Tag

insegnamento

Browsing

Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele TrevisaniIl potenziale umano. Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance”. Franco Angeli editore, Milano.

Sviluppare il potenziale per accrescere la linfa vitale

Potenziare se stessi e gli altri è una volontà non solo del coaching ma anche di ogni serio insegnante, terapeuta, formatore e leader.

Chi nella vita vuole produrre risultati e performance non può che lavorare sodo per essere il massimo di ciò che la genetica, la natura e la storia gli consentiranno entro la sua vita limitata, il suo soffio nell’universo.

Puntare al minimo, decidere di vivere soffrendo, sprecarla, autocastrarsi, o accettare i sistemi oppressivi, è un’offesa alla vita. Se una persona ha la possibilità di essere un atleta, lo deve essere, ci deve provare. Se può essere uno scienziato, lo deve essere, o ci deve provare. Se può essere uno che aiuta gli altri, li deve aiutare. Se ama insegnare, deve ambire ad insegnare.

Un buon coach saprà anche aiutare la persona a capire se il suo volere è veramente quello o non stia solo copiando qualche modello proposto dai media, o seguendo ciecamente le aspettative sociali, e questo è un lavoro delicato.

Come sostiene la riflessione di Williamson[1]:

La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati.

La nostra paura più profonda, è di essere potenti oltre ogni limite.

È la nostra luce, non la nostra ombra, a spaventarci di più.

Ci domandiamo: “Chi sono io per essere brillante, pieno di talento, favoloso?”

 In realtà chi sei tu per NON esserlo?

Siamo figli di Dio.

Il nostro giocare in piccolo, non serve al mondo.

Non c’è nulla di illuminato nello sminuire se stessi

cosicché gli altri non si sentano insicuri intorno a noi.

Siamo tutti nati per risplendere, come fanno i bambini.

Siamo nati per rendere manifesta la gloria di Dio che è dentro di noi.

Non solo in alcuni di noi: è in ognuno di noi.

E quando permettiamo alla nostra luce di risplendere,

inconsapevolmente diamo agli altri la possibilità di fare lo stesso.

E quando ci liberiamo dalle nostre paure,

la nostra presenza automaticamente libera gli altri.

[1] Brano tratto da Williamson, Marianne (1992) Return to Love, Harper Collins. Vedi http://en.wikiquote.org/wiki/Marianne_Williamson 

Molta parte dei sistemi educativi e delle religioni non aiutano le persone a sviluppare, ma piuttosto a soffocare, le aspirazioni più profonde di crescita personale, condannandole come egoismi.

Dobbiamo odiare con il più profondo del cuore i sistemi di pensiero che mettono le persone in condizioni di spegnere le loro aspirazioni e le loro energie. Aiutare le persone a risplendere, ed essere sinceri, richiede coraggio.

Molto più comodo sarebbe dire che tutto va bene, anche se non è vero.

L’essenziale è lanciarsi in un viaggio di scoperta di sé, nello sport, nella vita, nel lavoro, dovunque sia, non importa dove. È iniziare e poi cambiare strada facendo, se i risultati non arrivano, o se le strade sono chiuse, ma non bisogna stare fermi. I possibili campi di espressione sono enormi.

E dietro ogni fallimento si può nascondere una lezione, non un semaforo rosso a vita. Anche un incidente di percorso può insegnare qualcosa.

I fallimenti non sono sufficienti a bloccare un’ambi­zione, sono invece casi importanti da analizzare e da cui apprendere per sostenere future sfide con più preparazione. I fallimenti devono essere esaminati e diventare lezioni apprese (lessons learned).

Il senso delle performance è agire nella luce, il senso del potenziale umano è squarciare il buio delle paure immotivate e dell’auto-riduzionismo letargico. Questo sia nell’individuo, in noi stessi, che nelle imprese, e persino nei sistemi estesi come le nazioni, o per l’intera razza umana.

Il senso profondo del coaching e dei progetti di sviluppo è di permettere alla luce altrui di risplendere, aiutare le persone a produrre squarci di luce nei propri orizzonti, liberare il potenziale. Questi sono i tratti di una psicologia positiva delle performance.

La ricerca della potenza da obbligo di elevazione del “guerriero” è diventata – in tempi di buonismo – cosa cattiva. Un errore madornale.

I performer e i cercatori del potenziale umano vanno in cerca di potenza, e non si devono vergognare di questo.

Dalle sue energie l’uomo trae linfa, e una società di persone spente non fa comodo a nessuno, se non a chi vuole governare persone spente, impaurite.

A seconda del suo stato vitale, l’uomo, questo strano essere, si impegna per compiere imprese incredibili così come per trascinarsi giorno dopo giorno nell’esistenza. Una psicologia negativa, che coltiva soprattutto la disistima in sè, il depotenziamento, ha paura di ciò che una persona emancipata può fare, genera il collettivismo forzato, soffoca l’individuo.

Il bisogno di silenziare la pulsione a crescere, mettere i paraocchi rispetto a ciò che sono le vere opzioni della vita, oscurare orizzonti, è malvagità. Impedire, silenziare e depotenziare, anziché stimolare la forza e creatività individuale, può solo uccidere le persone e le loro performance nel loro senso più profondo e umano, quello di atti di liberazione.

Coaching, training e formazione, nella nostra visione, sono attività che devono portare l’essere umano (da solo o in gruppo) ad aumentare la sua potenza, a compiere nuove imprese, dare strumenti per realizzare ciò che può diventare, per se stessi, per l’organizzazione per cui si lavora, per le squadre in cui si agisce, ma soprattutto e prima di tutto per rispettare un impegno sacro: rendere onore al fatto di essere pienamente vivi, e non vivi a metà.

Per farlo, il lavoro sul potenziale e sulle performance deve, in linea di massima, lavorare su due piani: (1) riconoscere e liberare le incrostazioni e “sassi nello zaino”, stili di pensiero negativi, errori comportamentali e mentali, e (2) far entrare il nuovo, imparare concetti e atteggiamenti, abilità, formarsi, prepararsi, abituarsi anche a pensare con abiti mentali mai indossati prima. Il ruolo di un coach serio, di un formatore impegnato, di un consulente, o di un insegnante, dovrebbero essere impregnati di questo spirito vitale.

Va da se che una persona che sia stata in grado di accedere a tutto il suo potenziale, potrà dare a sé e agli altri contributi eccezionali. La potenza è energia pura, va solo direzionata per fini positivi.

Altri materiali su Comunicazione, Coaching, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online:

Temi e Keywords dell’articolo:

  • modello
  • metodo HPM
  • visione
  • valori
  • potenziale umano
  • autorealizzazione
  • crescita personale
  • potenziale personale
  • crescita e sviluppo
  • aspirazioni
  • sogni
  • desideri
  • orientamento
  • viaggio interiore
  • scoperta di sè
  • introspezione
  • smart goals
  • Potenziare sé stessi
  • risultati
  • Performance
  • Performer
  • Dare il massimo
  • Sincerità con sé stessi
  • Incidente di percorso
  • Insegnamento
  • Ambizione
  • Lezione appresa
  • Linfa vitale
  • Energia pura
  • Potenza
  • Potenziale Umano Veneto
  • Mental Coach
  • Formazione aziendale
  • formazione assistenti sociali
  • formazione educatori
  • supervisione

dojo ricerca interiore

Dōjō (道場, Dōjō?), comunemente traslitterato come dojo, è un termine giapponese che significa etimologicamente luogo () dove si segue la via (). In origine il termine, ereditato dalla tradizione buddhista cinese, indicava il luogo in cui il Buddha ottenne il risveglio e per estensione i luoghi deputati alla pratica religiosa nei templi buddhisti. Il termine venne poi adottato nel mondo militare e nella pratica del Bujutsu, che durante il periodo Tokugawa fu influenzata dalla tradizione Zen, perciò è a tutt’oggi diffuso nell’ambiente delle arti marziali.
Nel budō è lo spazio in cui si svolge l’allenamento ma è anche simbolo della profondità del rapporto che il praticante instaura con l’arte marziale; tale ultimo aspetto è proprio della cultura buddhista cinese e giapponese, che individua il dojo quale luogo dell’isolamento e della meditazione.
I dojo erano spesso piccoli locali situati nelle vicinanza di un tempio o di un castello, ai margini delle foreste, perché i segreti delle tecniche venissero più facilmente preservati. Con la diffusione delle arti marziali sorsero numerosi dojo che venivano in molti casi considerati da maestri e praticanti una seconda casa; abbelliti con lavori di calligrafia e oggetti artistici preparati dagli stessi allievi, essi eprimevano appieno l’atmosfera di dignità che vi regnava; talvolta su di una parete veniva posto uno scrigno, simbolo che il dojo era dedicato ai più alti valori e alle virtù del Do, non soltanto all’esercizio fisico. In altri dojo si trovavano gli altari detti kamiza (sede degli Dei), riferiti non a divinità ma al ricordo di un grande maestro defunto. Il dojo rappresenta un luogo di meditazione, concentrazione, apprendimento, amicizia e rispetto, è il simbolo della Via dell’arte marziale.
In Occidente questo termine viene impropriamente tradotto in palestra ed inteso unicamente come spazio per l’allenamento, mentre nella cultura orientale il dojo è il luogo nel quale si può raggiungere, seguendo la Via, la perfetta unità tra zen (mente) e ken (corpo) e, quindi, il perfetto equilibrio psicofisico, massima realizzazione della propria individualità. Il dojo è la scuola del sensei (maestro): egli ne rappresenta il vertice e sue sono le direttive e le norme di buon andamento della stessa; oltre al maestro ci sono altri insegnanti, suoi allievi, ed i senpai (allievi anziani di grado) che svolgono un importante ruolo: il loro comportamento quotidiano rappresenta l’esempio che deve guidare gli altri praticanti; quando un sempai non si cura del proprio comportamento diventa un danno per tutta la scuola.
Nessun allievo avanzato prende dal dojo più di quanto esso non dia a sua volta: il dojo non è semplice spazio ma anche immagine di un atteggiamento, i dojo della Via si differenziano in questo aspetto dai normali spazi sportivi: l’esercizio fisico può anche essere il medesimo ma è la ricerca del giusto atteggiamento che consente di progredire. L’allievo entra nel dojo e deve lasciare alle spalle tutti i problemi della quotidianità, purificarsi la mente e concentrarsi sull’allenamento per superare i propri limiti e le proprie insiscurezze, in un costante confronto con sé stesso.
Il dojo è come una piccola società, con regole ben precise che devono essere rispettate. Quando gli allievi indossano il keikogi diventano tutti uguali; la loro condizione sociale o professionale viene lasciata negli spogliatoi, per il maestro essi sono tutti sullo stesso piano. Si apprende con le tecniche una serie di norme, che vanno dalla cura della persona e del keikogi (che mostra solo l’emblema della scuola), al fatto di non urlare, non sporcare, non fumare, non portare orecchini od altri abbellimenti (per evitare di ferirsi o di ferire), al fatto di comportarsi educatamente sino all’acquisizione dell’etica dell’arte marziale che discende da quella arcaico-feudale dei samurai: il Bushido o Via del guerriero.
Il coraggio, la gentilezza, il reciproco aiuto, il rispetto di se stessi e degli altri sono dettami che entrano a far parte del bagaglio culturale dell’allievo. Nel dojo non si usa la violenza: non per nulla le arti marziali enfatizzano la forza mentale e non quella fisica, condannata prima o poi ad affievolirsi.
Si entra e si esce dal dojo inchinandosi: un segno di rispetto verso l’arte del ringraziamento per tutto ciò che di valido essa ha offerto. Anticamente nel dojo veniva eseguito il rito del soji (pulizia): gli allievi, usando scope e strofinacci, pulivano l’ambiente, lasciandolo in ordine per i successivi allenamenti. Tale gesto è il simbolo della purificazione del corpo e della mente: i praticanti si preparano ad affrontare il mondo esterno con umiltà, dote necessaria per apprendere e per insegnare l’arte marziale. (fonte: Wikipedia)

I GRAZIE FANNO BENE … purtroppo viviamo in una società avara di ringraziamenti, ma prontissima nel criticare… allora… facciamo i nomi e cognomi di chi sta facendo qualcosa di buono!

Un praticante iscritto al nostro gruppo “Praticanti di Arti Marziali e Sport di Combattimento in Italia” mi ha scritto un messaggio e ha accettato di poterlo condividere con gli altri praticanti. Vi chiedo solo di non fermarci alle sigle (es, Sensei, piuttosto che Maestro, o Istruttore, o altro) ma di entrare nella realtà di quello che ci dice questa testimonianza, e che ci conferma: IL NOSTRO NON E’ SOLO UNO SPORT, LE NOSTRE NON SONO SOLO DISCIPLINE COME LO POSSONO ESSERE ALTRE (DIGNITOSISSIME, SENZA CRITICHE, MA DIVERSE DALLA NATURA PROFONDA DELLE ARTI MARZIALI E DEGLI SPORT DA RING) E SUL LORO POTERE EDUCATIVO, SE BEN APPLICATE, ENORME!

CHIEDO SOLO A CHI LEGGE QUESTO MESSAGGIO DI ANDARE SULLA BACHECA DEL GRUPPO, E METTERE UN RINGRAZIAMENTO A CHI PENSANO DI POTER RINGRAZIARE, E FACCIAMO I NOMI E COGNOMI PERCHE’ CHI SI SFORZA PER INSEGNARE, SAPPIA CHE IL SUO LAVORO E’ UTILE, LA MOTIVAZIONE IN QUESTO CAMPO E’ TUTTO, PER CONTINUARE A SBATTERSI E’ NUTRIMENTO VITALE

esempio: Ringrazio il Maestro Alfonso de Vito per quello che mi ha insegnato, un saluto dalla palestra Daoshi Cento (Ferrara)

ECCO IL MESSAGGIO … e ringrazio di cuore il praticante Anselmo Bandoni per aver condiviso con me e con tutta la nostra comunità questo pensiero, che parla soprattutto del “cammino di crescita” che un buon Maestro può aiutare a far fare ai giovani:

…ho 43 anni ed il mio sensei ne ha 28 anni ed è un grande esempio per i nostri giovani, io sono veramente contento che mio figlio abbia incontrato nel suo cammino un uomo di sani principi come lui ed io da poco ho iniziato il cammino con loro e ne vado fiero.
sono contento che il nostro “mondo” poco a poco ma sempre di più sia la pista di lancio nella vita dei nostri giovani con più sani principi,
grazie per quello che stai e state facendo può solo aiutare e spero che i riflettori si accendano sui nostri sport, per il vero valore e senzo di responsabilità che gli addetti hanno verso i nostri giovani.
GRAZIE

____
un grazie a tutti per quello che fate…
dott. Daniele Trevisani