Line Management (ALM) va posta attenzione:
agli scenari: cosa succede nella domanda, nella concorrenza, nelle tecnologie, in che ambiente mi muovo?
alla missione e alla consapevolezza dei suoi confini (analisi esistenziale, domande esistenziali): a chi diamo risposte, chi siamo, cosa facciamo realmente, cosa un cliente deve sapere di noi, perché non serviamo alcuni clienti, chi serviamo e chi no, dove si collocano esattamente i confini della nostra missione; all’organizzazione: come ci organizziamo per dare corpo alla missione e alla nostra visione/aspirazioni;
al marketing mix / value mix: consapevolezze dei prodotti/servizi, delle loro caratteristiche, e del valore intrinseco posseduto;
alle linee di azione e tattiche personalizzate: come declinare la strategia cliente per cliente, quali “strategie di interazione” adottare;
al front-line, ai momenti di contatto di ogni natura, ogni momento della verità in cui il sistema azienda impatta il cliente (e non solo il cliente, anche fornitori e altri portatori di interessi);
La visita mirata all’interno di un’azione commerciale
Una visita mirata si differenzia da una visita generica in base al grado di preparazione precedente la visita stessa.
In una visita mirata, sono stati già esplorati a priori i possibili problemi, le possibili obiezioni primarie, gli ostacoli prevalenti alla conclusione di vendita.
In una visita mirata, il venditore è pienamente consapevole del “cosa sto entrando a fare”, distinguendo tra:
valutare se esistono spazi per…
valutare se esistono le condizioni per…
approfondire la situazione del cliente riguardo ….
concludere una negoziazione avviata entro …
capire la serietà del cliente e le intenzioni reali di acquisto, offrendo le seguenti alternative e scadenze…
Una visita mirata si prefigge di comprendere lo scenario del cliente aggiungendo dati e informazioni a quelle già disponibili, per poi poter puntare ad una conclusione consulenziale favorevole, che riduca i costi psicologici di acquisto e faccia leva sugli aspetti motivazionali del bisogno sottostante del cliente.
Rendere mirata una visita significa quindi:
anticipare gli scenari aziendali e psicologici che possiamo fronteggiare: studiare il sistema-cliente prima di entrare, sulla base dei dati disponibili;
chiedersi quali dati servono ancora per poter offrire una soluzione realmente consulenziale (Information Gap Analysis), e preparare una scaletta di informazioni e punti di interesse da approfondire con il cliente stesso;
anticipare i livelli di possibile bisogno;
posizionare una tipologia di fornitura desiderata (target negoziale strategico): es: distinguere tra diventare fornitori ufficiali, fare un ordinativo di prova, e altri tipi di relazioni commerciali;
dare ampio spazio ai momenti di ascolto del cliente;
entrare soprattutto per ascoltare, dare enfasi alla fase di analisi ed ascolto.
concludere su ipotesi di possibile interesse e soppesare con il cliente valore differenziale di ciascuna;
porre il cliente di fronte alla responsabilità di prendere una decisione.
La partnership strategica e il comakership (fare assieme)
Lo sforzo consulenziale viene premiato non tanto da una singola vendita ma soprattutto dalla capacità di ingresso nel sistema cliente.
Una partnership strategica è l’obiettivo sottostante la vendita consulenziale.
La partnership strategica è caratterizzata da:
rapporto intenso,
co-progettazione,
ricerca e sviluppo svolta su ambiti di interesse comune (Joint Research & Development),
contatti frequenti,
studi congiunti sul mercato di destinazione.
La forza contrattuale e negoziale
La negoziazione competitiva richiede la creazione di forza contrattuale.
La forza contrattuale dipende dal livello di unicità dell’offerta (o dalla mancanza di alternative valide o succedanee) e dal livello di bisogno esistente nella controparte, mediati dalle abilità comunicative.
Le competenze negoziali competitive richiedono training alla negoziazione e alla gestione delle mosse strategiche dell’interazione.
In particolare, il training deve focalizzarsi :
sulla capacità di analisi dei segnali non verbali,
sul controllo dei propri segnali,
sugli stili comunicativi verbali,
sull’analisi transazionale del dialogo (AT),
sulle tecniche di convergenza verso il risultato e di gestione strategica dell’obiezione.
Le tecniche negoziale divengono ancora più complesse quando le trattative avvengono tra gruppi (es.: gruppi di acquisto contro gruppi di vendita) poiché la dimensione comunicativa si allarga, richiedendo competenze nell’affiatamento tra i partner e coordinamento nelle mosse dell’interazione tra i membri dell’equipe[2]. Gestire la trattativa richiede preparazione e role-playing. Una singola parola può rovinare un incontro.
Principio 2 – Del potere contrattuale e negoziale
Il vantaggio competitivo dipende dalla forza contrattuale nella trattativa.
Per il venditore o proponente, la forza dipende:
dall’unicità dell’offerta: un’offerta non comparabile con altre offerte ha più valore;
dalla mancanza di alternative presenti o creabili : l’impossibilità di trovare con ragionevole sforzo soddisfazione altrove;
dalla mancanza di beni succedanei (beni diversi che possono svolgere una funzione simile, es: treno al posto dell’aereo);
dall’impellenza del bisogno nel destinatario: un bisogno importante genera minori freni e incertezze;
dal prestigio di cui gode il proponente: un proponente credibile e prestigioso crea minori barriere legate alla valutazione a priori del partner;
dalla forza dei fattori oggettivi dell’offerta: le caratteristiche della prestazione – la sua tecnologia, il servizio reale.
Ciascuna di queste leve anche se presente in misura elevata non si dispiega automaticamente ma richiede abilità di valorizzazione e comunicazione.
Il dispiego ottimale della forza contrattuale (per chi offre) si correla positivamente con il livello di competenze comunicative specifiche del negoziatore (abilità negoziale del venditore) e negativamente con le competenze dell’acquirente (abilità del buyer).
Possiamo riassumere i punti salienti di una strategia negoziale individuando tre specifiche Macro-fasi:
Fase di preparazione : Briefing, analisi a priori Role-playing, preparazione delle action lines
Fase di contatto : Ricerca dei canali di ingresso, Face-to-face, Mediato
Fase di debriefing : Debriefing osservazionale (dati+emozioni), Debriefing strategico
Tutte le fasi evidenziate sono critiche, e per ciascuna esistono strumenti e metodologie appropriate.
La nostra attenzione sarà dedicata alla fase di contatto front-line, utilizzando soprattutto alcuni spunti metodologici offerti dalla Conversation Analysis (CA), o Analisi della conversazione (AC).
Al centro di tutto, nel contatto umano, si colloca la capacità di ascolto, senza la quali gli sforzi precedenti per “entrare” in un sistema cliente diventerebbero vani.
[1] Kotler. Dal cap. 1 “La comprensione del processo di marketing management”, in “Il marketing secondo Kotler”
[2] Vedi Goffman (1959) per l’analisi dei comportamenti pubblici delle equipe.
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Chi si occupa di comunicazione da tempo e per lavoro, sa bene che le persone non acquistano solo oggetti, ma “comprano” idee, concetti, immagini mentali, simbologie da esibire. Comprano per far contento qualcuno in azienda, o per conquistare un credito relazionale.
A volte comprano quello che non gli serve. A volte non comprano ciò che gli servirebbe davvero. Ma dietro ad ogni scelta, per quanto primitiva e irrazionale, si nasconde una logica, che una mente da analista può scoprire.
La Consumer Research (scienza del comportamento di consumo), in alcuni dei suoi esponenti di punta, primo di tutti il Semiologo David Mick, ha analizzato le connessioni tra i significati che attribuiamo ai prodotti e le nostre scelte di acquisto[1]. L’esito fondamentale di una grande mole di ricerche è il valore di “auto-regalo” che i prodotti assumono (self-gifting), una “carezza psicologica” che le persone si fanno concedendosi un certo prodotto, o un certo marchio, e il valore di “simbolico” che connette larga parte degli acquisti: l’acquisto come dimostrazione di potere, o di status, di differenziazione da… o di appartenenza ad un gruppo.
La Psicologia Semiotica del Marketing si occupa di comprendere le connessioni tra “segni” esterni (es. un marchio), significati esistenziali (cosa significa per me quel marchio o simbolo), e comportamenti di acquisto.
È attenta quindi ai simbolismi che le persone associano a un prodotto o un comportamento di acquisto, quali sono i segni e segnali ai quali un cliente presta attenzione, e che valore hanno per lui.
Senza l’analisi semiotica non potremmo mai afferrare, ad esempio, il legame ancestrale che lega moto e motociclista (la moto come mezzo di libertà), e lo vedremmo solo come mezzo di trasporto. Se entriamo nell’analisi di uno specifico marchio – perderemmo di vista il significato di ribellione, potenza e voglia di trasgressione (e tanti altri simbolismi) che un motociclista appassionato associa alla sua Harley Davidson.
Altri studi analizzano il valore dimostrativo o esibitivo che hanno i comportamenti specifici di acquisto, come il recarsi in un casinò a giocare o il gioco d’azzardo, i tanti “perché nascosti, dimostrativi e auto-dimostrativi” che conducono una persona a farlo[2]. Questi studi esaminano soprattutto i bisogni profondi cui risponde questo atto, nonostante si tratti di un comportamento che esce di ogni logica apparente.
Sempre in campo semiotico, si producono analisi interessantissime, quali quelle sulle “costellazioni di consumo”: i “raggruppamenti” nei quali troviamo mescolati marchi, prodotti, tipologie di persone e strati sociali. Uno studio di Chaplin e Lowrey[3] dimostra che i bambini e ragazzi sono in grado di distinguere con precisione queste “costellazioni”, e compiono scelte di acquisto correlate, hanno “fiuto” per il mondo sociale che li circonda, come emerge da questa intervista fatta dai ricercatori:
Il mio vicino di casa, . . . è così “Crunchie” . . .hai presente… vegetariano, ambientalista, superintelligente… ma così svaccato.. si mette le Birkenstocks, guida una Prius, mangia solo cibi organici… ci scommetto che lava i panni con il detersivo Seventh Generation. . . l’”Accarezza Alberi”… non so se mi spiego… “ [ride].
(ragazza 12enne intervistata nello studio di Chaplin e Lowrey, 2010)
Una costellazione di consumo è definita come un gruppo di “prodotti complementari, specifici marchi, e/o attività di consumo utilizzate per costruire, dare significato o assumere uno specifico ruolo sociale” (Englis & Solomon)[4].
I motivi di un acquisto possono essere tanti, ma tutti portano verso il bisogno di comprensione del lato psicologico del cliente, dei comportamento di acquisto, e della correlazione con la strategia di vendita.
Un cerchio giallo all’orecchio, con sopra “qualcosa che luccica” può avere valore di “gioiello” solo se chi lo indossa lo vede come tale, in caso contrario verrebbe trattato come un sovrappeso, qualcosa di inutile.
I Semiologi del marketing hanno segnalato da tempo agli economisti un aspetto fondamentale per chi si occupa di vendita: il bisogno di concentrarsi sul “consumo di simboli”, sull’”acquisto di significati”, il meccanismo che porta una persona a volere non solo il prodotto quanto i simbolismi che quel prodotto porta con sé, per quanto irrazionali essi sembrino.
I premi Nobel Kahneman e Tversky[5] con i loro studi di psicologia economica, dimostrano come i processi decisionali umani non seguono sempre principi di razionalità, e gli umani non sono “consumatori razionali”.
A cosa affidarsi quindi? Ad alcuni valori ancestrali, come il valore della fiducia. Si diventa fornitori primari e si vende non solo per i prodotti che si possono mettere a disposizione ma anche per la capacità di generare fiducia.
La fiducia è un fatto molto personale, richiede attenzioni, sensibilità, avere un’immagine positiva alla quale non sia disdicevole accostarsi.
La distintività, su un mercato affollato di fornitori, arriva oggi dal creare relazioni che possono offrire valori aggiunti: certezza, garanzia di esserci, rassicurazione, problem solving, assumersi dei carichi che il cliente non riesce a gestire da solo o non vuole gestire.
La Psicologia della Fiducia è un intero nuovo settore della psicologia aziendale che si occupa proprio di questo: come generare (non solo a livello esteriore, ma soprattutto nei fatti) un legame di fiducia forte tra azienda e cliente[6], un “filo rosso”, un senso di sicurezza che unisce il cliente all’azienda.
Questo comprende la nostra capacità di generare certezze, e per il cliente sapere di poter contare su persone genuine, autentiche, credibili, esperte, preparate e serie, tenendo alla larga i tanti improvvisatori e disonesti.
Chi opera nelle vendite complesse diventa presto consapevole di quanto sia determinante trasferire al cliente un’immagine di identità chiara, forte, vendere chi siamo, far capire dove si colloca il nostro valore, e vendere soluzioni (Solutions Selling), far seguire alle promesse i fatti.
I clienti non acquistano solo “pezzi” (es, una fornitura di PC) ma vogliono soddisfare dei bisogni psicologici e aziendali, es. velocizzare il lavoro o far sparire il “mal di denti” dei continui malfunzionamenti informatici che li assillano e gli impediscono di concentrarsi su quello che conta, sul loro lavoro.
Per vendere soluzioni, dobbiamo essere abili nel capire i bisogni, il mondo dei problemi così come percepiti ora dal cliente. E non solo quelli evidenti, ma soprattutto quelli nascosti. Quelli che “non si dicono”.
È difficile per chiunque, e soprattutto per un dirigente, un titolare d’azienda o un buyer, affermare o “confessare” di aver scelto in precedenza un fornitore sbagliato.
Avviare il meccanismo della “confessione”, far si che un cliente si apra e “confessi” le proprie esigenze, è un risultato da vero professionista. Un risultato che richiede tempo e abilità.
È umanamente difficile confessare di aver fatto scelte di mercato che si sono rivelate errate nei fatti, o avere buchi organizzativi, personale demotivato o impreparato (con il rischio di emergere come leader poco abili), difettosità nei prodotti e lamentele dei clienti, e far trasparire i problemi reali che rischiano di dare di sé un immagine negativa.
La paura di proiettare un’immagine di sé come manager inadeguato esiste, per cui le verità vengono nascoste.
Ma verità rimangono. E di tali verità di tutti i giorni, nessuna azienda è completamente priva, nemmeno le migliori.
Da queste condizioni di bisogno non dette partono i moventi di acquisto più forti. Anzi, proprio questi elementi di realtà sono i motori della vendita.
I moventi d’acquisto si collegano a tensioni sottostanti, stati di discrepanza tra:
(1) come le cose sono, come vengono percepite ora,
(2) come il cliente le vorrebbe.
In altre parole, stati di “mancanza di omeostasi”, percezione di squilibrio, e desiderio di cambiare questi stati.
Per scoprirli, non sarà sufficiente fare domande aperte o contare sulla trasparenza, ma dovremmo arrivare alla verità con una strategia oculata, o una raccolta di informazioni da più fonti, e una forte abilità nelle tecniche di intervista e ascolto attivo.
È necessario coltivare l’abilità, nel venditore, di produrre un clima comunicazionale o “stato conversazionale” in cui si possa creare questa “confessione”, facendo emergere la verità anziché mascherarla.
Solo così avremo capito come stanno veramente le cose.
Tuttavia, le aziende – come sa benissimo chi le abita – pullulano di bugie, dette sia internamente sia all’esterno, per cui questa attività di scoperta delle verità è un gioco davvero duro, un gioco per professionisti.
Passare la barriera dell’immagine, delle menzogne, e la coltre di reciproche coperture, è un compito arduo, che richiede professionalità.
Vendere in ambienti complessi è possibile solo dopo aver capito dove si situano i gap, le dissonanze, le vulnerabilità, il “non detto”, le molle psicologiche che possono far scattare un acquisto, nella intricata rete di decisori e influenzatori. Ed è un compito che richiede formazione.
Diventano essenziali quindi non soltanto i training per l’espressività (farsi capire, saper presentare con efficacia), ma soprattutto training che coltivano le doti di ascolto attivo, analisi tattica ed empatia strategica.
Tutto questo fa parte della sfera di competenza della psicologia strategica.
La psicologia strategica è la scienza che si occupa di come generare risultati attraverso azioni comunicative e tattiche (e non, come nel caso della psicologia clinica, curare disturbi psicologici).
La psicologia positiva è una branca delle scienze psicologiche che si occupa di come generare un atteggiamento positivo in sé stessi e nel gruppo, motivazione, voglia di vivere, capacità di analisi e costruzione attiva dei fattori che possono portare una persona a raggiungere risultati, stato di benessere interiore, e resilienza (capacità di apprendere dagli errori e rialzarsi dopo un insuccesso).
La vendita consulenziale non è un insieme di procedure, è un modo di essere analisti e strateghi che attinge a piene mani alla psicologia positiva e alla psicologia strategica.
Il metodo cui stiamo lavorando unisce le tecniche della psicologia strategica e della psicologica positiva.
Lo scopo è sviluppare una mente da analista e un modo di essere “stratega positivo”: una persona che utilizza la strategia, compie analisi, apprende dagli errori, considera la sua attività come un grande laboratorio di ricerca, riesce ad immettere energie positive nel suo lavoro, ricavando gratificazione dal modo con cui lavora più che dalle aspettative altrui.
Questo modo di essere si nutre della volontà di capire, di analizzare, di comprendere, anche e persino mentalità diverse, antitetiche, o distorte, strane mappe di potere, personalità razionali e personalità contorte, irrazionali, confusionarie, entrare in sistemi decisionali noti o invece immergersi in sistemi-cliente strambi, inusuali, dissonanti, senza farsi spaventare da questi, ma anzi accettandoli come “oggetto di ricerca” e sfida professionale.
Mettersi il “camice bianco” dell’analista è fondamentale per capire i sistemi-cliente e i varchi che si possono aprire per generare una vendita non solo sporadica, ma continuativa.
La vendita consulenziale è un approccio psicodinamico alle tecniche di vendita, centrato sul concetto di empatia strategica e di counseling d’acquisto (consulenza verso i bisogni, analisi dei bisogni espressi ed inespressi).
Secondo il modello della scuola consulenziale di vendita, l’obiettivo di una vendita è di attivare una forte relazione empatica con il cliente, essere di aiuto verso i bisogni espressi, far emergere il lato inespresso, e far precedere alla vendita vera e propria un’importante fase di analisi, di ascolto attivo, di comprensione, attivando una “percezione aumentata” (Extended Cognition).
Queste capacità provengono dalla psicologia clinica, in particolare dalle tecniche del colloquio clinico, dell’intervista in profondità, dalla “terapia centrata sul cliente” di Carl Rogers, che utilizza gli strumenti fondamentali della riformulazione verbale ed emotiva, senza la quale non potremmo mai sapere se siamo “connessi” o distanti dal vissuto del cliente[7].
Nella vendita consulenziale Business to Business non può esistere conclusione di vendita senza analisi dei processi aziendali o psicologici che rendono un certo prodotto – o soluzione – importante.
Perché qualcosa diventa importante? Perché ora? Perché non ieri? E come ha risolto il problema sinora il cliente? Quanto è soddisfatto? Che differenza esiste tra ciò che dice e ciò che sappiamo? O tra ciò che dice a voce e ciò che traspare dal suo volto o dall’osservazione della sua azienda? Tra quanto si è detto in riunione e quanto si sente dire nei corridoi?
Possiamo entrare in un livello di relazione tale da far “aprire” il cliente e tirar fuori i veri bisogni, anche quelli non detti?
Per farlo servono vere e proprie metodologie e tecnologie di analisi psicologica. Ad esempio, la Consulenza di Processo (Edgar Schein)[8] offre numerosi spunti, ma nessuna scuola in sé è sufficiente. Per affrontare il mondo delle vendite complesse dobbiamo entrare in un territorio di sperimentazione.
La vendita consulenziale non ha alcuna regola prefissata e rigida, non esistono concetti rapidi o giochi ipnotici, o altre scorciatoie comportamentali: esistono solo tante competenze da apprendere, provare sul campo, per poi ritornare ad apprendere, in una palestra professionale che è anche e soprattutto palestra di vita.
Dovremo sempre tenere alto il fronte della Psicologia Positiva, come nuova scienza che può aiutarci a trovare nuove vie della crescita individuale.
La psicologia positiva ambisce alla coltivazione di uno stile di vita e di pensiero positivo, lo sviluppo delle energie mentali, la crescita dell’ottimismo e dell’ottimismo appreso[9], per costruire gli atteggiamenti che ci servono ad affrontare un mestiere duro ma ricco di enormi soddisfazioni.
[1] Gli studi fondamentali che aprono questo dibattito sono: Mick, D. (1991), Giving gifts to ourselves: A greimassian analysis leading to testable propositions. Marketing and semiotics. Selected papers from the Copenhagen Symposium. Copenhagen, Handelshojskolens Forlag.
Mick, D.G. & DeMoss, M. (1990), To Me from Me. A descriptive phenomenology of self-gifts, in Advances in Consumer Research, 17, 677-682.
Mick, D.G. (1986), Consumer research and semiotics: exploring the morphology of signs, symbols, and significante, in Journal of Consumer Research, 12, 196-213.
Mick, D.G. (1989), The semiotic motive in consumer behavior: recent insight from North American research, Paper presented at the 14th Annual Colloquioum of the International Association for Research in Economic Psychology, Sept. 24-27, Poland.
[2] Humphreys, A. (2010), Semiotic Structure and the Legitimation of Consumption Practices: The Case of Casino Gambling, in Journal of Consumer Research, October 2010.
[3] Chaplin, L.N & Lowrey, T.M (2010), The Development of Consumer-Based Consumption Constellations in Children, in Journal of Consumer Research, Vol. 36, February 2010
[4] Englis, B. G. & Michael R. Solomon (1995), To Be and Not to Be: Lifestyle Imagery, Reference Groups, and the Clustering of America, in Journal of Advertising, 24 (Spring), 13–28.
Englis, B. G. & Michael R. Solomon (1996), Using Consumption Constellations to Develop Integrated CommunicationsStrategies, in Journal of Business Research, 37 (3), 183–91.
[5] Kahneman, D. e Tversky, A. (1979), Prospect Theory: An Analysis of Decision Under Risk, in Econometrica, 47(2), 263-291.
Kahneman, D. e Tversky, A. (1981), Judgment under Uncertainty. Heuristics and Biases, in Science.
[6] Tra i tanti articoli in merito, citiamo alcuni tra cui:
Karmarkar, U. R., & Tormala, Z. L. (2010), Believe Me, I Have No Idea What I’m Talking About: The Effects of Source Certainty on Consumer Involvement and Persuasion, in Journal Of Consumer Research, Vol. 36, April 2010.
Beverland, M. B. & Farrelly F. J (2010), The Quest for Authenticity in Consumption: Consumers’ Purposive Choice of Authentic Cues to Shape Experienced Outcomes, in Journal Of Consumer Research, Vol. 36, February 2010.
[7] Per alcuni riferimenti bibliografici su Carl Rogers, vedi bibliografia a termine volume.
Rogers, C. R. (1977), Carl Rogers On Personal Power, Delacorte Press, New York. Trad. it: Potere Personale. La forza interiore e il suo effetto rivoluzionario, Roma, Astrolabio, 1978.
Rogers, C. R. (1951), Client-Centered Therapy: Its Current Practice, Implications, and Theory, Houghton Mifflin, Boston
Rogers, C. R. (1961), On becoming a Person, Houghton Mifflin, Boston.
[8] La metodologia della Consulenza di Processo è strettamente derivata dagli studi di Psicologia Umanistica di Carl Rogers, ed è in grado di inquadrare i processi evolutivi che il cliente vive, e le sue dinamiche aziendali da un punto di vista evoluzionistico.
Tuttavia, si tratta di un metodo destinato originariamente alla consulenza di Direzione Aziendale. La sua applicazione alla vendita consulenziale va creata (ed è il nostro compito), va appresa, va studiata, e serve una formazione forte, professionale.
[9] Citiamo le opere di Myers, D. G. (1993), The pursuit of happiness: Discovering the pathway to fulfillment, well-being, and enduring personal joy, Avon, New York.
Seligman, M. E. P. (1998), Learned optimism: How to change your mind and your life (2 nd ed.), Pocket Books, New York.
Seligman, M. E. P., & Csikszentmihalyi, M. (2000), Positive psychology: An introduction. In: American Psychologist, 55, 5-14.
Anolli, Luigi (2005), L’ottimismo, Il Mulino, Bologna.
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Mentre il problem solving è l’arte (e scienza) di risolvere i problemi, il problem setting è l’arte (e scienza) di fissare i problemi, definirli, di capire quali problemi siano da porre in primo piano.
Risolvere problemi è spesso fattibile, ma risolvere problemi sbagliati è inutile e dispersivo per le risorse aziendali.
Non risolvere i problemi veri è invece deleterio, poiché essi continueranno a macerare e a minare il successo dell’azienda.
Il problem setting richiede che l’azienda si impegni in apposite sessioni di analisi, di emersione delle criticità, e di priority setting (definizione delle priorità).
Il problema deve essere sempre scritto e formulato. La formulazione del problema così ottenuta prende il nome di problem statement.
Esempio di problem statement errato e corretto
Errato (centrato su di sè): Vendiamo meno di quanto vorremmo
Corretto (centrato sulle esigenze dell’utilizzatore): I nostri concessionari non utilizzano tecniche di ascolto adeguate, questo produce un tasso di chiusura ridotto e resi elevati a danno nostro e loro
Il “non vendere a sufficienza” è certamente un problema per l’azienda, ma un problema molto ampio che non produce, così come formulato, alcuna ulteriore idea su come affrontarlo.
Isolando un tema specifico, quale l’area delle tecniche di ascolto e l’efficacia nella chiusura, possiamo invece affrontare una componente primaria del problema per poterlo risolvere più efficacemente.
Se non vendi, è un tuo problema, e questo non aiuta a capire quale sia il messaggio da portar fuori, e a chi. Un problem statement deve spostare la luce dei riflettori verso chi deve prendere le decisioni d’acquisto.
Questo processo di “narrowing down” (restrizione del campo di problemi da affrontare), richiede che sia stata svolta qualche forma di ricerca a priori, in grado di formulare ipotesi e possibili soluzioni per isolare la fonte del problema.
La ricerca – opposta all’improvvisazione – è il fondamento del metodo ALM (Action Line Management).
Esempio di problem statement errato e corretto
Errato (centrato su di sè) : dobbiamo farci conoscere dagli albergatori e far comprare i nostri impianti solari
Corretto (centrato sulle esigenze dell’utilizzatore): i gestori di alberghi hanno ad oggi informazioni confuse e insufficienti per decidere come utilizzare le energie rinnovabili
Un’azienda che offre impianti basati su energie rinnovabili, può svolgere una campagna diretta agli alberghi “per farsi conoscere” (ma questo è l’obiettivo interno, il fatto in sè non interessa al cliente) oppure cogliere alcuni dei BSS (Bisogni Sottostanti Serviti) nel cliente e farne bersaglio del proprio comunicare.
Questo significa fare “problem sensing”, rendersi conto che i Direttori degli alberghi e i Titolari hanno molta confusione in testa, sono poco informati rispetto alle vaste gamme di tecnologie possibili nel campo solare, conoscono poco o in modo superficiale la differenza tra pannello solare termico, pannello termodinamico, pannello solare fotovoltaico, pompe di calore, rinfrescamento da fonte geotermica, e questo non permette loro di scegliere bene.
Il loro “non conoscere” alza inoltre i costi di gestione perché l’albergo non fa uso dei risparmi notevoli resi possibili da questi tecnologie pulite. La nostra missione diventa quindi aiutare gli alberghi a cogliere opportunità. Aiutare loro a migliorare la loro condizione. Il nostro impianto, diventa un mezzo per il loro fine. Diventa qualcosa che permetta a loro di migliorare.
Come emerge chiaramente, la fase di problem setting richiede la realizzazione di analisi sul campo, ricerche empiriche e manageriali in grado di far emergere i problemi sia nostri che dei clienti potenziali, trasformando vaghe formulazioni in specifiche proposizioni manageriali (passaggio dal problema indistinto al problema affrontabile).
Senza avere definito con precisione uno o più problemi, non sarà possibile progettare alcun programma comunicativo efficace.
Ogni campagna deve agire su problemi o obiettivi, è quindi necessario passare da definizioni vaghe o imprecise ad una esatta definizione del problema che genera il bisogno di fare una campagna o attività
Ricerca sul problema: situation analysis
Se un problema è tale, la sua consistenza deve essere supportata da dati di fatto. I numeri parlano, le impressioni “sussurrano”, i silenzi non dicono nulla.
La situation analysis si prefigge di realizzare un report descrittivo del problema, del target, della situazione aziendale di mercato, di scenario o organizzativa.
Il report direzionale dovrà illustrare dati e tendenze in modo verificabile, esplicitando le fonti di ogni singola informazione (ove non coperte da segreto). Lo scopo è di fornire una rappresentazione oggettiva della realtà.
Poniamo il caso di una campagna di comunicazione finalizzata a modificare l’immagine aziendale: abbiamo dati empirici su come siamo percepiti da parte del pubblico, o ci basiamo sul “sentito dire”? Senza una fotografia dell’immagine aziendale al “tempo 0” non avremo alcun modo per capire scientificamente se la campagna di comunicazione, al “tempo 1”, avrà avuto successo. Mancando ogni termine di paragone con la situazione iniziale (ex ante – situazione precedente la campagna), il divario con la situazione finale (ex-post, situazione al termine della campagna) diventa non misurabile.
Per avere successo, serve azione, e sapere da dove a dove ci vogliamo spostare
Avere un’idea dovrebbe essere come stare seduti su uno spillo; dovrebbe farti balzare in piedi e fare qualcosa.
Harvey B. Mackay
Vediamo un ulteriore caso. Un’azienda informatica decide di attuare una campagna di “comunicazione situazionale” (legata ad un particolare evento): valorizzare la presenza presso un evento fieristico e massimizzare i contatti fieristici dal punto di vista commerciale. Il problema sottostante da affrontare è la scarsa qualità dei contatti commerciali avuti nelle fiere precedenti, in cui la partecipazione aveva prodotto molto meno di quanto atteso.
Su quali dati ci basiamo per monitorare un futuro miglioramento, dovuto alla campagna di comunicazione? Abbiamo una tabella che numerizza il tipo di contatti avuti e i risultati prodotti in precedenza? Abbiamo realizzato uno studio per capire chi vogliamo far partecipare all’evento? Sappiamo dove sono localizzati i nuovi clienti da raggiungere? Come misureremo l’esito della campagna?
Un ultimo esempio inerente un tema di comunicazione pubblica: la realizzazione di una campagna per la sicurezza stradale. Abbiamo un quadro chiaro ed esaustivo di quanti incidenti avvengono e dove? Sappiamo a che ora avvengono maggiormente, in quali giorni, in quali strade o tipologie di strada, e perché? Senza questi dati la comunicazione non saprà letteralmente dove agire, e produrrà sicuramente messaggi “nel vuoto”.
La situation analysis si prefigge quindi di chiarificare il quadro del presente per poter raffrontare, rispetto ad esso, il quadro futuro.
[1] Trevisani, D. (2000). Competitività aziendale, personale, organizzativa: strumenti di sviluppo e creazione del valore. Milano, FrancoAngeli.
Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:
Una strategia comunicativa è un insieme di azioni organizzate per ottenere un certo effetto, o “end-state” (stato finale, stato di arrivo, destinazione).
Non è un esercizio puramente artistico, non è “arte per l’arte”. E’ “arte e strategia per far succedere qualcosa di importante”.
L’impostazione di una strategia trae gran beneficio dall’assimilare metodi e concetti di “campagna di comunicazione”, piuttosto che da azioni scollegate.
Il termine “campagna” deriva il proprio concetto strategico dalle “campagne militari” volte a conquistare un territorio, un forte, un ponte, ma ripulita da ogni coloritura “bellica”.
Ne adotta invece il rigore metodologico, l’impostazione centrata su obiettivi e la porta piuttosto ad osservare se stessa alla stregua delle “Forze Speciali” di cui un’impresa vuole dotarsi per raggiungere i suoi obiettivi.
La Comunicazione oggi è davvero la “forza speciale” di ogni azienda, e come tale deve essere considerata, nutrita e cresciuta, con l’atteggiamento mentale di chi sa di poter fare grandi cose.
“Nulla può impedire all’uomo con il giusto atteggiamento mentale di raggiungere il proprio obiettivo; nulla sulla terra può aiutare l’uomo con l’atteggiamento mentale sbagliato.”
Thomas Jefferson
La comunicazione strategica ne utilizza le logiche, spostando il tiro su obiettivi tangibili e intangibili importanti, come lo sviluppo di un marchio, la conquista di notorietà, portare avanti un valore, o concetto, trovare consenso, o sviluppo nelle vendite.
Lo scopo è ottenere comportamenti sociali da parte di pubblici-obiettivo (i target-audience della campagna). Che si tratti di una campagna contro il fumo o per il rispetto della meritocrazia, o vendere l’immagine dell’Italia nel mondo, o un integratore alimentare, si tratta di mettere in moto azioni che producano effetti reali.
Una campagna, consiste nell’applicazione di un insieme di molteplici azioni comunicative, azioni che non devono “viaggiare” in modo confuso, ma essere convergenti e strutturate verso uno scopo.
Per fare una buona campagna, serve una buona “regia”. Un comando strategico. Una visione di cosa ottenere.
E noi cosa vogliamo ottenere? Senza saper rispondere a questa domanda basilare, non avremo la possibilità di iniziare né di arrivare a niente.
Per cui, il lavoro di “focusing” – la focalizzazione sul ”cosa”, sul “quando”, sul “dove” e sul “perché” , è estremamente preziosa e farà luce tra veri risultati e falsi risultati.
Ciò che determina il successo di una campagna non è tanto il “volume di fuoco” dei messaggi ma la precisione chirurgica, la perfetta identificazione dei target, e la qualità dei messaggi. E quando parte di questi messaggi arrivano via contatti personali, anche la qualità delle persone fa la differenza.
Nelle campagne, le azioni devono organizzate strategicamente per avvicinarsi a specifici obiettivi.
I principi che devono guidare la strategia comunicativa consistono in:
Fissare “End-States”, punti di destinazione strategica (principio di inquadramento di obiettivi chiari o Focusing);
Agire tramite “campagne di comunicazione strategica” anziché con miriadi di iniziative scollegate e scoordinate – (principio della Sincronizzazione);
Avere un “Comando” della comunicazione strategica, non lasciare la comunicazione ad un ruolo marginale o autoproclamato, o vittima delle questioni tribali organizzative,
Costruire una leadership chiara sia dei messaggi, dei temi narrativi sovraordinati, da condividere, e delle operations, fare empowerment di chi dirige la comunicazione strategica
Evitare dissonanze nei messaggi che escono (principio di Riduzione della Dissonanza Comunicativa e dei Rumori Comunicativi).
Il concetto di Energia di Attivazione
Una campagna di marketing o di comunicazione deve possedere energia di attivazione. Quando poi si arriva alla vendita, ne deve possedere ancora di più, e questa energia deve essere ancora maggiormente simile ad un raggio laser che non ad una luce diffusa.
L’attivazione (o Activation nel gergo del marketing) è la metafora di una scintilla che accende interi processi e li alimenta, sintetizza il concetto-chiave : imparare a sviluppare campagne che “attivano”, che generano risultati, che determinano cambiamenti misurabili anche nel breve termine, e mettono in moto le potenzialità aziendali.
L’Activation Research, letteralmente “ricerca su cosa attiva le persone” dovrà poi misurare gli esiti, e dirci se una campagna ha funzionato.
Perché una reazione avvenga è necessaria la sinergia di più azioni comunicative opportunamente orientate. Le azioni devono essere dotate di un minimo livello di energia (l’energia di attivazione), senza la quale le azioni aziendali diventano solo energia sprecata.
Il mondo della comunicazione oggi vive in un caos di “entropia”, un capogiro di opzioni tra canali social, pubblicitari, siti web, spot, vendita personale, incontri, presentazioni, meeting, fiere, show, eventi, e qualsiasi altra modalità con cui le aziende cercano di “far uscire” il proprio messaggio e vendere. Chi non afferra le leggi di questo caos, rimane fuori mercato.
In ogni caos c’è un cosmo, in ogni disordine un ordine segreto.
Carl Gustav Jung
Da questo bombardamento le persone escono frastornate. E per chi comunica, fare tanto rumore per nulla, far esplodere fuochi d’artificio che divertono ma non producono azione o vendita, serve a poco, a pochissimo.
Molto meglio un incontro face-to-face nel quale porti a casa un ordine, che una valanga di messaggi a caso. E nel modello delle campagne, ancora meglio quando i media si “intrecciano” strategicamente, creando un campo di convergenze dove le energie di un canale valorizzano quelle degli altri, in un “coro comunicativo” veramente ben orchestrato.
E’ una questione di leadership. Anche nel gestire campagne di comunicazione.
“Ogni comandante deve sviluppare una strategia comunicativa coordinata e sincronizzata ed essere guida per il supporto e l’esecuzione di uno sforzo coeso.”[1]
Nel mondo aziendale, per uscire dall’indifferenza e dal caos comunicativo occorre sviluppare azioni e messaggi in grado di superare barriera di indifferenza e il “rumore di fondo” e determinare effetti su target localizzati.
La potenzialità del metodo genera ricadute sia nell’immediato, e anche sulla cultura e il “modo di fare” azione commerciale, nel medio e lungo periodo, e in tutta l’azienda.
Il metodo instilla un “pensiero strategico” nel quale prima di tutto ci si focalizza sullo stato finale da raggiungere (End-State, in termini militari) e poi sui media e canali da attivare, facendo sinergia tra metodi di vendita face-to-face, canali pubblicitari, strategie di social media, fiere, congressi, eventi.
Ma al di la del canale, il fondamento è fare chiarezza sui messaggi, sui destinatari, sugli influenzatori, sui prodotti, sulle persone e sul chi deve fare cosa, nelle responsabilità individuali e in team.
La perfezione della tecnologia e la confusione degli obiettivi sembrano caratterizzare la nostra epoca.
Albert Einstein
È fondamentale pensare a quali veri obiettivi attivare in una “campagna” che assimila molti concetti dai metodi delle “campagne militari”, e da questi deriva una sua impostazione strategica.
Per fare una metafora, troppo spesso le aziende si impegnano in una “guerra di logoramento” in cui ogni giorno drenano energie senza vederne il ritorno, anziché focalizzarle in azioni mirate e d’impatto.
Azioni comunicative come forma di Engagement
Il concetto di “engagement” o “ingaggio” ha una connotazione di natura militare, es, si parla di Key Leader Engagementper definire la capacità di incontrare con interlocutori umani importanti, in un certo contesto locale in cui agiscono eserciti, o in fase pre e post-conflict.
Nel campo aziendale, la similitudine è forte: saper “ingaggiare” significa saper costruire una serie di contatti dalla quale emergano progressivamente nuovi clienti. In questo senso, i canali “social” hanno discrete potenzialità di “ingaggio debole” (far conoscere un marchio o iniziativa, ad esempio), o virali, mentre gli incontri faccia a faccia sono forme di ingaggio “forte”, sono in grado di negoziare e condurre trattative, possono e devono essere la priorità per siglare contratti nel business-to-business.
Bisogna trovare le parole giuste che aprono l’attenzione del nostro target, bisogna apprendere a comunicare anche e soprattutto con chi non usa il nostro stesso linguaggio.
Io, che l’ho visto più volte in questi anni, non sono mai riuscita a stabilire con lui un contatto che assomigliasse a un contatto umano, a farlo mai indulgere a un attimo di cordialità, di curiosità, di calore, ammenochè non pronunciassi le parole Mercury, Gemini, Apollo, LM.
Oriana Fallaci, da “Quel giorno sulla luna”
Gli esseri umani possono essere “media speciali” e la sinergia tra azioni “fredde” o mediatiche o via internet, e azioni face-to-face, è di forte impatto.
Per forniture di grande peso economico, le azioni che portano alla conoscenza del marchio (brand development) e usano i media e i social, devono essere “chiuse” (concluse) da esseri umani.
La dove invece l’obiettivo di campagna sia soprattutto divulgare informazione, i media hanno maggiore efficienza.
Il termine “campagna” essendo di derivazione militare e utilizza una concezione tipicamente militare dell’azione sul campo, fatta di analisi tattica, leadership operativa e valutazione dei possibili blocchi interni ed esterni che impediscono la “conquista” di un risultato, e una concezione dei tempi dotata di scadenza.
La sequenzialità si riferisce alla necessità e possibilità di utilizzare una serie di operazioni (sequenza) per ottenere un particolare risultato.
Come per altre operazioni manageriali, le campagne si basano sul principio di Backward-planning (pianificazione a ritroso): Fissare un obiettivo e da questo dedurre tutte le singole tattiche finalizzate a quell’obiettivo, fissare una scadenza finale, le fasi precedenti e le scadenze intermedie.
La letteratura presenta una distinzione tra campagna di comunicazione e programma di comunicazione. In particolare, la campagna è considerata come una serie di eventi che hanno una durata temporale definita, mentre il programma non ha una durata o limite preciso.
Una campagna pianificata per la durata di un mese, sei mesi, un anno o più (ma comunque di durata definita e controllabile), si presta alla misurazione degli effetti, genera una maggiore precisione sia nella pianificazione che nella fase di esecuzione, mentre programmazione continua non ha un chiaro inizio o fine, e l’impegno spesso degenera e si deteriora.
Piani di attività che non hanno scadenze tendono ad essere rimandati di continuo nella scala delle priorità.
La durata di 60 giorni, in genere, qualifica un tempo medio sufficientemente corto per poter focalizzare la mente e le menti di chi vi opera.
Le macro-fasi della campagna di comunicazione
Nelle campagne di pubbliche relazioni l’attuazione di una “generica” campagna richiede attenzione a quattro fasi sequenziali:
Ricerca
Adattamento
Implementazione
Valutazione.
Ciascuna fase è caratterizzata da operazioni che elenchiamo di seguito in forma riassuntiva.
La ricerca precede la campagna e riguarda l’acquisizione di informazioni sui problemi da risolvere (atteggiamenti, comportamenti, background, condizioni), sulla loro natura ed entità. Gli obiettivi e processi sottostanti sono:
Analizzare la natura del problema o problemi, studiare il background.
Analizzare i sintomi e ipotizzare cause (formulazione di ipotesi).
Raccogliere dati per verificare le ipotesi, utilizzando metodologie valide e affidabili sia nella raccolta che nella misurazione.
Interpretare i dati.
Identificare i problemi in forma di dichiarazione scritta del problema (problem setting).
Adattamento
L’adattamento implica la capacità di far combaciare i goals e obiettivi comunicativi con la situazione rilevata nella ricerca.
Per produrre un adattamento adeguato è necessario suddividere il problema o i problemi in obiettivi specifici e misurabili, chiarificando i vincoli e confini della campagna. I processi sottostanti sono:
Suddividere i problemi in dichiarazioni di goals misurabili.
Segmentare i pubblici e dare ordini di priorità.
Creare una lista di possibili soluzioni per la soluzione dei problemi (problem solving).
Elencare risorse umane finanziarie
Evidenziare le limitazioni e fissare i confini: evidenziare i limiti comunicazionali della campagna (temporali, numero di soggetti raggiungibili, luoghi, spazi), considerando le risorse disponibili e i dati della fase di ricerca.
Implementazione
L’implementazione riguarda la scelta delle strategie e la loro realizzazione pratica. Per procedere all’implementazione occorre attivare i seguenti processi:
Selezione le strategie di problem solving dotate di elevata probabilità di successo e maggiore fattibilità.
Individuare il piano di comunicazione (fonti, messaggi, canali, media-mix o Communication mix, destinatari e pubblici obiettivo).
Assegnare un budget per ogni azione o evento.
Pianificare nel tempo l’intera strategia e piano di comunicazione (scadenzario, pianificazione Gantt).
Valutazione
La valutazione riguarda l’analisi relativa al livello di conseguimento degli obiettivi, e altri effetti causati dalla campagna. I processi coinvolti:
Misurare il livello di ottenimento dei goals.
Misurare i miglioramenti verificati.
Valutare l’efficienza economica della campagna (analisi costi-benefici).
Valutare la presenza di effetti inaspettati della campagna (positivi e/o negativi).
Valutare gli effetti sull’organizzazione stessa, prodotti dalla campagna (team building, coesione, migliore organizzazione, maggiore managerialità).
Concentrarsi sia sugli effetti immediati che sugli effetti che la campagna può lasciare nel medio e lungo periodo come eredità comunicativa.
[1] Major General Stephen Layfield Introduction to US Joint Forces Command (2010). In: “Commander’s Handbook for Strategic Communication and Communication Strategies”. Published by U.S. Joint Forces Command, Joint Warfighting Center, Suffolk, Virginia.
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Concetti cardine: densità ed estensione della prospettiva temporale
Il T-Chart può essere di enorme aiuto per risolvere problemi e ancora, prima per inquadrarli bene o togliere la nebbia che li copre.
Il T-Chart si pone come sistema di focalizzazione dei problemi (problem setting): quali sono i veri problemi da affrontare?, e di risoluzione dei problemi (problem solving): come risolviamo i problemi?
La base manageriale del T-Chart è il meccanismo di Backward-Planning (pianificazione a ritroso).
Backward-Planning: Fissare un obbiettivo e da questo dedurre tutte le singole tattiche finalizzate a quell’obbiettivo, fissare eventuali scadenze e tappe intermedie, e definire le condizioni necessarie al suo raggiungimento.
Il primo focus, tuttavia, deve essere la fase di problem-setting, senza la quale ogni tentativo di problem-solving risulta vano. In altre parole, perché mettersi a risolvere problemi affannosamente, se sono i problemi sbagliati? Non è meglio forse capire quali sono i veri problemi? Questo è un orientamento di ascolto attivo.
La preoccupazione principale del professionista che usa l’ascolto attivo è la seguente: Stiamo cercando di risolvere i problemi sbagliati? Perché investire il proprio tempo e quello del cliente su problemi irrilevanti? Posso essere produttivo e veramente utile?
Il T-Chart si prefigge di dare un contributo alla risoluzione di problemi, passando dall’indefinizione alla definizione, dall’oscurità alla presa di coscienza, dalla foschia alla luce nitida. E le domande sono lo strumento primario.
Il passaggio di Tullio-Altan che offriamo di seguito è utile per capire le possibilità che il problem-setting è in grado di fornire alla qualità di vita dell’uomo e delle aziende:
Se noi viviamo in una certa situazione avvertendo in essa delle oscure esigenze, che non riusciamo ancora a chiarire a noi stessi, ma solo a sentire angosciosamente, in tal caso possiamo dire che stiamo soffrendo le contraddizioni che la caratterizzano, senza avere una visione razionale dei reali problemi che la distinguono. Dal momento nel quale noi riusciamo ad iniziare un processo di problematizzazione di tali contraddizioni sofferte, il processo di una conoscenza nuova ha preso il suo corso. Quando un dubbio angoscioso prende la forma di un preciso problema, la sua soluzione è vicina.
Le domande sono proprio uno strumento base, lo strumento base assoluto, per passare al processo di “problematizzazione” (individuare problemi concreti) in situazioni che prima non erano chiare.
Il tempo entra prepotentemente nella fase di ascolto.
In azienda, questo si traduce in una prospettiva temporale caratterizzata da densità (quanti goals, quanti obiettivi pianificati, quante azioni reali da svolgere collocate nel tempo futuro) ed estensione (quanto in profondità arriva il pensiero, con che lungimiranza, con quale visione?).
Mentre la densità si occupa della quantità di eventi, la prospettiva si occupa della lunghezza nel tempo del percorso.
Le domande: abbiamo un orientamento al lungo periodo, abbiamo capacità di fissare obiettivi e traguardi che vadano oltre i prossimi giorni e settimane?
In via semplificata i due concetti (densità ed estensione) sono così rappresentabili graficamente.
Quando ascoltiamo qualcuno, iniziamo a chiederci se ci sta parlando di eventi passati, eventi presenti, o futuri, e che densità c’è nel suo discorso.
Se siamo in azienda, questo avrà ripercussioni forti.
Se non esistono eventi nella prospettiva temporale aziendale, se non esiste estensione, l’azienda sostanzialmente “vive alla giornata”, e questo può incidere sul grado di motivazione dei dipendenti e dei manager.
Questo ci fa sostenere che la capacità di comunicazione interna (o qualsiasi altra forma in grado di far fuoriuscire messaggi) deve occuparsi di comunicare ai dipendenti e a tutta la struttura (manager, quadri, produzione) l’estensione e la densità dei progetti aziendali. Senza questa capacità viene meno la motivazione al lavoro.
Sapere di lavorare in una struttura che ha un futuro è estremamente importante per la motivazione, e questo si correla alla produttività, alla capacità di vendita, all’empowerment (assunzione del ruolo, “sentire” il ruolo), e ai risultati economici aziendali.
L’evoluzione di questo approccio applica gli stessi concetti di base (densità ed estensione della prospettiva temporale) per esplorare gli spazi psicologici del cliente.
Il T-Chart può essere utilizzato (a) per analizzare e costruire una raffigurazione o mappa dell’orizzonte temporale soggettivo, o (b) per l’analisi e raffigurazione (ma anche revisione e ricostruzione) dell’orizzonte temporale personale.
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