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©Copyright. Articolo estratto con il permesso dell’autore dal libro di Daniele Trevisani: “Psicologia di Marketing e Comunicazione” Franco Angeli Editore, Milano

La cultura incide sia su macro-comportamenti di consumo (scelte di categoria) che su micro-comportamenti, quali le modalità di utilizzo o le valutazioni relative a singole caratteristiche del prodotto. All’aumentare della distanza culturale aumenta la probabilità di incomprensione reciproca e si modificano i significati di oggetti e comportamenti. La distanza culturale deve entrare a far parte delle valutazioni strategiche, anche alla luce della crescente internazionalizzazione e globalizzazione dei mercati.

Il fattore culturale deve essere tenuto tanto più presente quanto più distante è la cultura dell’acquirente da quella dell’offerente. Specialmente a livello internazionale (marketing internazionale), operando sui mercati esteri o con clienti stranieri, le differenze possono essere sostanziali e necessitano di conoscenza, adeguamenti e strategie specifiche. Si determina quindi la nascita di una nuova forma di marketing – il marketing interculturale – ovvero un insieme di strategie finalizzate ad implementare il fattore culturale nel marketing mix: nel prodotto, nelle formule di prezzo, nelle strategie distributive, e nelle modalità di comunicazione ai mercati culturalmente distanti.[1]


[1] Per una valutazione delle problematiche di marketing e persuasione interculturale, vedi Aaker, J.L. (2000). The Influence of Culture on Persuasion Processes and Attitudes: Diagnosticity or Accessibility? Journal of Consumer Research. -Volume 26, N. 4, Marzo 2000.

©Copyright. Articolo estratto con il permesso dell’autore dal libro di Daniele Trevisani: “Psicologia di Marketing e Comunicazione” Franco Angeli Editore, Milano

Semantica articolo. Le parole chiave di questo articolo sono:

Macro-comportamenti di consumo

Modalità di utilizzo

Valutazione delle caratteristiche del prodotto

Distanza culturale

Valutazioni strategiche

Globalizzazione dei mercati

Fattore culturale

Marketing interculturale

Marketing mix

Marketing culturale

Prodotto

Prezzo

Promozione

Distribuzione

Targeting culturale

Segmentazione culturale

Adaptation marketing

Global marketing

Branding culturale

Strategia di posizionamento

Comunicazione interculturale

Pubblicità localizzata

Packaging culturale

Esperienza del cliente

Valore percepito

Cultura del consumatore

Eventi culturali

Sponsorizzazioni culturali

Analisi del contesto culturale

©Copyright. Articolo estratto con il permesso dell’autore dal libro di Daniele Trevisani: “Psicologia di Marketing e Comunicazione” Franco Angeli Editore, Milano

Secondo un orientamento antropologico, la cultura (insieme di modalità di percezione, comunicazione e visione del mondo) può essere considerata una delle determinanti principali dei bisogni percepiti da una persona, nonché dei comportamenti, inclusi quelli di consumo. L’influenza culturale determina in larga misura i consumi intellettuali e sociali e le modalità di risposta a bisogni di livello superiore (i gradini elevati della scala di Maslow), ma incide anche sulla modalità di soddisfazione dei bisogni primari (gli elementi di base della scala di Maslow), ad esempio nella scelta del cibo.

Tra i casi più noti di influenza culturale sulla modalità di soddisfare bisogni di base, ad esempio, le culture Islamiche pongono barriere al consumo di carne di maiale, e richiedono una macellazione del bestiame scrupolosamente confacente ai dettami religiosi, così come in India la mucca assume valore di sacralità, o negli Stati Uniti e in occidente non è visto di buon occhio, culturalmente parlando, mangiare cani o gatti.

Il relativismo culturale di marketing rende ogni cultura un pianeta simbolico a se stante, con le proprie leggi e norme valutative dei prodotti e della comunicazione. Questo si traduce in chiara esigenza di capire la dimensione culturale del consumo, soprattutto per quelle imprese che si rivolgono a target culturali differenziati, ad esempio ai gruppi immigrati (vedi il caso dei banchi di carne macellata secondo il rito islamico, largamente presenti nei supermercati delle zone ad alta densità immigrativa), o l’adattamento culturale del prodotto e della comunicazione per l’accesso ai mercati distanti ed emergenti (marketing interculturale).

Il fallimento di molti programmi alimentari o di profilassi condotti dalle agenzie internazionali nei paesi poveri, è dato, in larga misura, dalla scarsa conoscenza antropologica della cultura locale, che produce metodi di intervento controculturali e non accettabili dai destinatari. Operare nel buio culturale genera alta probabilità di fallimento.

La cultura determina inoltre in larga misura le modalità di ricezione e trattamento dei messaggi pubblicitari e persuasivi. Le ricerche hanno dimostrato che negli Stati Uniti esistono differenze tra consumatori religiosi e atei nel trattamento della comunicazione pubblicitaria, dove i soggetti di religione protestante tendevano ad essere più critici e valutativi della pubblicità rispetto agli atei.

Il fattore culturale porta un italiano a consumare volentieri pasta piuttosto che insetti, mentre in realtà il valore nutrizionale di questi è superiore. In alcune culture orientali essi costituiscono un normale piatto di portata e nessuno verrebbe colto da malore se essi fossero serviti a tavola. Allo stesso tempo, un pasto a base di hamburger consumato all’interno di un fast-food può essere considerato una modalità di unire la famiglia, oppure una modalità di “adesione all’imperialismo americano che estende la propria influenza anche sul modo di cibarsi”.

In altre parole, la cultura determina la “lettura” che le persone danno dei comportamenti di consumo, e dei prodotti, si pone come interfaccia tra soggetto e realtà, e crea “frames interpretativi” che guidano le conseguenti reazioni.

©Copyright. Articolo estratto con il permesso dell’autore dal libro di Daniele Trevisani: “Psicologia di Marketing e Comunicazione” Franco Angeli Editore, Milano

Semantica articolo. Le parole chiave di questo articolo sono:

Bisogni percepiti

Comportamento di consumo

Influenza culturale

Soddisfazione dei bisogni

Relativismo culturale di marketing

Valutazione del prodotto

Dimensione culturale del consumo

Adattamento culturale del prodotto

Fattori culturali

Valori culturali

Norme sociali

Identità culturale

Consumo simbolico

Tradizioni

Riti di consumo

Influenze etniche

Comportamento di acquisto culturale

Acculturazione

Globalizzazione

Comportamento del consumatore

Differenze interculturali

Classi sociali

Stereotipi culturali

Marketing interculturale

Stili di vita

Consumo ostentativo

Brand perception

Cultural branding

Moda e tendenze culturali

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Psicologia di marketing e comunicazione. Pulsioni d’acquisto, leve persuasive, nuove strategie di comunicazione e management”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore

L’avversione alla perdita

Una delle principali caratteristiche del comportamento del consumatore è l’avversione alla perdita (loss aversion). Diverse ricerche indicano che nel consumatore, in media l’avversione alla perdita è superiore alla propensione al guadagno[1]. Le persone spesso richiedono un compenso maggiore per privarsi di un oggetto, rispetto a quello che sarebbero disposte a pagare per esso (effetto denominato endowment effect)[2]. Inoltre, le persone si differenziano in termini di propensione al rischio. Ipotizziamo di trovarci di fronte ad una scelta tra alternative. In un gioco a testa o croce, ci vengono fatte due proposte tra cui dover scegliere:

  • l’opzione (A) consente di guadagnare 1000 dollari se vinciamo o vincerne comunque 100 se perdiamo;
  • l’opzione (B) implica perdere 200 se si perde o vincere 2000 se si vince.

Cosa scegliereste? A o B ? In base a scelte di questo tipo, è possibile misurare la propensione al rischio (risk-taking) delle persone e degli imprenditori. Chi ha un basso livello di risk-taking tenderà a scegliere (A), la scelta sicura, mentre chi possiede un livello alto di risk-taking tenderà a scegliere (B), meno sicura ma dai potenziali di guadagno più alti.

La loss aversion è anche un fattore sociale e culturale, oltre che personale. Vi sono culture che premiano il “non prendere rischi” e favoriscono il lavoro dipendente rispetto al lavoro autonomo o la creazione d’impresa[3]

La perdita sul mercato si configura ogniqualvolta il cliente ritenga di aver esborsato denaro o altre risorse avendone ricevuto una prestazione non corrispondente. Si basa quindi su un meccanismo di calcolo differenziale di guadagni e perdite che si instaurano in una transazione. 

Quanto guadagno e quanto perdo se scelgo questa linea di azione? Cosa mi costa acquistare, cosa mi costa non farlo? Riceverò in cambio ciò che spero? 

Per risolvere alcuni di questi problemi, le persone attuano meccanismi di ricerca di informazioni. Il fabbisogno di informazioni e la ricerca di informazioni (information seeking) è connaturato al tentativo del cliente di evitare una perdita potenziale. Esso rappresenta una condizione comune nei momenti di scelta, nella quale il terrore di avviarsi verso una perdita viene in un certo senso monitorato, previsto e contabilizzato. 

Ogni processo di ricerca rappresenta un momento di uncertainty reduction (riduzione dell’incertezza decisionale), e si prefigge di raggiungere la condizione psicologica che permette di prendere una decisione con serenità, avendone valutato tutti i pro e contro, e sentendo di aver fatto il possibile per decidere al meglio. 

La ricerca di informazioni

Diversi studi hanno evidenziato la presenza di un search cost effect (il costo della ricerca di informazioni): l’acquirente cercherà ulteriori informazioni solo fintanto che il costo marginale della ricerca non eccede il beneficio marginale ricavabile dall’informazione. 

Le ricerche di informazioni, per una singola scelta, non possono durare tutta la vita. Ad un certo punto si fermeranno, considerato il tempo e costo necessario per la ricerca stessa, in comparazione a quanto vi sia in gioco in termini di acquisto.

Vi sono molti casi, tuttavia, di mancanza di equilibrio manageriale nel tempo dedicato a valutare la bontà delle proprie spese e decisioni, soprattutto in campo aziendale. A volte decisioni miliardarie o dagli effetti potenzialmente devastanti sull’azienda (in caso di errore) vengono prese senza perdere tanto tempo nella ricerca di informazioni indispensabili, mentre per decisioni tutto sommato stupide ed ininfluenti si perdono intere giornate in riunioni, o si investono somme ingenti in consulenza, in tempo manageriale e complesse ricerche.

I costi di ricerca possono essere analizzati secondo diversi parametri (disgiunti o congiunti):

  • costi monetari: ammontare economico, costi monetari di ricerca;
  • costi temporali: quantità di ore/uomo necessarie per la ricerca delle informazioni;
  • costi cognitivi: interni al buyer, riflettono lo sforzo mentale necessario per impostare una buona ricerca, dividere e valutare le informazioni in ingresso, ed integrarle con informazioni preesistenti.[4]

I consumatori si trovano spesso, oggi, nell’incapacità di elaborare tutta l’informazione presente sui mercati, particolarmente nei settori caratterizzati da rapida innovazione e cambiamenti tecnologici. 

Il commercio elettronico e i canali internet accrescono a dismisura il mercato di offerta e l’informazione disponibile, così che per un determinato acquisto, mentre in passato esisteva solo il negozio del paese (e non si poteva comprare altro che lì), oggi esistono innumerevoli potenziali punti di vendita e fonti informative. L’esito è un possibile overload informativo, un eccesso di dati che il soggetto non riesce più a manipolare. Questo confonde il consumatore e crea un senso di inadeguatezza.

I consumatori devono quindi apprendere nuove competenze:

Principali competenze di ricerca dell’acquirente consapevole:

  • capire cosa si cerca veramente nel prodotto/servizio (far esplodere la propria wish-list) e razionalizzarne le scelte (capire che tipo di acquisto si sta compiendo: autogratificativo, utilitaristico, simbolico, ecc.);
  • scegliere in quali fonti ricercare (dove e come si può trovare l’informazione utile a far luce sulla bontà della decisione); possedere un ampio repertorio di fonti informative;
  • apprendere a decidere quanto tempo dedicare ad una ricerca di informazioni necessarie all’acquisto, quanto sforzo è necessario, a che punto occorre fermarsi;
  • decidere quanto tempo trascorrere presso le singole fonti di ricerca, quali meritano più attenzione, quali sono dispersive, vuote o superficiali;
  • saper individuare il momento in cui si dispone delle informazioni sufficienti per decidere, ed è opportuno arrestare la ricerca per poter dedicare il proprio tempo ad altro (evitazione della dispersione di energie cognitive, utilizzo ottimale del tempo);
  • discriminare l’affidabilità delle fonti (discernere tra informazioni di qualità e informazioni poco attendibili), come diagnosticarne la credibilità della fonte.

Questo curriculum di studi dovrebbe essere presente in ogni percorso scolastico di base, intermedio e superiore. Se si pensa a quanto tempo si perde nelle scuole per apprendere informazioni che non si utilizzeranno mai, e quanto tempo non si impiega ad apprendere come acquistare bene (azione che si compie ogni giorno della propria vita) viene da chiedersi se non vi sia una regia occulta che determina questo stato di cose, o se si tratti semplicemente di ignoranza o incapacità politica.

Le informazioni diagnostiche

Le informazioni raccolte sui possibili fornitori o sui prodotti non hanno tutte lo stesso peso. Infatti, nei processi di scelta solo le informazioni altamente diagnostiche hanno il potere di generare fiducia nelle proprie valutazioni (van-Wallendael, 1995)[5]. La diagnosticità di un’informazione riguarda la sua pertinenza rispetto alla capacità di discriminare le caratteristiche ricercate. Ad esempio, nell’acquisto di un computer, la composizione chimica della vernice esterna non ha un potere diagnostico, ma lo avranno i termini di garanzia, le prestazioni assicurate, la velocità, e altre informazioni. Il marchio visibile su un prodotto (ad esempio uno zaino da scuola) può essere del tutto ininfluente per un genitore, e assolutamente strategico per la figlia, influenzata dalla moda del momento e dal fatto che tutte le amiche nella classe hanno quello zaino, e non uno zaino qualsiasi.

Il problema del rapporto tra informazione e consumo non è affatto lineare. Infatti la qualità della decisione migliora al crescere della quantità di informazione posseduta, ma solo in linea teorica. Nella realtà, quando la quantità di informazione eccede la capacità elaborativa, il decisore viene sovraccaricato da informazioni, rendendo il processo decisionale lungo e difficoltoso (overload informativo). Il consumatore si trova quindi costretto a ridurre e scegliere le proprie fonti informative. 

Questo porta spesso ad affidarsi alle proprie relazioni, a rivolgersi ai consigli degli altri, ad osservare quanto fanno gli altri, per un aiuto nella scelta, sfruttando, in un certo senso, la fatica decisionale già svolta da altri. 

Sheth e Parvatyar (1995)[6] hanno analizzato le tematiche del Relationship Marketing, evidenziando che i consumatori utilizzano la propria rete di conoscenze per ridurre le scelte possibili (ricerca di suggerimenti, osservazione del comportamento già svolto da altri, imitazione). Lo scopo sottostante è l’intento di semplificare i compiti di consumo e acquisto, ridurre la necessità di information processing, diminuire il rischio percepito e mantenere la consistenza cognitiva e il comfort psicologico, riducendo l’ansia di scegliere.

Il processo di acquisto

Qualsiasi scelta di acquisto ha un margine di errore (che il consumatore cercherà in vari modi di ridurre) e produce timori di perdita in chi la compie.

Le perdite possono distinguersi in perdite assolute e in perdite relative. Una perdita assoluta accade quando la prestazione ricercata non viene ottenuta affatto. Ad esempio, acquisto un nuovo sistema operativo per il mio PC per ottenere più stabilità, e ottengo meno stabilità (prima si bloccava due volte al giorno, adesso quattro). Una perdita relativa si ottiene quando, successivamente all’acquisto, il consumatore si accorge che era possibile trovare lo stesso prodotto, ma ad un prezzo migliore, o a condizioni migliori, o che un prodotto concorrente offriva prestazioni migliori allo stesso prezzo, oppure ancora il prodotto fornisce una prestazione inferiore alle aspettative. Ad esempio, scopro che un negozio della stessa città offriva quelle scarpe speciali da escursione, che stavo cercando, con uno sconto del 40%. Oppure ottengo un miglioramento nella velocità di connessione molto basso rispetto all’investimento fatto per acquistare la nuova linea di telecomunicazione.

Il consumatore ricercherà sia di evitare una perdita assoluta  (acquistare un prodotto che non risolve il problema), che evitare una perdita relativa (situazione in cui il prodotto raggiunge solo parzialmente il suo scopo, o vi è la percezione che il problema potesse essere risolto con minore esborso di risorse). Per farlo, ricercherà informazioni diagnostiche utili ad orientarsi. Accumulate le informazioni necessarie, quindi, deciderà. 

Pertanto, il modello di decisione formalizzato è sostanzialmente basato sul processo di input-elaborazione-output. 

Kotler, in un classico del marketing[7], evidenzia uno schema di acquisto così composto:

  1. Percezione del problema
  2. Ricerca di informazioni
  3. Valutazione delle alternative
  4. Decisione d’acquisto
  5. Comportamento del dopo-acquisto

Sottolineiamo che questo modello funziona soprattutto negli acquisti maggiormente razionali o consci, là dove il soggetto è consapevole di quali siano le variabili in gioco, e si dia una strategia di acquisto. Il che non accade molto spesso. 

Il modello comportamentale stimolo-risposta

Partiremo nella nostra analisi da un modello comportamentale dove il soggetto viene assimilato, come evidenziato, ad un “processore” che elabora stimoli ed informazioni, producendo output decisionali e comportamentali.

Nel modello “comportamentale”, il consumatore è considerato un soggetto elaboratore di informazioni, dotato di sue caratteristiche peculiari, il quale reagisce a determinati stimoli, producendo, di conseguenza, delle risposte comportamentali (modello S-R: stimolo-risposta).

Il consumatore percepisce eventi e informazioni, elabora dati e reagisce agli stimoli esterni, che costituiscono variabili di input. In parte, gli stimoli esterni incidenti sul consumatore sono determinati dall’azienda offerente (marketing mix: caratteristiche del prodotto, caratteristiche del prezzo e formule di pagamento, promozione e pubblicità del prodotto e del marchio, distribuzione, punto di vendita e facilità di accesso al prodotto). Altri tipi di stimolo provengono dal macroambiente (fattori ambientali, politici, culturali, eventi sociali, offerta della concorrenza, comportamenti di altri consumatori che vengono assunti come riferimento ecc..).

Pertanto diversi individui possono produrre risposte comportamentali assolutamente diverse a fronte della stessa stimolazione o messaggio di marketing, dando luogo ad una interazione soggetto-messaggio.

Nella comunicazione aziendale, ad esempio, l’utilizzo di una leva pubblicitaria per un prodotto alimentare promosso come “dietetico” e ipocalorico avrà effetti positivi sulla decisione di acquisto per un soggetto che cerca riduzione di peso, e effetti altamente negativi su bodybuilder in fase di “massa”[8] o soggetti eccessivamente magri che cercano un rafforzamento fisico nell’alimentazione.

Il consumatore diviene processore di informazione, e le sue caratteristiche sociodemografiche (status, età, titolo di studio, professione) e psicografiche (valori, atteggiamenti, credenze politiche, religiose, stili di vita, cultura, bisogni) determinano il tipo di risposta che esso darà agli stimoli (output). Gli stimoli esterni interagiscono con gli stati emotivi e le caratteristiche psicografiche del soggetto, che costituiscono variabili intervenienti nella decisione (desideri, necessità, paure, bisogni). Comprendere le dinamiche di elaborazione dell’informazione attuate dal cliente assume forte valenza competitiva per l’azienda.

Principio – Information processing

  • La competitività dipende dall’identificazione di quali siano le pressioni ambientali, le variabili di input che stanno agendo sul mercato e sul singolo cliente
  • Richiede la comprensione di come le caratteristiche del consumatore (culturali, sociali, emotive, bisogni manifesti e latenti, struttura attuale dei budget mentali) incideranno sulle sue modalità di trattamento dell’informazione (elaborazione interna);
  • Richiede la previsione delle possibili risposte (riallocazione dei budget mentali output comportamentali), per capire quali forme di input possano avere maggiore probabilità di successo.

Segmentazione del mercato

Le differenze tra consumatori portano alla necessità di svolgere una attività di segmentazione del mercato consumer sufficientemente approfondita, per poter identificare cluster (gruppi) di clienti accomunati da esigenze comuni e modalità di risposta prevedibili agli stimoli di marketing.

La segmentazione ha la finalità di evidenziare la strutturazione del mercato, identificando la presenza di gruppi di consumatori accomunati da similarità psicografiche e di valori (segmentazione psicografica-valoriale) o sociodemografiche (segmentazione sociodemografica).

La segmentazione è indispensabile al fine di produrre strategie mirate sulle caratteristiche peculiari e specifiche di tali gruppi.

La segmentazione richiede l’analisi della struttura del mercato, la comprensione della sua composizione. Le fasi strategiche prevedono la scelta dei segmenti su cui operare e la definizione di strategie mirate ai diversi segmenti.

Il processo di segmentazione si applica, con opportune modifiche, al mercato del business-to-business, con lo scopo di evidenziare quali siano le aziende prioritarie su cui operare.

Cultura e reazione ai prodotti

Secondo un orientamento antropologico, la cultura (insieme di modalità di percezione, comunicazione e visione del mondo) può essere considerata una delle determinanti principali dei bisogni percepiti da una persona, nonché dei comportamenti, inclusi quelli di consumo. L’influenza culturale determina in larga misura i consumi intellettuali e sociali e le modalità di risposta a bisogni di livello superiore (i gradini elevati della scala di Maslow), ma incide anche sulla modalità di soddisfazione dei bisogni primari (gli elementi di base della scala di Maslow), ad esempio nella scelta del cibo. 

Tra i casi più noti di influenza culturale sulla modalità di soddisfare bisogni di base, ad esempio, le culture Islamiche pongono barriere al consumo di carne di maiale, e richiedono una macellazione del bestiame scrupolosamente confacente ai dettami religiosi, così come in India la mucca assume valore di sacralità, o negli Stati Uniti e in occidente non è visto di buon occhio, culturalmente parlando, mangiare cani o gatti.

Il fallimento di molti programmi alimentari o di profilassi condotti dalle agenzie internazionali nei paesi poveri, è dato, in larga misura, dalla scarsa conoscenza antropologica della cultura locale, che produce metodi di intervento controculturali e non accettabili dai destinatari. Operare nel buio culturale genera alta probabilità di fallimento.

Il fattore culturale porta un italiano a consumare volentieri pasta piuttosto che insetti, mentre in realtà il valore nutrizionale di questi è superiore. In alcune culture orientali essi costituiscono un normale piatto di portata e nessuno verrebbe colto da malore se essi fossero serviti a tavola.

In altre parole, la cultura determina la “lettura” che le persone danno dei comportamenti di consumo, e dei prodotti, si pone come interfaccia tra soggetto e realtà, e crea “frames interpretativi” che guidano le conseguenti reazioni.

La distanza culturale come variabile di marketing

La cultura incide sia su macro-comportamenti di consumo (scelte di categoria) che su micro-comportamenti, quali le modalità di utilizzo o le valutazioni relative a singole caratteristiche del prodotto. All’aumentare della distanza culturale aumenta la probabilità di incomprensione reciproca e si modificano i significati di oggetti e comportamenti. La distanza culturale deve entrare a far parte delle valutazioni strategiche, anche alla luce della crescente internazionalizzazione e globalizzazione dei mercati.

Il fattore culturale deve essere tenuto tanto più presente quanto più distante è la cultura dell’acquirente da quella dell’offerente. Specialmente a livello internazionale (marketing internazionale), operando sui mercati esteri o con clienti stranieri, le differenze possono essere sostanziali e necessitano di conoscenza, adeguamenti e strategie specifiche. Si determina quindi la nascita di una nuova forma di marketing – il marketing interculturale – ovvero un insieme di strategie finalizzate ad implementare il fattore culturale nel marketing mix: nel prodotto, nelle formule di prezzo, nelle strategie distributive, e nelle modalità di comunicazione ai mercati culturalmente distanti.[9]


[1] Vedi ad esempio Kahneman, D. & Tversky, A. (1979). Prospect theory: an analysis of decision under risk. Econometrica 47, 263-291.

[2] Thaler R. (1980). Toward a positive theory of consumer choice. Journal of Economic Behavior and Organization, 1, 39-60, cit. in van Dijk, E., & van Knippenberg, D. (1998). Trading wine: on the endowment effect, loss aversion, and the comparability of consumer goods. Journal of Economic Psychology, 19, 485-495.

[3] In uno studio sul campo realizzato dall’autore su studenti 18enni all’ultimo anno di scuola professionale, in un territorio ad alto grado di disoccupazione giovanile, la valutazione di un alto grado di rischio connesso all’imprenditoria veniva ulteriormente rafforzata dall’opinione che la famiglia reagirebbe più positivamente alla notizia che il proprio figlio/figlia trovi un lavoro dipendente, rispetto alla notizia che il giovane intende avviare un impresa autonoma.

[4] Per quanto riguarda i costi cognitivi, vedi Smith, G.E., Venkatraman M. P. & Dholakia, R.R. (1999). Diagnosing the search cost effect: Waiting time and the moderating impact of prior category knowledge. Journal of Economic Psychology, 20, 285-314.

[5] Van Wallendael, L.R. (1995). Implicit diagnosticity in and information buying task: How do we use the information that we bring with us to a problem? Journal of Behavioral Decision Making, 8, 245-264.

[6] Sheth, J. N., & Parvatiyar, A. (1995). Relationship marketing in consumer markets: antecedents and consequences. Journal of the Academy of Marketing Sciences, vol. 23, 255-271.

[7] Kotler, P. (1993). Marketing management. Torino, Isedi.

[8] periodo della preparazione atletica nel quale l’atleta ricerca l’aumento di peso.

[9] Per una valutazione delle problematiche di marketing e persuasione interculturale, vedi Aaker, J.L. (2000). The Influence of Culture on Persuasion Processes and Attitudes: Diagnosticity or Accessibility? Journal of Consumer Research. -Volume 26, N. 4, Marzo 2000.

Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

Le parole chiave di questo articolo I comportamenti del consumatore sono :

  • Avversione alla perdita
  • Caratteristiche psicografiche
  • Caratteristiche sociodemografiche
  • Competenza di ricerca del cliente
  • Costi cognitivi
  • Costi monetari
  • Costi temporali
  • Costo della ricerca di informazioni
  • Distanza culturale
  • Fattore culturale
  • Informazioni diagnostiche
  • Marketing interculturale
  • Modello comportamentale stimolo-risposta
  • Overload informativo
  • Perdite assolute
  • Perdite relative
  • Processo di acquisto
  • Relationship marketing
  • Segmentazione del mercato
  • Wish-list
  • Risk-taking
  • Propensione al rischio

La Consulenza SEO è l’attività che permette di collocarsi nelle prime posizioni  sui motori di ricerca, in particolare su Google. La consulenza SEO può essere fatta per la lingua del paese in cui si risiede o invece nelle lingue specifiche dei paesi nei quali si punta ad acquisire visibilità e ordinativi o richieste di contatto. In questo ultimo ambito le competenze di Marketing Internazionale e Marketing Interculturale fanno la vera differenza.

Consulenza SEO per esportare. Le 3 grandi fasi

La consulenza SEO si divide in 3 grandi fasi:

  1. analisi di marketing per l’identificazione delle keywords e Buyer Personas, Search Intent e scopi da raggiungere, depurata da analisi errate che porterebbero a fare interventi non focalizzati, o da mancanza di empatia interculturale
  2. interventi sul sito e su siti diversi, orientati da un lato all’ottimizzazione del codice di pagine esistenti, alla creazione di nuove pagine, e all’ottenimento di link (linkpopularity) che puntino verso le pagine che vogliamo valorizzare
  3. monitoraggio del posizionamento sui motori e interventi correttivi con ottica internazionale

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In qualsiasi fase, è necessaria una grande collaborazione tra consulenti SEO e clienti, affinchè il cliente stesso diventi sempre più protagonista attivo e non solo spettatore passivo di una strategia SEO

Consulenza SEO - le linee guidaLa specializzazione necessaria nelle diverse fasi è molto diversa.

Consulenza SEO per l’Export – fase 1: analisi di marketing, ricerca di marketing, analisi organizzativa, interviste dirigenziali

Per la parte di analisi di marketing per la Consulenza SEO servono soprattutto conoscenze di marketing strategico e di analisi organizzativa. La fase si realizza soprattutto in una serie di incontri e colloqui con il personale e i clienti aziendali, al fine di attivare una Consulenza SEO veramente centrata sulla mission da raggiungere e senza disperdere forze e strategie in azioni sbagliate. In questo Studio Trevisani Consulting ha il suo punto di forza più rilevante, anche grazie alle numerose pubblicazioni che ne testimoniano la competenza. Tra queste citiamo i libri di riferimento del METODO ALM™ (Action Line Management):

Consulenza SEO per l’Export – fase 2: interventi sul sito e su siti diversi dal proprio

In questa fase si punta alla creazione di pagine mirate e all’ottimizzazione SEO-friendly di pagine esistenti. Le competenze sono soprattutto di natura informatica e sono delegabili a specialisti html che conoscano anche la SEO. Questa fase può richiedere anche investimenti orientati a produrre linkpopularity verso le pagine target, acquisendo backlink da siti esterni con strategie mirate. E’ essenziale che i link provengano unicamente da fonti autorevoli e di alta credibilità, nel caso contrario potrebbero persino risultare dannosi. Numerosi tools sono disponibili per individuare i siti potenzialmente candidati.

Consulenza SEO per l’Export – fase 3: monitoraggio delle posizioni e interventi di ottimizzazione ulteriore

In questa parte l’attività principale consiste nel misurare le posizioni ottenute sulle keyword target ed intervenire ulteriormente per aumentare il posizionamento dove si ritenga necessario.

Sono disponibili software appositi e servizi appositi che offrono questa funzione in modo automatico e possono produrre una reportistica giornaliera, o con altra cadenza desiderata.

Le attività in dettaglio

  1. Sviluppo di un piano editoriale per l’export
  2. Copyrighting e scrittura testi per l’export
  3. Creazione di video in lingue straniere per l’export
  4. Sviluppo di una linkpopularity centrata sulle lingue target
  5. Creare una versione ottimizzata per il mobile e far si che il sito sia sempre fruibile anche dai dispositivi mobili e cellulari o smartphone
  6. Indicizzare il sito sui motori di ricerca del paese target e della lingua target
  7. Pensare in modo interculturale: chiedersi come ragiona il cliente target e fare ricerca di mercato interculturale
  8. Esaminare i suggerimenti che offrono i tool automatici, considerando che alcuni di questi sono più utili di altri per certi paesi mentre altri sono più specializzati sulla SEO nazionale
  9. Fare una diagnosi del sito dal punto di vista della usabilità (usability) e dei servizi offerti
  10. Sviluppo di una nuova versione del sito “centrata sul cliente” e sulle sue esigenze al fine della riprogettazione del sito
  11. Strutturare una strategia di e-commerce centrata sulle lingue target e culture target (marketing interculturale SEO)
  12. Verificare la corrispondenza tra struttura attuale del sito e servizi offerti attualmente rispetto ai desideri dei clienti (wish-list del cliente) e tramite l’analisi dei “customer dreams” spiegata nel testo “Psicologia di Marketing e Comunicazione”
  13. Realizzare una strategia di backlink interculturale e internazionale
  14. Revisionare periodicamente la lista di parole chiave sulle quali ci si vuole posizionare, al variare dell’intento di ricerca del cliente
  15. Verificare la presenza e accessibilità delle “call to action” con un esercizio di stile culturalmente adeguato alla cultura del paese target
  16. Preparare pagine ottimizzate per la ricerca vocale su Google e su altri motori di ricerca specifici dell’area linguistica target
  17. Realizzare gli intenti di ricerca andando ad esaminare le ricerche svolte dagli utenti che cercano la categoria di prodotto o servizio che trattiamo
  18. Comprendere gli intenti di ricerca “in-site”, le ricerche svolte all’interno del sito stesso partendo dalla funzione “search” interna al sito web
  19. Verificare i percorsi di navigazione del cliente interni al sito, le pagine di ingresso e le pagine di uscita
  20. Realizzare un benchmarking esaminando i migliori competitor e le loro strategie di servizio offerto online

Nel marketing internazionale SEO dobbiamo essere sempre molto attenti a “come pensa il cliente online” nel paese e lingua di riferimento. E’ anche importante verificare l’andamento dei trend di ricerca tramite Google Trends e altri tool dedicati, per anticipare la concorrenza invece di doverla solo rincorrere.

Analisi semiotica del marketing internazionale SEO

L’analisi semiotica va a realizzare un esame qualitativo dello stile comunicativo del sito come esso viene percepito nella cultura target. Può accadere infatti che un sito sia molto gradevole nella cultura nel quale viene realizzato, e sgradevole o persino offensivo nella percezione della cultura target. Il look & feel di sito web è uno dei fattori chiave che dobbiamo considerare nell’analisi semiotica del marketing internazionale SEO.

Le parole chiave di questo articolo sull’attività SEO per l’export sono:

  • analisi degli interessi del cliente online
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© Articolo estratto con il permesso dell’autore, Dott. Daniele Trevisani dal libro “Ascolto Attivo ed Empatia. I segreti di una comunicazione efficace. Milano, Franco Angeli

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L’importanza della variabile “credibilità della fonte” nella persuasione è stata sottolineata già dai primi studi sulla materia, i quali avvalorano l’ipotesi seguente: un’alta credibilità della fonte ha più effetto, nel persuadere un’audience, che una fonte a bassa credibilità

L’ascolto attivo ha una forte componente persuasiva. Devo persuaderti che vale la pena raccontarmi le tue cose, le tue situazioni, dati, sentimenti, fatti accaduti, qualsiasi cosa sia oggetto del colloquio. 

Allora, la verità comincerà a fluire e l’ascolto a funzionare

Nel coaching, per quanto la fase di comunicare esprimendo dati sia inferiore al tempo passato nell’ascoltare, l’intero “apparato uomo”, l’intera persona come sistema, è una “fonte” che comunica qualcosa di sè, e come tale, soggetta ad esame di credibilità.  

Il coach è una fonte di ascolto, una fonte di consigli, una fonte intesa anche come fonte di saggezza, un porto sicuro nel mare in tempesta. Se non fornisce questa immagine, diventa dissonante. 

Se parliamo di ascolto, possiamo dire senza ombra di dubbio che – ove manchi credibilità spontanea – l’unico modo per ottenere informazioni sarebbe un interrogatorio. E questo non è certo quello che deve fare una persona che voglia praticare ascolto attivo. 

Quello che ci interessa è invece riuscire a creare un ambiente collaborativo e facilitante per l’ascolto. La nostra parte in questo consiste nell’essere persone con una forte credibilità, dovuta a due specifici meccanismi evidenziati dalla psicologia sociale: 

  1. Trustworthiness (o Trust): letteralmente “essere degni di fiducia”, essere persone attendibili; 
  1. Expertise: essere visti come persone competenti ed esperte sul tema che trattiamo, o nel processo di coaching stesso. 

Nel coaching e consulenza, la competenza ricercata è la capacità di analisi, e non tanto l’essere delle persone competenti nel campo merceologico di cui si occupa il cliente. Se ad esempio il cliente produce barche, ma noi siamo coach in azione per lavorare sulla leadership, deve emergere che sappiamo esperti in leadership, e non che siamo esperti di barche.  

Lo stesso vale per il public speaking, dove il fatto di parlare in una banca, in una fabbrica, in un teatro, o in un campo di gioco, non cambia la sostanza forte delle questioni su cui lavorare. 

La dinamica di ascolto va però adattata in funzione delle culture e delle persone.  

Se facciamo ascolto attivo a livello internazionale, sappiamo che un CEO aziendale giapponese pretenderà cenni di rispetto e di cortesia estrema, e non pacche sulla spalla. Il contatto fisico sarà da evitare, almeno nelle prime fasi. Se siamo negli USA, sappiamo che avremo a che fare con una cultura molto diretta, che non apprezza i convenevoli, importanti invece nelle culture latine ed arabe. 

Il fattore expertise (considerato come “competenza” tecnica o “qualificazione”) si riferisce alla conoscenza e preparazione tecnica della fonte riguardo i fatti presentati nel messaggio. 

Il fattore Trustworthiness si riferisce alla percezione che la persona dica o meno la verità che conosce (oppure dia solo una versione parziale dei fatti), con lo scopo di manipolare le controparti a loro insaputa. 

Queste due dimensioni possono essere combinate costruendo una matrice di analisi della credibilità per formare quattro diverse tipologie di percezioni della fonte:

  1. alta expertise- alta trustworthiness: la fonte più credibile, essendo percepita come competente e affidabile; 
  2. alta expertise- bassa trustworthiness: fonte inaffidabile; 
  3. bassa expertise- alta trustworthiness: fonte inesperta; 
  4. bassa expertise- bassa trustworthiness: fonte inaffidabile e inesperta. 

L’intento di passare all’ascolto attivo e non essere quindi spettatori disinteressati ci porta al tema dell’intento di coaching e intento comunicativo e stile comunicativo che ne deriva. 

Tutti si rivolgono a coach, esperti e consulenti per risolvere problemi, o aumentare le loro prestazioni. Il problema avviene quando il cliente pretende di sapere già quale sia la soluzione, e magari cerca una scorciatoia “rapida e indolore” per un obiettivo che richiede invece impegno e continuità. 

Nel momento in cui il professionista accondiscende ad offrire soluzioni che possano portare si alla performance desiderata, ma con grave danno per la persona stessa, l’etica deve far dire no.  

"Ascolto Attivo ed Empatia" di Daniele Trevisani

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© Articolo estratto con il permesso dell’autore, Dott. Daniele Trevisani dal libro “Ascolto Attivo ed Empatia. I segreti di una comunicazione efficace. Milano, Franco Angeli

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Nell’articolo di oggi sposteremo l’attenzione dalla leadership conversazionale, all’ascolto attivo come mezzo per comprendere che tipo di maschera o personaggio il nostro interlocutore ha deciso di interpretare nel teatro della comunicazione.

Ogni persona produce consciamente o inconsciamente una “rappresentazione di sé”.  

In senso Goffmaniano (da Irving Goffman, pioniere della micro-sociologia della vita quotidiana) si è iniziato a studiare il fenomeno per cui ogni persona durante un’interazione cerca di proiettare l’immagine di un personaggio, ed espone una “faccia” pubblica, coerente con gli obiettivi che si pone. A volte la rappresentazione di sé è sfumata, in altri casi invece stereotipata e prototipica, es.: 

  • il “condottiero”; 
  • il “tecnico”; 
  • il “super manager”; 
  • il “politico”; 
  • il “malato” o “paziente”; 
  • il “nobile”; 
  • la “vittima”; 
  • quello che “alla fine qui comando io”; 
  • l’insider dei circoli che contano. 

Ognuno di noi dentro di sé ha un’anima che si “agita” per essere qualcosa, per diventare qualcosa, per poter dire “io sono questo”. Gli archetipi si aggirano nell’ombra e spesso non siamo consapevoli di quali ci guidino. Pertanto, ogni comunicatore deve prima di tutto fare i conti con se stesso, con chi veramente è. 

Nella psicologia degli archetipi le persone vengono caratterizzate sulla base del loro bisogno primario. Sulla base dei diversi bisogni, si configurano specifici modi di essere, archetipi, modelli ispirativi, personaggi. L’archetipo è un’immagine mentale, una sorta di prototipo universale per i modi di essere, attraverso il quale l’individuo interpreta la realtà, percepisce e crea i propri bisogni. 

Nel linguaggio degli archetipi, questi sono i tipi principali: 

  • La Guida, il leader: si nutre del bisogno di potere e autorità. 
  • Il Creatore: si nutre del bisogno di novità e creatività. 
  • L’ Innocente: si nutre del bisogno di purezza, rinnovamento. 
  • Il Saggio: si nutre del bisogno di intelletto e curiosità. 
  • L’ Esploratore: si nutre del bisogno di avventura ed esplorazione. 
  • Il Mago: si nutre del bisogno di trasformazioni e sviluppo di sé. 
  • Il Ribelle: si nutre del bisogno di sfida all’autorità e alle convenzioni. 
  • L’ Eroe: si nutre del bisogno di dimostrare coraggio, sfida e determinazione. 
  • L’ Amante: si nutre del bisogno di attrazione e sensualità. 
  • Il Folle: si nutre del bisogno di divertimento e spontaneità. 
  • Il/La Ragazzo/a per bene (a volte individuato anche come l’orfano): si nutre del bisogno di dimostrare affidabilità e lealtà. 
  • L’ Aiutante: si nutre nel portare cura, sollievo e aiuto. 

Ascoltare in modo attivo significa anche ascoltare che tipo di personaggio l’interlocutore stia presentando di sé al palcoscenico della vita, e se quel personaggio gli stia stretto come un vestito di parecchie taglie inferiori, o gli calzi alla perfezione come un abito su misura. 

Dietro alla maschera si celano realtà personali, psicologiche ed esistenziali molto diverse da quello che il soggetto tenta di far apparire. 

Un ascoltatore attivo deve essere sensibile a quale rappresentazione di sé la controparte produce e utilizzare queste informazioni per i suoi scopi, che siano la consulenza, la vendita o il progetto su cui lavoriamo.

Anche chi ascolta, che si tratti di un terapeuta, formatore, venditore o consulente. produce consciamente o inconsciamente una “rappresentazione di sé”.  

Costruire attivamente un’immagine significa attuare precise strategie di “image building”, che non devono essere lasciate al caso. Anche per l’ascoltatore, la rappresentazione di sé può essere sfumata, oppure a volte molto evidente, es.: 

  • il “problem-solver”; 
  • il “tecnico”; 
  • il “medico”; 
  • lo “scienziato”; 
  • il “super manager”; 
  • il “politico”; 
  • l’“accusatore”; 
  • il “paladino della causa”; 
  • lo “psicanalista”; 
  • il “prezioso”; 
  • il “bisognoso”. 

L’essenza di chi pratica ascolto attivo, però, deve essere quella dell’autenticità: unica forma che è in grado di facilitare veramente ascolto ed empatia. 

"Ascolto Attivo ed Empatia" di Daniele Trevisani

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Continuando a parlare del teatro delle maschere nella comunicazione, oggi ci concentreremo su 3 argomenti differenti, seppur concatenati: la negoziazione dei ruoli, le regole del colloquio e la costruzione della credibilità per l’ascoltatore.

La negoziazione dei ruoli

L’incrocio tra le due rappresentazioni di sé crea un setting di interazione, un teatro di rappresentazioni, una serie di giochi attivi durante l’ascolto nel quale le due parti devono sapersi muovere. 

Alcuni tipi di incrocio possono risultate efficaci: ad esempio, l’incrocio tra consulente-medico e cliente-paziente è simmetrico. Al contrario, l’incrocio tra un cliente-nobile e un venditore problem-solver non è di facile risoluzione e richiede un ribilanciamento del rapporto, una vera e propria negoziazione del rapporto tra le parti. 

Interpretare l’autenticità significa invece uscire da questi giochi e stare su un piano di non-bisogno di dimostrazione, ed evitare lunghi e fastidiosi giochi di ruolo che rischiano solo di confondere la verità e togliere il palcoscenico all’empatia e all’ascolto attivo. 

Le regole del colloquio

Per dare vita ad buon colloquio: 

  • inquadra le “maschere” che gli attori stanno interpretando; 
  • esamina e comprendi i “giochi di relazione” che si stanno avviando; 
  • rispetta le regole di cortesia, deferenza e contegno;
  • sii consapevole della presenza di spazi psicologici, dei confini dei territori psicologici, dei rischi di un’invasione prematura e aggressiva dei territori altrui, e della necessità di entrarvi gradualmente e con tatto; 
  • rispetta una sequenzialità di confini della conversazione all’interno del colloquio stesso, cercando di seguire uno schema conversazionale adeguato; 
  • fissa soglie precise di “tolleranza per l’ambiguità” all’interno del range negoziale fissato e della mission conversazionale in corso; 
  • fissa precise soglie di tolleranza per le invasioni di ruolo, definendo strategicamente i tempi e i momenti in cui la persona può e deve riposizionare il proprio ruolo.
La costruzione della credibilità

Ogni messaggio, ogni presentazione, ogni momento d’interazione, ha un effetto di imprinting, cioè fissa un’immagine verso chi ci sta osservando o ascoltando. Cambiare quell’immagine iniziale, poi, è difficile. 

L’ascolto è una di quelle attività che vengono bene solo se come ascoltatori veniamo considerati degni di fiducia, onesti, competenti.  

Basta solo che vi sia anche solo una vaga percezione che le nostre intenzioni siano nascoste o che stiamo mentendo, per ottenere un blocco immediato della conversazione o del rapporto. 

Dobbiamo quindi esaminare numerosi elementi in grado di generare fiducia o sfiducia tra cui: 

  • lo stile di movimento (velocità del passo, camminata); 
  • le posture e il body language; 
  • le gestualità e l’espressività; 
  • il modo di stringere la mano; 
  • la mimica facciale; 
  • l’abbigliamento e gli accessori personali e professionali 
  • tono e timbro della voce. 

Tutti questi fenomeni sono centrali nella comunicazione, soprattutto nella fase di ascolto, in quanto, se non riusciamo ad emergere come persone “sicuramente affidabili” e competenti, nessuno ci dirà niente.  

La creazione dell’immagine e della credibilità, o la sua distruzione, non avvengono “di colpo” o per effetto di singole evenienze (se non estremamente forti), ma si compongono per sommatoria di: 

  • micro-osservazione; 
  • analisi di incongruenze e dissonanza; 
  • rilevazione di segnali deboli. 

Come evidenziato in “Psicologia di Marketing e Comunicazione“: 

“Le informazioni che possono essere colte durante la visita di un’azienda, nello scrutare una persona o un prodotto, si categorizzano in due classi importanti: i segnali generatori di fiducia (trust signals) e i segnali generatori di sfiducia (distrust signals)”.

  • Trust signals: elementi colti nel campo percettivo, che generano fiducia e rassicurazione. 
  • Distrust signals: elementi colti nel campo percettivo, che generano preoccupazione o sfiducia. 

Il percorso valutativo della nostra persona, di noi come interlocutori affidabili o meno, è costellato, in altre parole, dal ricevimento di tanti segnali e di tante informazioni.  

Se questi segnali e informazioni sono positive e congruenti tra loro, nasce fiducia, se sono negative oppure emergono incongruenze e dissonanze, la fiducia cala. 

Lo stesso vale quando esaminiamo chi parla con noi. 

trust signals svolgono il ruolo di elementi di rafforzamento della fiducia e dell’immagine. I distrust signals sono invece elementi di detrazione, negativi rispetto alla formazione della fiducia. 

L’azienda e il professionista orientati alla crescita devono analizzare attentamente quali elementi della propria comunicazione stiano funzionando da trust signals e quali da distrust signals

Spesso, essere supportati da consulenti nel campo della comunicazione aiuta. Un feedback onesto è, infatti, sempre prezioso e le critiche non vanno considerate come un attacco, ma come un impulso per continuare a crescere e migliorarsi. 

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Nell’articolo a seguire ci occuperemo ancora di leadership conversazionale. Questa volta però approfondiremo sia il gioco di ruoli all’interno della conversazione, ponendo particolare attenzione al ruolo leader dell’ascoltatore, sia le capacità fondamentali che ogni leader dovrebbe possedere se vuole imparare a gestire realmente un atto comunicativo.

Il ruolo dell’ascoltatore richiede una forte attenzione ai giochi comunicativi in corso, con la consapevolezza che nelle organizzazioni e nella negoziazione i messaggi non sono prodotti per fini poetici ma soprattutto per gestire il potere. Anche nel dialogo interpersonale, l’ascolto è una forma di potere. Chi ha il potere di fare domande, ha più potere di chi risponde. 

Vi sono pochi dubbi sul fatto che la comunicazione abbia a che fare con il potere, forse solo nei bambini piccoli possiamo trovare quella spontaneità pulita di chi comunica senza un fine. Per tutto il resto, la comunicazione ha anche a che fare con la ricerca di potere. 

La leadership nell’ascolto comprende la capacità di: 

  1. realizzare specifiche offerte di tema: buttare sul tavolo della conversazione argomenti voluti, non casuali, per vedere quale sia la reazione degli interlocutori; osservare se raccolgono il tema o lo lasciano andare, e notare le mosse dell’interlocutore (ignorare il tema, sminuire il tema, aggrapparsi al tema, valorizzarlo, ignorarlo); 
  1. gestire il formato conversazionale: quale clima predomina durante la relazione? Siamo di fronte al formato di “interrogatorio”, di “ricerca di una soluzione”, di “confessione reciproca”, o cos’altro? Vediamo un esempio in campo aziendale: se durante una negoziazione di vendita il venditore si accorge che il buyer sta adottando il formato “interrogatorio”, la leadership conversazionale prevede di farlo notare e cambiare i toni, con frasi del tipo “questa conversazione assomiglia più ad un interrogatorio che ad una ricerca di soluzioni, noi vorremmo provare a dare al nostro incontro un taglio diverso, forse più produttivo. Mi chiedevo cosa lei pensa rispetto a XYZ?”. In questo modo, notate una fase meta-comunicativa (riflettiamo sul fatto che così non va bene) e una fase di role-shifting, passaggio di ruolo da parlante ad ascoltatore (chi fa le domande), 
  1. ribilanciare i rapporti di potere: nelle famiglie si parte spesso dal principio che i genitori debbano avere più potere dei figli, creando così grandi danni. In azienda, nella leadership accade altrettanto. Nella vendita soprattutto, si assiste ad un “non detto” nel quale chi acquista detiene il potere della negoziazione. Questo potere viene esercitato tramite atteggiamenti tipici di chi detiene il potere: controllo sui contenuti, su chi deve parlare e su cosa e come si parla. A volte questo sfocia nell’arroganza immotivata. Grave segno di ignoranza. La leadership conversazionale prevede la capacità di riformulare i giochi, ribilanciare gli atteggiamenti, riportare i due soggetti sullo stesso piano, per non essere schiacciati. Fare domande è la leva più forte in questo senso. 

Essere leader di una famiglia significa riuscire nel ruolo di “guida” della famiglia stessa, e questo si esprime nelle conversazioni di gruppo ed individuali con i familiari.  

Ascoltare mariti, mogli, figli, parenti, è compito arduo, e ascoltare attivamente ed empaticamente, dimenticando i rancori, ancora di più. 

Essere leader di un reparto di produzione significa assumere il ruolo di punto di riferimento per tutti i tecnici, riuscendo a gestire conflitti, riunioni, processi formativi e motivazionali.  

Essere leader di una forza di vendita significa assumere il ruolo di mentore, supervisore e coordinatore di risorse e delle strategie (buon padre di famiglia, in altri termini), preoccuparsi di far crescere le persone, e applicare il ruolo in ogni comunicazione con i propri collaboratori. Al di là di quale sia il gruppo di riferimento aziendale o sociale, la leadership deve essere considerata un modo di essere che investe trasversalmente un soggetto all’interno di un gruppo di individui.  L’assunzione del ruolo è evidente nella modalità di comunicazione adottata, centrata sull’ascolto, e la sua mancanza è altrettanto evidente. Come evidenzia Tonfoni, ciascun ruolo si carica di aspettative e di comportamenti di ruolo.

Il mancato rispetto delle aspettative e dei comportamenti di ruolo è evidente proprio nella conversazione tra persone e nei gruppi in cui il soggetto non agisce come “individuo privato” ma come “interprete di un ruolo” (es. direttore, padrone, schiavo, servitore, o qualsiasi altro ruolo di copione). 

La leadership richiede quindi attenzione alle dinamiche comunicative di ascolto in cui si manifestano: 

  • attacchi al ruolo, da parte di membri del team; 
  • assunzioni di ruolo improprie, da parte di membri del team o di altri soggetti. 

I comportamenti comunicativi correlati sono quindi: 

  • segnalazione della percezione dell’attacco al ruolo, da parte del leader; 
  • esplicitazione dei fatti, ossia far emergere che si è capito cosa sta accadendo; 
  • difesa del ruolo
  • negoziazione dei ruoli reciproci
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  • parole evocative
  • mondi semantici
  • mondi di significati
  • rete semantica
  • barriere semantiche
  • valutazioni sociali
  • valutazioni culturali
  • valenze culturali
  • valenze etiche
  • valenze sociali
  • capire cosa motiva le persone
  • scegliere con cura le parole
  • training attivo
  • raggiungere risultati
  • rompere le barriere dell’incomunicabilità
  • abilità comunicative
  • abilità conversazionali
  • adattamento interculturale
  • sistemi culturali
  • dialogo tra aziende
  • approcci culturalmente diversi
  • contesti culturalmente diversi
  • “Get-Ready” Mindset
  • tecniche di gestione della conversazione
  • know-how
  • leadership
  • negoziazioni strategiche
  • pensare da professionisti
  • comportarsi da professionisti
  • conoscere noi stessi
  • conoscere gli altri
  • attenzione strategica all’interlocutore
  • identificare informazioni di importanza critica
  • fonti informative
  • teoria dei giochi e leadership conversazionale
  • essere leader tramite l’ascolto
  • offerte di tema
  • formato conversazionale
  • ribilanciare i rapporti di potere
  • aspettative di ruolo
  • comportamenti di ruolo
  • attacchi al ruolo
  • assunzioni di ruolo improprie
  • esplicitazione dei fatti
  • difesa del ruolo
  • negoziazione dei ruoli reciproci

Articolo estratto dal testo “Negoziazione Interculturale. Comunicazione oltre le barriere culturali“, copyright FrancoAngeli Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Il negoziatore interculturale spesso è soggetto ad un enorme stress emotivo. Per questa ragione è importante che quest’ultimo sappia riconoscere e gestire le proprie emozioni, senza ovviamente reprimerle in maniera assoluta, per evitare che possano incidere negativamente sulla negoziazione stessa. Di seguito elencheremo quali sono le problematiche più frequenti di questo tipo e le migliori tecniche per superarle.

La Mental Noise Theory

La Mental Noise Theory evidenzia che le persone irritate o che vivono emozioni negative hanno maggiori difficoltà nell’ascoltare e nell’elaborare l’informazione.

Il “rumore mentale” può ridurre dell’80% l’abilità di elaborare la comunicazione e di capire.

Tra le ragioni che conducono alla riduzione di efficienza comunicativa sino al 20% si collocano:

  • traumi dovuti a esperienze precedenti;
  • agende (priorità) in competizione;
  • eccesso emotivo (eccesso di attivazione);
  • scarso senso di autoefficacia (self-efficacy) e assertività.
Ecologia della comunicazione

L’ecologia della comunicazione rappresenta uno stimolo sensoriale complesso (inteso come insieme di input visivi, verbali, tattili, olfattivi, gustativi, cinestesici). Ogni elemento che raggiunge il sistema percettivo del soggetto è in grado di generare emozioni.

La serie di stimoli sensoriali che si attivano nella partecipazione alla negoziazione è quindi un portatore di attivazione emozionale, poiché durante la negoziazione vengono messi in gioco i propri interessi personali, gli interessi del ruolo rappresentato, quelli dell’impresa, ma anche la propria “faccia” ed immagine, verso se stessi (autostima) e verso gli altri.

Tali fattori emotivi si amplificano in genere nella negoziazione interculturale, in cui possono entrare in gioco altre ed ulteriori dimensioni, quali:

  • la Communication Apprehension (apprensione o ansia da comunicazione) amplificata da incontri di tipo interculturale;
  • l’etnocentrismo, la considerazione che la propria cultura sia superiore e la difficoltà di accettare opinioni provenienti da culture diverse;
  • la IWTC (intercultural willingness to communicate), intesa come generale atteggiamento o predisposizione (positiva o negativa) verso l’incontrare genti di culture diverse.

Quanto sono importanti le emozioni nell’incidere sulla performance? Nel metodo ALM si evidenzia con forza che il vissuto emotivo di un gruppo è uno dei fattori più importanti per poter ottenere performance durature ed efficaci.

L’importanza dei vissuti emotivi nei gruppi interculturali è evidenziata anche nei setting più estremi, come nei multicultural crews spaziali.

Sebbene accomunati da una passione e da una professione, i diversi bagagli di esperienze e di acculturazione possono portare il team-member a collidere in ambienti ristretti, non appena queste differenze iniziano a trasudare.

Essere chiusi in una stanza a “far funzionare una negoziazione” non è molto diverso – per le dinamiche interculturali in corso – dall’essere chiusi in un’astronave e doverla far operare.

Durante le manovre (fisiche o conversazionali), possono emergere una molteplicità di vissuti emotivi (rabbia, delusione, o anche semplice fastidio) che stratificandosi possono portare alla rottura del rapporto e al malfunzionamento delle operazioni.

Non si tratta solo di grandi scelte, ma a volte di micro-dettagli comportamentali, semplici gesti. Piccoli elementi secondari che all’interno di una cultura non disturbano possono risultare sgradevoli quando a giudicarli è una cultura diversa.

Riconoscere le emozioni è quindi indispensabile per la performance negoziale.

Il trascinamento emotivo durante la negoziazione

Per trascinamento emotivo intendiamo la situazione in cui una emozione, apparentemente ben gestita e rimossa, si ripresenti sotto altre forme in momenti successivi e vada ad incidere negativamente sugli esiti di una negoziazione.

Il trascinamento può accadere:

  1. all’interno della stessa sessione negoziale, andando a colpire soggetti diversi da quelli che hanno generato un impatto emotivo negativo
  2. tra le diverse sessioni, trasportando stati negativi da un incontro all’altro.

I trascinamenti intra-sessione accadono in modo molto maggiore di quanto ritenuto a livello cosciente. Un caso classico è quello della rabbia trattenuta verso uno degli interlocutori, che viene poi rigettata verso un altro interlocutore presente, in forma modificata, attenuata o rafforzata.

Il trascinamento tra sessioni invece si forma in seguito ad esperienze negative avute in rapporti precedenti con lo stesso soggetto o con la stessa categoria di soggetti. Possiamo avere avuto esperienze spiacevoli con una categoria e allargare queste esperienze all’intera categoria, entrando con una disposizione sbagliata nella negoziazione. Gli stereotipi che si formano debbono essere usati con cautela. Soprattutto, è indispensabile apprendere a fare “pulizia mentale” dagli atteggiamenti negativi frutto di sessioni precedenti e poter entrare nella negoziazione con la mente libera.

Anche la vita personale genera inevitabilmente vissuti emotivi: le relazioni con amici, familiari, parenti, gli eventi vissuti fuori dal lavoro impattano immancabilmente la persona. Alcuni individui sono bravi nel mascherare quanto accade loro nella vita personale, ma il mascheramento non è la strategia migliore.

Le tecniche più evolute sul piano professionale prevedono il ricorso a strumenti di counseling e coaching professionale, in grado di supportare il soggetto nell’elaborare i fatti della vita personale e professionale, ed integrare in modo armonico il vissuto personale con quello manageriale.

Allo stesso tempo, sul piano opposto, è possibile apprendere ad alimentarsi delle emozioni positive che la vita privata può offrire e assorbire queste energie per nutrire il piano professionale.

Per gestire lo stress emotivo da negoziazione vengono utilizzate nel metodo ALM diverse strategie.

Le tecniche di training autogeno e meditative (tecniche passive) e altre tecniche di rilassamento (dissipazione fisica, sport, tecniche attive) sono estremamente utili per generare una buona predisposizione emotiva nel negoziatore, soprattutto se praticate nella stessa giornata, prima della sessione negoziale.

Sul piano immediato, la separazione tra vissuti emotivi personali e tempo professionale può essere facilitata da apposite tecniche di rilassamento, mentre a livelli avanzati e sul lungo periodo risulta più produttivo il ricorso alle professionalità di coaching e counseling manageriale, che aiutino il manager a rivedere in profondità sia gli elementi dello stile di vita (lifestyle training) che la modalità di gestire le emozioni (emotional management).

Le tecniche utilizzabili sono:

  • strategie di preparazione concettuale e desk-work: analisi culturale, delle obiezioni culturali latenti, preparazione alla gestione delle obiezioni;
  • strategie di preparazione esperienziale: role playing situazionali per affinare e attivare gli schemi motori e conversazionali, creare readiness nelle le mosse conversazionali e creare sicurezza;
  • strategie di preparazione emozionale e riassetto emotivo: tecniche di rilassamento, training autogeno, concentrazione e meditazione;
  • tecniche fisiche di ricarica bio-energetica: lavoro fisico di rimozione dello stress tramite esercizio fisico finalizzato;
  • tecniche di disidentificazione, come quelle proposte da Assoagioli nella disciplina della Psicosintesi, che “allontanano” emotivamente il soggetto dall’esperienza in corso, come se fosse qualcosa che stia capitando ad altri e non intacca il proprio Self;
  • tecniche di ristrutturazione cognitiva, ad esempio passare dalla concezione della “negoziazione come scontro” alla “negoziazione come relazione d’aiuto” (aiutare la controparte a capire qualcosa o raggiungere un obiettivo);
  • tecniche di debriefing post-trattativa: in grado di sciogliere lo stress da negoziazione, rielaborarlo e utilizzarlo per la crescita anziché lasciare che esso blocchi l’individuo e lo impegni concettualmente ed emotivamente, rendendolo inadeguato a fronteggiare nuovi obiettivi o sfide.
libro "Negoziazione Interculturale" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Articolo estratto dal testo “Negoziazione Interculturale. Comunicazione oltre le barriere culturali“, copyright FrancoAngeli Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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Nelle prossime righe svilupperemo il tema dell’empatia e dell’ascolto attivo in ambito negoziale. Queste due tecniche sono considerate alla base del successo di qualsiasi negoziazione e sfatano il mito del venditore aggressivo che vince nella conversazione cercando sempre di avere l’ultima parola.

L’approccio empatico infatti prevede una concezione opposta: ascoltare in profondità per capire la mappa mentale del nostro interlocutore, il suo sistema di credenze (belief system), e trovare gli spazi psicologici per l’inserimento di una proposta.

Nel metodo ALM distinguiamo alcuni tipi principali di empatia in base agli angoli di osservazione:

  • Empatia comportamentale: capire i comportamenti e le loro cause.
  • Empatia emozionale: riuscire a percepire le emozioni vissute dagli altri.
  • Empatia relazionale: capire la mappa delle relazioni del soggetto e le sue valenze affettive.
  • Empatia cognitiva (o dei prototipi cognitivi): capire i prototipi cognitivi attivi in un dato momento del tempo, le credenze, i valori, le ideologie, le strutture mentali che il soggetto possiede e a cui si ancora.

L’empatia viene distrutta o favorita da specifici comportamenti comunicativi e atteggiamenti, come per esempio:

Favorisce l’empatiaDistrugge l’empatia
CuriositàDisinteresse
Partecipazione reale all’ascolto, non finzioneFingere un ruolo di ascolto solo per dovere professionale
Riformulazione dei contenutiGiudizio sui contenuti, commenti
Pluralità di approcci di domanda (domande aperte, chiuse, di precisazione, di focalizzazione, di generalizzazione), ecc..Monotonia nel tipo di domande, ecc…

La comunicazione d’ascolto, e la qualità dell’ascolto, comprendono la necessità di separare nettamente le attività di comprensione (comunicazione in ingresso) dalle attività di espressione diretta (comunicazione in uscita).

Durante le fasi di ascolto è necessario:

  • non interrompere l’altro;
  • non giudicarlo prematuramente;
  • non esprimere giudizi che possano bloccare il flusso espressivo altrui;
  • non distrarsi, non pensare ad altro, non fare altre attività mentre si ascolta (tranne prendere eventuali appunti), usare il pensiero per ascoltare, non vagare;
  • non correggere l’altro mentre afferma, anche quando non si è d’accordo, rimanere in ascolto;
  • non cercare di sopraffarlo;
  • non cercare di dominarlo;
  • non cercare di insegnargli o impartire verità, trattenere la tentazione di immettersi nel flusso espressivo per correggere qualcosa che non si ritiene corretto;
  • non parlare di sè;
  • testimoniare interesse e partecipazione attraverso i segnali verbali e il linguaggio del corpo.

Di particolare interesse risultano gli atteggiamenti di:

  • interesse genuino e curiosità verso la controparte;
  • silenzio interiore: creare uno stato di quiete emozionale.

L’ascolto attivo e l’empatia non vanno confuse con l’accettazione dei contenuti altrui. Le regole di ascolto attivo infatti non sono regole di accettazione del contenuto, ma metodi che permettono di far fluire il pensiero altrui più liberamente possibile, in modo da raccogliere le “pepite informative” che l’interlocutore può donare. L’empatia, se ben applicata, produce “flusso empatico”, un flusso di dati, informazioni fattuali, sentimentali, esperienziali, di enorme utilità per il negoziatore.

La fase di giudizio su quanto espresso deve essere “relegata” a fasi successive della contrattazione, e non deve interferire con la fase di ascolto.

Esiste un momento nel quale però il negoziatore deve arrestare il flusso (momento di svolta, turning point), ma in generale è bene lasciarlo fluire, finche non si sia compreso realmente con chi si ha a che fare e quali sono i veri obiettivi, e tutte le altre informazioni necessarie.

Le tecniche empatiche sono inoltre d’aiuto per frenare la tendenza prematura alla disclosure informativa di sè: la fornitura di informazioni e dati che potrebbero risultare controproducenti e avere un effetto boomerang sul negoziatore deve essere svolta infatti con estrema cautela.

Per quanto riguarda l’ascolto attivo, esso si collega alla comunicazione paralinguistica e non verbale e comprende in particolare:

  1. tecniche verbali di ascolto attivo;
  2. tecniche paralinguistiche di ascolto attivo;
  3. tecniche non verbali di ascolto attivo.

Le tecniche verbali di ascolto attivo comprendono parole che segnalano attenzione e comprensione.

  • Domande aperte
  • Domande chiuse o di precisazione
  • Tecnica dello specchio (riflessione del contenuto): ripetizione di frasi o parti di frasi dette dalla controparte, senza modifiche e alterazioni.
  • Parafrasi: utilizzo del “come se”. Ricerca della comprensione di quanto detto, con l’uso di metafore o esempi che cercano di valutare se si è realmente compreso il senso profondo di quanto la controparte dice.
  • Sintesi storica: ripetizione di quanto asserito, sotto forma di riassunto.
  • Incoraggiamenti verbali: es, “bene”, “interessante”, “si”, “ok”.

Le tecniche paralinguistiche di ascolto attivo si basano invece sull’utilizzo di vocalizzazioni che esprimono interesse per la “storia” e facilitano l’espressione, quali uhmm…; ahh….; emissioni gutturali o respiratorie; ecc…

Lo scopo delle tecniche paralinguistiche è quello di fornire segnali fàtici (di contatto), affinché l’interlocutore senta che siamo in ascolto, siamo presenti, e siamo interessati.

Infine le tecniche non verbali di ascolto attivo sono quelle che utilizzano l’atteggiamento del corpo per esprimere interesse:

  • postura, aperta ed inclinata in avanti per indicare disponibilità;
  • avvicinamento e allontanamento (prossemica);
  • espressione del volto attenta e partecipativa;
  • sguardo attento e diretto;
  • movimenti delle sopracciglia associati a punti salienti del discorso altrui;
  • cenni del capo, cenni assenso o di diniego;
  • gesti morbidi, lenti e rotatori per comunicare senso di rilassamento;
  • metafore non verbali utilizzando il body language, che dimostrano comprensione di quanto detto dalla controparte.

Sul piano non verbale, dobbiamo sempre considerare che numerose culture frenano l’espressione non verbale delle emozioni (es: quelle asiatiche), ma che anche questo dato è uno stereotipo comunicativo, di valenza solo probabilistica e non consegna certezze.

In sintesi, le tecniche principali per un accolto efficace sono:

  • curiosità e interesse;
  • parafrasi;
  • sintesi e riassunti;
  • direzionare l’ascolto tramite domande mirate;
  • evitare domande eccessivamente personali finche non si sia creato un rapporto;
  • offrire al parlante la possibilità di dare feedback sul fatto che quanto capito sia corretto;
  • leggere le parole ma anche i segnali non verbali per valutare i sentimenti e stati d’animo;
  • verificare la corretta comprensione sia dei sentimenti che del contenuto;
  • non dire alle persone come dovrebbero sentirsi o ciò che dovrebbero pensare.

In una negoziazione è possibile modificare ciò che gli altri pensano o come gli altri si sentono, ma questo obiettivo verrà perseguito solo ed unicamente se prima il negoziatore sia riuscito a porre in essere un ascolto attivo, attivando l’empatia necessaria per capire in quale quadro si stia muovendo.

libro "Negoziazione Interculturale" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

Dr. Daniele Trevisani - Formazione Aziendale, Ricerca, Coaching