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© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Negoziazione interculturale. Comunicare oltre le barriere culturali. Dalle relazioni interne sino alle trattative internazionali”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore

Le barriere linguistiche e culturali

Una delle prime scoperte di chi si avventura al di fuori dei propri contesti culturali, è che le regole comportamentali funzionanti nella propria cultura si dimostrano fragili e poco produttive quando trasposte in un contesto estraneo. 

Vediamo alcuni esempi brevi:

  • Nella tua casa: da un pò vorresti trattare con un tuo familiare un argomento, ma ogni volta che ci provi la persona sfugge. Cosa sta accadendo?
  • Nella tua nazione: un cliente vorrebbe acquistare (un progetto, un prodotto) ma tu sai che l’acquisto è sottodimensionato, il problema che egli vorrebbe risolvere è grande e il budget non è sufficiente per dargli un risultato vero, come riesci a farlo capire?
  • Pechino. Ore 9,30, Hotel Sheraton. La delegazione dell’impresa cliente non è ancora arrivata, l’appuntamento era alle 9,15. Possiamo interpretarlo come una mossa tattica, o un reale ritardo? Volevano ritardare, o è successo qualcosa?
  • Mosca. Proponiamo alla controparte l’esclusiva del nostro prodotto sul territorio Sovietico, il benefit aggiuntivo della formazione del personale di tutta la loro rete vendita, ma la controparte si offende e chiude le trattative. Cosa è successo?
  • Buenos Aires. Le trattative per accedere agli appalti del ministero dell’industria sono interminabili, incomprensibili, oscure. Come comportarci?
  • Gerusalemme. Rappresentanti dei culti ebraico, cattolico e musulmano, ministri e rappresentanti politici si incontrano per negoziare una pace possibile, siete chiamati a condurre il dibattito, come evitare un conflitto?
  • Budapest. La direzione di stabilimento non riesce ad abbattere i difetti di produzione, ogni tentativo di intervenire in profondità è vano. Cosa fare?

In ogni situazione esemplificativa esposta, siamo di fronte alla problematica della negoziazione interculturale.

La capacità negoziale interculturale è nelle mani di chi è più abile nel gestire la comunicazione sul campo, applicando la consapevolezza culturale (power of awareness) in ogni singolo contatto. 

Ma vediamo qualche altra situazione.

  • Bologna, inizi del terzo millennio: un bambino di nove anni non vuole più andare alla scuola di calcio che frequenta già da due anni, preferisce giocare con i propri amici nel campetto, e di scuola di calcio e campionato non vuole più sentire parlare. Perché?
  • Monaco di Baviera: un marito trentenne, libero professionista, litiga con la moglie (stessa età) perché lui vuole fare i figli solo quando avranno una solida base economica, mentre la moglie vuole farli presto. Cosa succede?
  • Casa tua: ti svegli alla mattina e sai di aver fatto un sogno che ti ha colpito ma non riesci a ricordare i particolari. Cosa è successo?
  • Nel tuo ufficio o azienda: con un collega non riesci a capirti da tempo, sembrate parlare due lingue diverse, più ti sforzi e più non vi capite, cominci ad essere veramente stanco della situazione. Cosa sta succedendo in realtà?

In tutti questi casi entra – a vari stadi – la dimensione interculturale. 

Un denominatore comune accomuna tutti questi casi: le barriere linguistiche non sono nulla rispetto alla diversa visione del mondo che le persone portano con se, e alle diversità che esiste tra sè e gli altri, nonostante le apparenze.

Non vogliamo svelare o proporre soluzioni facili o immediate per tutti questi diversi casi (al massimo, possiamo proporre ipotesi), ma vogliamo dare solo un indizio sul caso che sicuramente risulta più strano e difficile da inquadrare come comunicazione interculturale: il ricordo di un sogno. Ebbene, come evidenziano diverse ricerche nel campo, anche il dialogo interno alla stessa persona (dialogo interiore) assume tratti del dialogo interculturale. 

Quando diversi stati di coscienza hanno difficoltà a dialogare tra loro, es: lo stato razionale della veglia contro lo stato inconscio e subconscio del sonno, si produce incomunicabilità interna. Questi stati sono dominati da logiche estremamente diverse, e riescono a trovare momenti di comunanza solo in rare occasioni (come negli stati di confine, di dormiveglia, i momenti nei quali nessuno dei due riesce a dominare l’altro).

Persino a livello interiore, quindi, troviamo sintomi di una condizione di dialogo interculturale.

Le barriere alla comunicabilità e i campi semantici

Abbiamo iniziato ad accennare, nel paragrafo precedente, al problema della diversa concezione del mondo prodotta dalla diversità culturale. 

Ma i problemi non si fermano qui. Nella comunicazione interculturale troviamo infatti una ulteriore barriera, in genere molto più evidente: una lingua diversa, un linguaggio diverso, un codice di comunicazione non comune, dei sottocodici (dialetti, linguaggi professionali) sconosciuti. 

È sufficiente sentir parlare tra di loro due astronomi o due fisici, mentre trattano un loro problema lavorativo, per sentirsi dopo pochi secondi completamente estranei, non riuscire a connettersi mentalmente con quanto essi stiano dicendo.

Anche in questo caso dobbiamo considerare un fenomeno importante: la diversità linguistica può essere evidente (macrodiversità: es., Cinese vs. Arabo), ma anche molto subdola e difficile da riconoscere, creando situazioni di microdiversità linguistica.

Esistono diversi linguaggi professionali all’interno della stessa lingua, e significati diversi applicati alle stesse parole.

Il problema della comunicazione non si limita alla traduzione tra lingue diverse, ma tocca anche il flusso di parole che intercorrono tra padre e figlio, cresciuti in due generazioni diverse, con modelli e linguaggi diversi, o tra dirigenti di diversi settori, i cui problemi e linguaggi divengono mondi separati.

Tradurre significa trasportare significati all’interno di altre lingue, ma anche, e soprattutto, consentire l’accesso ad un sistema di pensiero diverso.

Vediamo il seguente caso:

  • per gli Americani USA, “tomorrow” (domani, in italiano) significa dalla mezzanotte alla mezzanotte;
  • in Messico, “mañana” (sempre “domani” in italiano) significa “nel futuro”, ha senso posticipatorio generale, e non racchiude assolutamente un preciso arco di tempo.

Le due diverse concezioni non sono puramente linguistiche, ma si riferiscono ad una diversa percezione del tempo.

Quando due generazioni o due religioni dialogano tra di loro, il problema dell’interpretariato culturale si pone seriamente. Questo problema emerge anche nel dialogo tra due aziende, indipendentemente dalla lingua utilizzata.

La traduzione è in realtà un fenomeno molto più complesso. Ogni parola, ogni verbo, ha “campi semantici” (campi di significato) specifici e non traducibili esattamente nella lingua altrui. In alcuni casi, non esistono possibilità di traduzione – in molti casi, le parole e verbi non hanno alcuna corrispondenza esatta nelle culture e lingue altrui. 

Vediamo un esempio. Una società italiana si appresta ad avviare una attività produttiva in Cina. È alla ricerca di consulenze in loco per formare i quadri sui temi della leadership orientata alla qualità, l’impegno sui valori aziendali (commitment), la buona comunicazione interna. È alla ricerca quindi di formatori in comunicazione. Ma come farà a descrivere il proprio bisogno, quando la categoria “formatori in comunicazione” non è linguisticamente consolidata nella lingua cinese? E siamo sicuri che – qualora esista un termine similare – l’immagine mentale che in Italia corrisponde al “formatore” sia la stessa nella mente del ricevente cinese? Pensare che le immagini mentali tra due soggetti possano combaciare perfettamente è una pura illusione.

Esistono problemi interculturali anche quando si parla di comunicazione tra sessi. Se solo riflettiamo su quanta diversità esista tra un uomo e una donna latini sul concetto di “avere una relazione”, o “fare l’amore”, e altri concetti simili, possiamo capire che la dimensione interculturale sia presente in ogni istante quotidiano.

Ma torniamo alla nostra dimensione italo-cinese. Di quale forma di comunicazione stiamo parlando? In Cinese esistono almeno due termini (ideogrammi) per descrivere la “comunicazione”, ed almeno tre parole che possono vagamente avvicinarsi al senso del termine “formatore”. Siamo certi di poter tradurre correttamente o che il traduttore lo faccia?

Anche lingue molto simili (italiano e spagnolo) possono dare origine a problemi di traduzione, a volte proprio per la similarità del sound o della parola. 

La parola “imbarazzata” in italiano ha un significato (all’incirca, essere a disagio), mentre in spagnolo la parola “embarazada” significa essere incinta. La stessa similarità nella radice della parola genera problemi nel parlante americano che si rapporta ad un parlante spagnolo dicendo “I am embarrassed” (sono imbarazzato), che può essere decodificato come “sono incinto”.

Il problema interculturale non parte solo dalla distanza chilometrica, ma può prodursi nel raggio di pochi metri. 

Ogni dialetto è pieno di parole che non possono essere tradotte nella lingua ufficiale.

Le distanze psicologiche e comunicative

Sentire la “distanza” tra persone è un fatto comune, quotidiano. Sentirsi lontani anche quando si è vicini fisicamente, cercare un contatto e non trovarlo, non capire le mosse di avvicinamento altrui, i desideri di un rapporto più profondo, o i segnali che gli altri ci lanciano. È un aspetto comune della vita.

Possiamo però, ed è questo il gioco interessante – cercare di ridurre queste distanze, se e quando lo desideriamo interiormente – nel caso delle amicizie e rapporti intimi. 

In questi casi, o quando sia importante in termini di business, è possibile mettere in atto dei dispositivi che ci permettano di cercare l’avvicinamento, ridurre la distanza e allontanare l’incomprensione.

Tra i principali errori della comunicazione vi è quello di illudersi che le persone siano tutto sommato simili in termini di opinioni, linguaggi, atteggiamenti, valori di fondo, visioni del mondo

Questa presunzione porta a considerare la trasmissione di un’idea o concetto che noi consideriamo ovvio e semplice, un fatto quasi “automatico”, mentre nella realtà le cose non stanno così.

Una ulteriore illusione è che la comunicazione interculturale richieda poco sforzo o impegno. Alcuni pensano di risolvere i rapporti con mogli, mariti figli, colleghi, parlando ad un cellulare per pochi minuti. Fossero anche ore, la qualità comunicativa rimarrà comunque inadatta al problema.

La vera negoziazione interculturale richiede tempo, impegno, dedizione, contatti interpersonali e ampio “lavoro di rapporto” che non si conclude con un email o una telefonata.

Se vogliamo essere efficaci sul piano interculturale dobbiamo utilizzare i tempi adeguati e i mezzi di contatto adeguati.

I critical incidents (casi critici, positivi o negativi) sono di estremo aiuto per scoprire alcuni meccanismi di relazione che non funzionano, comportamenti e atteggiamenti che creano difficoltà nei rapporti e nelle negoziazioni, dove non sia stato dedicato il tempo sufficiente a lavorare sul rapporto, a chiarire le diversità, o non siano stati utilizzati i mezzi di contatto più efficaci, da parte nostra o dagli altri.


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© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Negoziazione interculturale. Comunicare oltre le barriere culturali. Dalle relazioni interne sino alle trattative internazionali”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore

La Cooperazione conversazionale

Il risultato della mancanza di una formazione adeguata del negoziatore è il fallimento. 

Come evidenzia Zorzi (1996)[1], la comunicazione richiede cooperazione conversazionale e lavoro sulla negoziazione dei significati:

“Analizzando incontri interculturali  si è visto come l’interazione fra persone di culture diverse sia marcata da una serie di momenti di asincronia, che si manifestano in silenzi, sovrapposizioni, reazioni impreviste, interruzioni, ecc. che mostrano la difficoltà di stabilire e mantenere una cooperazione conversazionale a causa delle differenze nel background culturale e nelle convenzioni di comunicazione. 

I partecipanti, normalmente inconsapevoli sia delle conoscenze socioculturali sia delle convenzioni comunicative che contribuiscono alla loro interpretazione (e, normalmente, inconsapevoli anche delle proprie convenzioni conversazionali), hanno solo la percezione di un incontro fallimentare, le cui cause sono raramente identificate. 

Spiegano quello che è accaduto più spesso in termini psicologici che in termini sociologici o culturali, percependo l’altra persona come non cooperativa, aggressiva, stupida, incompetente o con spiacevoli caratteristiche personali. 

Ripetuti incontri interculturali falliti con diverse persone portano nel tempo, alla formazione di stereotipi culturali negativi (Chick, 1990: 253 e sgg[2]).”

La competenza interculturale consiste nel raggiungere un reciproco adattamento (e non solo l’adeguamento dell’apprendente ai modelli linguistici e culturali del paese ospitante). 

Obiettivo primario della pedagogia interculturale – di conseguenza – è trovare strategie didattiche perché soggetti di origini culturali diverse possano imparare a comunicare fra loro indipendentemente dalle differenze di lingua, comportamenti culturali e credenze. L’attenzione si sposta, quindi, dal lavoro che fa il singolo apprendente al modo con cui due persone di culture diverse riescono a negoziare significati e relazioni tramite un mezzo linguistico in cui hanno competenze molto sbilanciate.

Esiste quindi un common ground linguistico che permette ai negoziatori di uscire dall’impasse della mancanza di un vocabolario condiviso. Cercare di condividere il significato dei termini, di uscire dalla “indeterminatezza semantica”, dalla “confusione semantica”, dalle “penombre connotative” è uno degli strumenti principali del negoziatore interculturale.

Le parole chiave e come eliminare il fraintendimento

Ogni parola molto radicata nel vissuto sociale – poniamo la parola “educare” – porta con sè una enorme varietà di significati possibili: educare come “plasmare”, come “ricondurre il comportamento alle regole”, far diventare il soggetto “come io lo voglio”, educare come “irreggimentare oppure educare come “far emergere il potenziale personale”, e altre. 

Anche la frase “crescita aziendale” porta con se un intero, enorme, spettro di possibili significati. Per un imprenditore può significare “far aumentare il fatturato”, per un altro ancora “avere una organizzazione migliore”, per un altro “essere leader nel proprio settore come capacità di immettere nuovi prodotti sul mercato”.

Ogni parola porta con sè evocati mentali (immagini mentali) del tutto soggettivi.

L’uscita dalla indeterminazione e il confronto sulla semantica è uno degli steps primari di ogni progetto che parte da basi diverse.

La regola pratica richiede di “mettere sul tavolo” della negoziazione le parole più forti e cariche di significato che stanno alla base del negoziato stesso, e chiarirle rispetto ai loro tanti significati possibili.

Nel caso di un progetto di formazione sulla leadership svolto in Cina da formatori italiani, dovremmo chiarire ad esempio il significato dei termini primari “formazione” e “leadership”. Nulla sarà possibile senza questo chiarimento iniziale.

Ogni negoziazione porta con se la necessità di chiarire i termini di base su cui si fonda e confrontare le rispettive “semantiche” (i significati possibili).

La chiarificazione dei concetti e la precisione del linguaggio

Sul piano interculturale, come abbiamo notato, anche concetti relativamente semplici e dati per scontati (es: “casa”, “lavoro”, “amicizia”) subiscono fraintendimenti. È opportuno quindi svolgere attività di fissazione dei confini semantici (fissazione dei significati) che permettano di precisare il linguaggio.

Costruire la base comune linguistica richiede una precisazione a più livelli. Ogni parola chiave, ogni parola o concetto in generale, può essere letto attraverso almeno quattro filtri descrittivi. 

Realizziamo un esempio sulla parola italiana “gondola”. Gli attributi possibili sono: 

  • Percettivi: è lunga e stretta:
  • Funzionali: si usa per trasportare i turisti;
  • Associativi: mi fa pensare a Venezia;
  • Socio-Simbolici: ricorda un’esperienza romantica, per persone di classe;
  • Enciclopedici: è composta di legno, viene usata dall’anno ….., è costruita così….

Lo stesso problema accade sul piano aziendale. Immaginiamo di realizzare una “consulenza di marketing” per conto di un cliente indiano, coreano o cinese. Dovremmo innanzitutto confrontare le due immagini mentali della parola “marketing”, capire a quale delle due diverse concezioni del marketing sta pensando il cliente.

Ad esempio:

Concezione A : marketing come strumento operativo

Analisi:

  • Percettiva: il marketing equivale alla pubblicità e promozione, alla vendita, alla pubblicità
  • Funzionale: si usa per vendere di più
  • Associativa: è uno strumento del capitalismo e del consumismo
  • Socio-Simbolica: è per aziende avanzate, grandi, tecnologiche o molto manageriali
  • Enciclopedica: tratta concetti quali il marketing mix, la customer satisfaction, la promozione.

Concezione B : marketing come strumento strategico

Analisi :

  • Percettiva: il marketing equivale alla ricerca di prodotti nuovi o migliori soddisfare i bisogni umani
  • Funzionale: si usa per progettare meglio i prodotti e i servizi
  • Associativa: è uno strumento di ricerca
  • Socio-Simbolica: richiede rispetto per il cliente e volontà di soddisfarlo, può essere usato da chiunque
  • Enciclopedica: tratta concetti quali il marketing mix, la customer satisfaction, la promozione, ma soprattutto la ricerca di mercato, la creatività, l’orientamento al cliente

Avviare una negoziazione interculturale significa prima di tutto fare chiarezza sulle concezioni semantiche, sui significati latenti delle parole, sulle associazioni mentali, e non darle per scontate.

Tramite le tecniche associative, è possibile inoltre ricercare gli “stereotipi” che le persone possiedono rispetto ai concetti trattati.

Ad esempio, trattare la formazione di un venditore significa prima di tutto fare chiarezza su quale sia l’immagine mentale del nostro interlocutore, capire cosa ci sia dietro alla parola “venditore”.

Ad esempio,

Diversa concezione di due culture di vendita:

  • il venditore : deve parlare molto – deve essere un pò stupido e lavorare sodo, non importa che sia laureato – non deve fare strategia, la strategia la facciamo noi – deve stare in giro tutto il giorno – deve portarci i risultati,

oppure

  • Il venditore : deve ascoltare molto – deve essere intelligente e creativo – deve essere stratega del suo territorio, rispettando le linee guida – deve agire con appuntamenti mirati – dobbiamo metterlo nelle condizioni di dare i risultati migliori.

Senza chiarire questi punti ogni azione rischia di essere basata su concezioni sbagliate e fraintese.

Le aree di applicazione della negoziazione interculturale

La negoziazione interculturale è un fenomeno sempre più pervasivo a causa della globalizzazione e dell’intensificarsi dei rapporti interetnici, interreligiosi, internazionali, di business, culturali o sociali. 

Rimanendo nel campo del business, i casi nei quali la negoziazione interculturale diventa più evidente sono:

  1. Vendita all’estero nelle culture prossime e nelle culture distanti.
  2. Acquistare all’estero o costruire accordi di fornitura (supply management), negoziazione con i fornitori esteri.
  3. Accordi di business per la distribuzione all’estero di beni o servizi
  4. Joint ventures (costruzione di aziende dirette da più partners di nazionalità diversa) per insediamenti produttivi all’estero.
  5. Fusioni tra aziende e acquisizioni di aziende in cui le culture organizzative di provenienza siano sostanzialmente diverse (come avviene nella quasi totalità dei casi, sia a livello intra-nazionale, che a livello di acquisizioni e fusioni internazionali).
  6. Gestire le forze di lavoro nei paesi terzi.
  7. Gestire le forze di lavoro straniere che operano nella propria azienda.
  8. Fare formazione multinazionale, programmi di formazione che riguardano risorse umane operanti in diversi paesi.
  9. Formazione interculturale: diversità culturali tra formatore e partecipanti, o diversità culturali all’interno del gruppo di allievi.
  10. Coordinare gruppi di lavoro internazionali.
  11. La negoziazione diplomatica e gli accordi internazionali.
  12. Il Peacekeeping, il mantenimento della pace, la prevenzione e la risoluzione dei conflitti.
  13. La contrattualistica internazionale, la negoziazione giuridica cross-culturale.

Sul fronte delle comunicazioni mediate, vediamo l’urgenza di un approccio interculturale ogni volta che emergono problemi di:

  1. Campagne di comunicazione informativa in culture distanti.
  2. Comunicazione pubblicitaria diffusa in culture diverse e su mercati internazionali.
  3. Creazione di messaggi persuasivi e promozionali su scala internazionale.
  4. Sviluppo di concept di prodotto di valenza internazionale, destinati a funzionare su mercati globali e diversi tra di loro.
  5. Sviluppo di concept di prodotti finalizzati unicamente ad una area linguistica-culturale, la cui progettazione avvenga in una diversa cultura di partenza.
  6. Costruire strutture distributive e di vendita su paesi diversi.
  7. Creare sistemi di incentivazione e motivazione del personale adeguate alla cultura locale.

Sul fronte sociale, vediamo invece una urgenza delle abilità di negoziazione e comunicazione interculturale quando si affrontano i seguenti problemi:

  • Inserimento scolastico di bambini stranieri.
  • Terapia psicologica interculturale e counseling interculturale.
  • Dinamiche dell’adattamento etnico.
  • Dialogo interreligioso.
  • Progetti di sviluppo internazionale.
  • Campagne di comunicazione sociale (sanità pubblica, prevenzione di malattie, educazione alimentare, droga, e altre) condotte in aree culturalmente diverse.

Oltre venti aree di problematiche forti ed urgenti caratterizzano il campo della comunicazione interculturale. La vastità e gravità dei problemi sottostanti – in questa incompleta lista – evidenzia l’urgenza di un’attenzione elevata verso la dinamica di comunicazione interculturale.

I metodi e gli strumenti per l’efficacia negoziale interculturale

Data la vastità del campo, preferiamo fornire una prima visione delle aree e strumenti di soluzione.

Le tecniche di base utili in ogni contesto interculturale sono:

  • empatia e ascolto attivo: capire in profondità i comportamenti, atteggiamenti, emozioni, i sistemi di pensiero dell’interlocutore;
  • dinamiche di ascolto multi-livello: la capacità di disaggregare le componenti multiple del messaggio, tenere “corta” la distanza comunicativa – e quindi il margine di incomprensione – tra gli interlocutori;
  • ricerca della condivisione valoriale e di risultato, approccio win-win: valutazione delle “impossibilità di non comprendersi” su alcuni temi per costruire un approccio win-win, in cui entrambi gli interlocutori possano trarre beneficio dalla negoziazione. Partire dalla considerazione che per  chiedere molto ci si deve preoccupare di dare molto;
  • approccio grounded, sperimentale e role-playing: testare sul campo, sperimentare e affinare le proprie strategie comunicative prima di metterle in azione in situazioni di non ritorno;
  • consapevolezze macro-culturali: capire i macro-fondamenti della cultura con la quale si interagisce;
  • analisi del contesto: capire le intenzioni e goals dell’interlocutore, il punto di arrivo desiderato, lo scenario nel quali egli si muove e come questo lo condiziona;
  • piattaforme negoziali flessibili e line d’azione adattive: costruire spazi negoziali flessibili nei quali potersi muovere;
  • consapevolezze micro-culturali: capire la dimensione culturale nascosta e poco evidente nelle manifestazioni della cultura del nostro interlocutore;
  • diagnosi e stratificazione del comunicatore: disaggregare le componenti multiple dei messaggi per comprendere quali messaggi sono da attribuire alla cultura di provenienza del nostro interlocutore, quali alla sua personalità individuale, quali al ruolo giocato e quali ad altri fattori di contesto;
  • centratura emozionale e rimozione del rumore di fondo psicologico (Mental Noise): predisporsi a negoziare con spirito di analisi, attenzione, liberi da pregiudizi; sapersi liberare da stress fisici e psicologici, per poter dare la migliore prestazione negoziale possibile.

[1] Zorzi, Daniela (1996). Dalla competenza comunicativa alla competenza comunicativa interculturale. Babylonia 2/1996.  46 -52.

[2] Chick, J.K. (1990). “Reflections on language, interaction and context: micro and macro issues“, in Carbaugh, D. (ed.) Cultural communication and intercultural contact. Hillsdale NJ, Lawrence Erlbaum. 

[3] Blommaert, J. (1991). “How much culture?” in Blommaert, J. & J. Verschueren (eds.) The pragmatics of international and intercultural communication. Amsterdam/Philadelphia, Benjamins

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Le parole chiave di questo articolo Le strategie e le dinamiche della negoziazione interculturale sono :

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  • Cooperazione conversazionale
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  • Filtri descrittivi
  • Fissazione dei significati
  • Fraintendimento
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  • Negoziazione interculturale
  • Percettivo
  • Significati latenti delle parole
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© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Il Valore Totale Percepito

Uno dei passaggi più critici nella preparazione negoziale è comprendere come si forma il possibile valore totale percepito (VTP), sommatoria di vari segmenti di valore (SV).

Il valore percepito, nel metodo ALM, viene considerato come una sommatoria di credenze positive, che si addizionano nella mente dell’acquirente mentre valuta le proposte o condizioni. 

Le caratteristiche distintive dell’offerta sono una combinazione di segmenti di valore che formano il valore complessivo. Ad esempio, un’impresa chimica che negozia una gomma speciale fonoassorbente con un produttore di auto, può creare valore percepito adducendo:

  • il valore dell’unicità: essere i primi a disporre di tale tecnologia;
  • il valore della rapidità: essere tra i pochi a poter consegnare il prodotto in tempo per il lancio dei nuovi modelli di auto sui quali si potrebbe applicare;
  • il valore della ricerca e sviluppo: poter realizzare varianti su richiesta della ditta costruttrice, a seconda delle aree di utilizzo (assorbimento del rumore degli interni, del motore, etc.);
  • il valore dell’affidabilità: dare garanzie di poter consegnare i volumi previsti poiché si è produttori diretti e non semplici distributori del prodotto;
  • … altri valori identificabili da una analisi accurata.

La sommatoria di tali valori potenziali o segmenti di valore (SV) crea il valore percepibile totale. Il valore “percepibile” non verrà però colto nella realtà, se non si crea una comunicazione adeguata. 

Soprattutto, ciascuna caratteristica dell’offerta diventa valore solo ed unicamente se la diagnosi è adeguata. In caso contrario, l’informazione che non tocca la mappa mentale del cliente passa da valore a rumore (noise).

Principio 6 – Valore Totale Percepito (VPT) come sommatoria di Segmenti di Valore (SV)

Il successo della negoziazione dipende:

  • dal valore totale percepito nella controparte rispetto alla nostra identità e alle nostre possibilità di intervento;
  • dalla capacità di costruire, far emergere ed essere consapevoli dei Segmenti di Valore (SV) che compongono la propria offerta;
  • dalla capacità di trasferire i SV all’interlocutore durante la comunicazione;
  • dalla capacità di creare fitting (adattamento, centratura) tra i segmenti di valore offerti e i bisogni della controparte che emergono dalla diagnosi.

Il negoziatore dovrà quindi essere estremamente attento a testare il grado di fitting tra i Segmenti di Valore proposti (ciò che propone) e ciò che nella mente del cliente è realmente importante, centrando le Key Variables (variabili valutative critiche).

Ogni acquirente utilizza variabili critiche (Key Variables) che influenzano il processo decisionale:

il prodotto osservato viene comparato con un’immagine mentale del prodotto ideale, e con altri possibili prodotti. L’azienda consapevole dei processi mentali del cliente sa investire nelle variabili più “pesanti”, quelle che producono effetti e non dà priorità a variabili che il consumatore non utilizza o utilizza poco nelle proprie scelte.

Lo sviluppo di una linea d’azione di successo

Alcuni dei macro-errori della negoziazione:

  • mancata conoscenza dei valori condivisi e analisi delle divergenze valoriali: impostare un rapporto senza una adeguata e reciproca conoscenza delle rispettive missioni e valori condivisi;
  • tenere attivi dei fraintendimenti e non affrontarli subito: non è possibile fare affari solamente con soggetti o aziende delle quali si condividono tutti i valori e la missione. Capita spesso, anzi, di trattare con persone o imprese che non dispongono di una precisa visione. Tuttavia ciò va considerato in quanto fonte di possibili fraintendimenti rispetto agli obiettivi finali del progetto e alle modalità di svolgimento, i quali – senza un esame rapido, possono dare luogo ad aspettative contrastanti e divergenti;
  • dare per scontati i modelli mentali del cliente: pensare che “sicuramente il suo ragionamento è…”, senza testarlo nella realtà;
  • mancata pianificazione di percorsi alternativi: lanciarsi in una Action Line senza avere esplorato le alternative;
  • mancata definizione dei possibili ostacoli di percorso e trappole (Traps);
  • mancata preparazione e test della negoziazione (training sulle Action Lines attuato tramite giochi di ruolo, Role Playing);

Per realizzare una Action Line di successo è necessario:

  • essere consapevoli della propria missione, del proprio valore, della propria distintività;
  • essere consapevoli e comunicare tutti i singoli segmenti di valore che formano il Valore Totale Percepito;
  • definire il punto di partenza e l’obiettivo da raggiungere o punto di arrivo (goal setting negoziale), ciò che vorremmo, i nostri punti di arrivo, chiarire ciò che ci renderebbe orgogliosi come risultato raggiunto;
  • definire diversi percorsi alternativi per raggiungere l’obiettivo o goal (con un minimo suggerito di tre alternative);
  • valutare i pro e contro delle alternative;
  • sperimentare il percorso scelto alla ricerca di Traps e possibili Breakdown;
  • scegliere la linea che massimizza il risultato ricercato (valutando sia il costo economico che organizzativo).

La linea di azione comunicativa

La linea di azione comunicativa si compone di una serie di “mosse relazionali” che ci avvicinano alla meta, verso l’effetto ricercato. 

Ogni comportamento è un messaggio. È messaggio un ritardo nel rispondere o la prontezza nel rispondere, è messaggio una comunicazione aperta o una comunicazione criptica, così come il tono adirato o conciliante, o la cura dell’impaginazione di una lettera o di una email, o la sua trascuratezza.

Le persone e i clienti traggono informazione da tutto.

Per questo, la linea di azione comunicativa deve presidiare ogni fronte dal quale il cliente ricava messaggi e formula la sua immagine e le sue decisioni.

La linea di azione richiede inoltre studio ed analisi. Include soprattutto la ricerca di informazioni sugli interlocutori, sui reali potenziali di business, sui bisogni manifesti e latenti, e sulle leve di valore che maggiormente possono essere efficaci. 

Ogni negoziazione comprende una componente di seduzione e persuasione.

Come osserva un classico della seduzione:

La cortigiana dovrebbe dapprima inviare i massaggiatori, i cantanti e i giocolieri che eventualmente siano al suo servizio o, mancando questi, i Pithamardas ovvero confidenti e altri, a indagare sui sentimenti dell’uomo e sul suo stato d’animo. Per mezzo di tali persone, la cortigiana si accerterà se l’uomo è puro o impuro, se è amabile o meno, capace di attaccamento o indifferente, generoso o gretto;[1]

Ogni negoziazione, al di la della metafora provocatoria, contiene elementi di somiglianza e similarità con un corteggiamento, o con un matrimonio o fidanzamento. Con chi ci stiamo fidanzando? Chi sono le persone con cui stiamo trattando? Che carattere hanno? Che storia hanno? Cosa vogliono realmente? Di cosa hanno bisogno adesso?

Quando sia appurata la qualità potenziale dell’interlocutore, la gestione della comunicazione deve dare dimostrazioni di interesse così come la seduzione crea un rapporto tra due controparti.

Regole stereotipate e linee di azione ragionate

La tentazione di ricorrere a regole preconfezionate, nella negoziazione, è grande.

Sarebbe molto bello poter dire “quando parli con un Cinese, fai…, quando invece sei in America Latina fai x non fare y, e vedrai che il successo è garantito…”

Le regole comportamentali rigide rifiutano di prendere in considerazione la realtà dell’imprinting (matrice) culturale, la varietà di personalità, il lato emotivo dei soggetti e la loro identità multipla: un cinese può avere lavorato per multinazionali americane ed avere maggiore cultura di business anglosassone di un americano del midwest, può essere adirato o felice, può avere avuto esperienze positive o negative in passato con persone della nostra nazione, e questo non lo possiamo né sapere a priori né stereotipare.

Nessuna regola vale per sempre e con tutti.

Le regole stereotipate possono andare bene solo in una società non globalizzata. Oggi i mix culturali producono una multi-stratificazione di culture in ogni individuo che ha contatti con altre culture, per cui non è più possibile dare regole comportamentali certe. Quello che serve è un approccio flessibile, che tenga conto della realtà incontrata e non degli stereotipi, poiché nella negoziazione non esistono regole culturali assolute.

Le realtà che si possono incontrare sono le più diverse, e, come accennato, il grado di varianza intra-culturale non è minore di quello inter-culturale. 

Le poche regole certe devono essere quelle di:

(1) disporre di una “minima condotta efficace trans-culturale, o minimo comune denominatore del comportamento negoziale cross-culturale”, un approccio di qualità conversazionale che possiamo pensare di poter applicare ovunque, es: non interrompere inopportunamente, non offendere la “faccia” e immagine altrui, non esporsi con affermazioni pericolose in campo valoriale e religioso, cercare di capire gli interessi della controparte, e 

(2) conoscere le poche basi culturali generali dell’area geografica o merceologica ove si opera: il background culturale probabilistico che si potrà incontrare, le regole probabili (e sottolineiamo probabili, non certe) che vigono in una certa cultura geografica, etnica o professionale – anche queste da prendere con le pinze.

Occorre cambiare paradigma, passare dalle regolette certe alla flessibilità del comunicatore, occorre un cambiamento di atteggiamento.

Soppesando i pro ed i contro di diverse opzioni di contenuto, è necessario giungere alla definizione di quale messaggio dia la maggiore probabilità di successo.

Probabilità e non certezza. 

Dobbiamo quindi studiare la linea di azione con i minori ritorni negativi latenti, prevedere e anticipare i rischi di effetto boomerang.

Se siamo invitati da un commerciante arabo nella sua casa, spetta a noi capire, inquadrare (attività di framing) se sembra essere una famiglia tradizionalista, ortodossa, integralista, o informale o ancora dove e quanto ha studiato questo commerciante, che potrebbe non avere istruzione formale o avere invece due lauree prese a New York o Sidney. Solo applicando un atteggiamento di apertura ed ascolto possiamo interagire efficacemente.

La produzione di una linea di azione comunicativa non può ricorrere a stereotipi (es: “se sei attaccato, contrattacca”) e non avviene per pura intuizione creativa: essa è frutto di studio, di confronto, consultazione, scambio di pareri tra colleghi e tra colleghi e consulenti. 

Richiede ricerca, esplorazione di opzioni, valutazioni di fattibilità e anticipazione degli effetti. Richiede, in altre parole, l’umiltà del negoziatore professionale, che è sempre proteso a testare le proprie strategie e mosse, pronto con umiltà a confrontarsi con colleghi e consulenti sulla loro possibile efficacia, prima di lanciarsi nell’azione ciecamente seguendo stereotipi. 

Questa umiltà rappresenta il vero fattore distintivo del negoziatore professionale rispetto al “negoziatore rampante” :

  • distingue il prototipo del negoziatore arrogante che pensa di avere sempre ragione e usa stereotipi, da chi si siede ad un tavolo per analizzare e costruire qualcosa;
  • distingue chi si fa forte di leve contrattuali (potere, denaro, legislazioni, politica) da chi ricerca realmente un approccio win-win, di vantaggi reciproci;
  • distingue chi ritiene che il successo sia sempre dovuto e venga in tasca automaticamente, da chi pensa di dover costruire attivamente il proprio successo;
  • distingue chi si scava lentamente la sua fossa, da chi crea qualcosa per gli altri e non solo per se stesso.

Per costruire Action Lines di successo, è quindi necessario il confronto, concretizzato tramite diverse sessioni di brainstorming e di role-playing nelle quali esporre e testare le possibili linee di azione comunicative, per poi scegliere la linea a maggiore probabilità di riuscita.

Struttura delle linee di azione

Ciascuna linea di azione è suddivisibile in Steps, fasi temporali durante le quali si articola il processo di comunicazione. L’insieme dei passi attuati costituisce il percorso della linea di azione (Path). Ogni step prevede diverse comunicazioni, che vanno sottoposte ad esame e prova tramite role-playing (simulazione) o expert review (valutazione da parte di esperti).

Una Action Line Analysis (ALA) si può definire come l’analisi comparativa di una serie di tattiche alternative per il raggiungimento di un obiettivo. 

I fattori strutturali caratterizzanti una ALA sono (a) il numero di linee di azione comparate, e (b) il numero di steps per ciascuna linea.

Per ogni linea devono essere determinate le possibilità di successo, gli errori e trappole (traps), la fattibilità pratica, le ripercussioni sull’immagine di chi la metterà in pratica.

L’importanza della message strategy è la scelta accurata di una linea comunicativa che associ il messaggio a concetti mentali desiderati. Nel costruire una strategia del messaggio, dovremo anche fare attenzione ad associazioni che possano inquinare il marchio e il comunicatore con immagini mentali negative. 

Ogni parola emessa elicita (fa scaturire) costrutti mentali che sono contigui ad essa.

Le scienze cognitive hanno evidenziato che i messaggi non sono recepiti in modo isolato, ma si inseriscono sempre in una mappa mentale del soggetto, una mappa che associa il messaggio a concetti e immagini mentali. 

Per esprimere tale concetto, Shaw e Gaines fanno riferimento al concetto di “Geometria dello Spazio Psicologico”[2] espresso da Kelly (Psicologia dei costrutti personali): ogni messaggio si inserisce in spazi mentali e si associa alle aree contigue.

La message strategy richiede consapevolezza che ogni messaggio aziendale, ogni comportamento comunicativo della linea d’azione, produce immagini evocate, le quali creano un’anticipazione di eventi futuri nei nostri interlocutori (“come sarà lavorare con questa azienda?”) e attribuzioni di significati agli eventi stessi (“perché avranno detto questo?” “se si comportano così ora, cosa faranno dopo?”).

Trappole e problemi della negoziazione

Una delle caratteristiche della negoziazione interculturale è quella di non sapere bene con chi si sta trattando, a meno che non si tratti di noti marchi multinazionali. E anche nel caso di marchi noti, i ruoli possono essere talmente vari da richiedere un approfondimento.

Anche in questo caso, quindi, una dose di attività di analisi rimane fondamentale. Nella negoziazione si aprono numerosi rischi – solo per citarne alcuni – divulgando notizie ad interlocutori non noti, ma anche realizzare gratuitamente lavoro e attività che in altre situazioni andrebbero pagate.

Due riflessioni fondamentali sulla comunicazione.

La prima riguarda come i messaggi che lanciamo o che gli altri lanciano rafforzano o distruggono la sensazione di fiducia. I messaggi e le corrispondenze che noi inviamo o gli altri inviano contengono sempre elementi che possono creare credibilità (segnali di credibilità o credibility cues) così come possibili segnali che mettono in allerta e denotano caduta di credibilità (segnali che producono sfiducia o distrust cues).

La seconda riguarda l’appropriatezza del canale comunicativo. Uno dei suggerimenti più importanti del metodo action line, sul fronte negoziale, è quello di considerare attentamente l’economia della comunicazione, l’appropriatezza dei canali comunicativi rispetto al risultato che vogliamo raggiungere. Si può informare qualcuno con un SMS ma non certo negoziare tramite SMS.

Ogni canale informativo ha un costo comunicativo (alto o basso, in funzione del tempo o risorse necessarie) e una portata informativa (alta o bassa).

La comunicazione interpersonale, faccia a faccia, ha un alto costo relazionale, di tempo, e richiede impegno logistico elevato (bisogna spostarsi, trovarsi fisicamente nello stesso luogo alla stessa ora), ma possiede una enorme portata informativa: possiamo comunicare con tutto il corpo, con il body language, con i canali visivi, non verbali, emotivi, e ogni altro canale umano. Una email, al contrario, è un esempio di canale comunicativo di basso costo (temporale ed economico), ma di ridotta portata informativa reale. È difficile scambiare realmente emozioni o decodificare la controparte, partendo solo da un testo scritto.

Il metodo ALM invita quindi a porsi diverse domande sulla appropriatezza del canale rispetto al task (compito) da svolgere. Le domande chiave:

  • il canale che intendo utilizzare è adeguato al tipo di messaggio?
  • devo inviare solo flussi di informazione o devo anche chiederne?
  • i tipi di dati da trasferire sono solo tecnici (es: informazioni di prodotto, servizi, prezzi) o anche relazionali (comunicare per conoscersi, verifica di affidabilità, incremento della conoscenza reciproca, affiatamento relazionale)?
  • serve un dialogo interattivo o è sufficiente un ping-pong comunicativo?
  • che tempi ho a disposizione?
  • cosa rischio se sbaglio canale informativo?
  • che cosa mi permette di fare il canale che ho scelto?
  • che cosa non mi permette di fare? Quali sono i suoi limiti?

[1] Kamasutra, p. 152, 153. Edizione Mondadori, 1977, Milano.

[2] Shaw, M.L.G, e Gaines, B.R. (1992).”Kelly’s “Geometry of Psychological Space” and its Significance for Cognitive Modeling”. The New Psychologist, Oct. 1992, pp. 23-31.

Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategie di comunicazione e marketing. Un metodo in 12 punti per campagne di comunicazione persuasiva”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Centrare i bisogni psicologici del target

Ci sono persone che comprano un fuoristrada anche se viaggiano solo su strade asfaltate. Ve ne sono altre che comprano grandi berline ma fanno 100 km al mese. Altri ancora esigono di avere il modello più ecologico esistente sul mercato, al di la di ogni altra considerazione, o a costo di sacrifici.

Evidentemente, dobbiamo pensare che la mente razionale non abbia sempre il sopravvento, ma la mente emozionale suggerisca bisogni diversi, che vengono poi coperti da una “coltre” di raziocinio.

Centrare i bisogni profondi, che muovono veramente le persone, è un tema della comunicazione strategica.

Siamo animali evoluti, con bisogni speciali, ma la nostra natura animale non va dimenticata.

La psicologia degli esseri umani è parte della psicologia degli animali in generale. 

Gareth Matthews

I bisogni nascosti, quelli non detti apertamente, quelli che pulsano ma non si vedono, dettano il successo di una campagna di comunicazione strategica.

Lo psicologo svizzero Carl Jung ha individuato alcuni di questi bisogni umani, e questi diventano per noi “temi narrativi”, ovvero, temi “sovraordinati”, strutture superiori al singolo messaggio, ancoraggi a cui ogni messaggio deve connettersi e rispettare.

Jung ha identificato quattro motivazioni fondamentali ed universali in cui le persone si possono identificare: 

  • Il bisogno di sicurezza, che ci spinge a cercare la struttura e la stabilità. 
  • La necessità di auto-realizzazione, che ci spinge a cercare la conoscenza e l’avventura. 
  • La necessità di autostima, che ci spinge a cercare una migliore performance e la padronanza delle cose. 
  • Il bisogno di appartenenza, che ci fa sentire il bisogno di sentirsi attraenti, essere apprezzati, in armonia con gli altri.

In qualsiasi momento della vita, un certo bisogno “pulsa” più di un’altro, lo sentiamo, e riempie di senso la nostra ricerca e le nostre giornate.

 “L’uomo può realizzare delle cose stupefacenti se queste hanno un senso per lui.”

Carl Gustav Jung

Centrare i bisogni di un target e collegarli al nostro messaggio strategico è una scienza.

Quali bisogni di base vogliamo mettere come ancoraggio per la nostra comunicazione strategica? Su quali il target è sensibile e agirà? Che guadagno ne trae il target audience rispetto alla sua area di bisogni?

Collegamento tra bisogni e “archetipi”, le strutture primordiali cui le persone desiderano appartenere

Ognuno di noi dentro di sè ha un’anima che si “agita” per essere qualcosa, per diventare qualcosa, per poter dire “io sono questo”.

Gli archetipi si aggirano nell’ombra e spesso non siamo consapevoli di quali archetipi ci guidano. Pertanto, ogni comunicatore, deve prima di tutto fare i conti con se stesso, con chi veramente è.

“Conoscere la propria oscurità è il metodo migliore per affrontare le tenebre degli altri.”

Carl Gustav Jung

Questo vale ovviamente anche per il conoscere le proprie bellezze, le proprie luci, le proprie aree che splendono e vogliono esprimersi

Se un messaggio, un prodotto, o un marchio (brand) riescono ad avvicinarsi e persino interpretare, diventare protagonisti dell’espressione di questo bisogno, saranno persuasivi oltre ogni limite.

harley

Un vero Harleysta (proprietario di una moto Harley Davidson, frequentatore di raduni e “credente” del marchio) vede nel suo essere alcuni tratti distintivi: potere, esplorazione, essere diversi dai mediocri, un tocco di attrattività, aiutata da tatuaggi e abbigliamento di pelle, e tanta fratellanza. A questo “codice d’onore” si collega semanticamente una grande bevuta di birra (e non poca o birra analcolica), o uno scarico speciale, una gomma posteriore maggiorata, e un messaggio come “vivi la tua strada” o altri inni di libertà fuori dalle regole.

Ma vediamo un altro esempio

I guerrieri Pashtun nel sud dell’Afghanistan hanno un proprio codice d’onore (Pashtunwali). Pashtunwali (in pashto: پښتونوالی), è un codice consuetudinario ed etico non scritto nonché stile di vita tradizionale che segue il popolo Pashtun indigeno.

Comprende il dovere di essere coraggiosi guerrieri e sfidare i più forti di loro. Per cui, se qualcuno dicesse loro, “arrendetevi, siamo più di voi e meglio armati”, farebbe un grande regalo al loro archetipo, che di questi messaggi si nutre. E invece di arrendersi, il Pashtun combatterebbe con ancora più coraggio.

Il Pashtunwali è un codice d’onore, un codice comportamentale non scritto, e comunicare ai Pashtun senza conoscerlo è come offrire una grigliata ad un vegetariano, il messaggio potrebbe persino diventare offesa.

Quindi, la domanda è: quale codice comportamentale attiva il tuo target?

A che archetipo si ispira il tuo target?

Sulla base dei diversi bisogni, si configurano specifici modi di essere, chiamati archetipi.

L’archetipo è un’immagine mentale, una sorta di prototipo universale per i modi di essere, attraverso il quale l’individuo interpreta la realtà, percepisce e crea i propri bisogni.

Nel linguaggio degli archetipi, questi sono i tipi principali:

  • Ruler. Il guidatore, il leader. si nutre di potere e autorità
  • Creator. Il Creatore: si nutre di novità e creatività
  • Innocent. L’innocente: si nutre di purezza, rinnovamento
  • Sage: il saggio. Si nutre di intelletto e curiosità
  • Explorer. L’esploratore. Si nutre di avventura ed esplorazione
  • Magician. Il mago. Si nutre di trasformazioni e sviluppo di sè
  • Rebel. Il ribelle. Si nutre di sfida all’autorità e alle convenzioni
  • Hero. Eroe. Si nutre di coraggio, sfida e determinazione
  • Lover. L’amante si nutre di attrazione e sensualità
  • Jester. Il Folle. Si nutre di divertimento e spontaneità
  • Regular guy/gal: il ragazzo/a per bene, a volte individuato anche come l’Orfano. Si nutre di affidabilità e lealtà
  • Caregiver. L’aiutante si nutre del portare cura, sollievo, aiuto.
archetipi

Gli archetipi rappresentano anche una modalità per inquadrare un target di comunicazione, o la percezione di un marchio. 

Ogni marchio o “brand” si radica in uno o più di questi archetipi dominanti. Ogni marchio oltretutto subisce variazioni di percezione che lo associano all’interno di questa mappa di archetipi.[1]

La comunicazione strategica consiste proprio nell’associare la propria idea, la propria iniziativa, o il proprio marchio, in una zona specifica della mappa degli archetipi

“Il sogno dei vostri clienti è una vita migliore e più felice. Non muovere prodotti, arricchisci le loro vite”. 

“Your customers dream of a happier and better life. Don’t move products. Enrich lives“.

Steve Jobs


[1]

Margaret Mark, Carol Pearson (2001)). The Hero and the Outlaw: Building Extraordinary Brands Through the Power of Archetypes. McGraw Hill

Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

Articolo estratto dal testo “Parliamoci Chiaro: il modello delle quattro distanze per una comunicazione efficace e costruttiva” copyright Gribaudo Editore e Daniele Trevisani, pubblicato con il permesso dell’autore.

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In questo articolo continueremo a parlare della distanza relazionale concentrandoci sui tre conflitti comunicativi (o incomunicabilità) che possono nascere dalla mancanza di codici comunicativi, sfere ideologico-valoriali e referenti condivisi.

Mancanza di codici comunicativi condivisi

Ogni volta che parliamo, emettiamo messaggi, ma non è detto che al destinatario arrivi esattamente il messaggio che noi stavamo pensando. Quando il codice comunicativo è “rotto” o non condiviso, abbiamo una rottura della comunicazione (es: stile comunicativo altoborghese vs. stile comunicativo diretto e offensivo, oppure stile pessimista vs. stile ottimista, ecc…)

Quando due stili invece sono diversi ma hanno alcuni gradi di similarità, la comunicazione si fa più piacevole, e possibile. È l’esempio di uno stile ottimista che incontra uno stile positivo, oppure di uno stile accademico che incontra uno stile scientifico, e tante altre possibilità. 

La completa rottura di codice, o completo breakdown comunicativo, avviene quando si utilizzano due lingue dalle radici molto diverse (per esempio tedesco vs. coreano) in un canale che non permette la visualizzazione del comportamento non verbale, e senza possibilità di traduzione.  

Utilizzare due lingue completamente diverse (o solo in parte diverse) nel parlato aiuta già a far passare qualche messaggio tramite il canale paralinguistico e le espressioni facciali: per cui, anche se non è possibile entrare nei dati della comunicazione in corso, è possibile coglierne i toni. 

I suggerimenti principali sulla D2 sono di cercare di capire i codici della controparte e fare sforzo di adattamento, accettare anche di negoziare i contenuti della conversazione, e per la parte tecnica della trasmissione, fare messaggi brevi, con pause, per favorire l’elaborazione dei messaggi stessi. 

Mancanza di sfere ideologico-valoriali condivise

Dato che non esistono due visioni del mondo assolutamente uguali, dobbiamo concedere alla comunicazione il suo status vero, di ponte tra realtà diverse, di collegamento tra diversità. 

Quando le diversità si fanno troppo ampie, incompatibili, la rottura della comunicazione diventa un fatto concreto. Spesso sono le sfide, quelle vere, come il far crescere figli, incontrare difficoltà economiche o lutti e malattie, a far venire fuori i valori veri e gli atteggiamenti latenti, che non sarebbero mai emersi senza la crisi. In questa condizione, è possibile che il legame si rafforzi ancora di più, o che invece si vada al breakdown o rottura della comunicazione e della relazione. 

Un suggerimento importante per la D3 è quello di comunicare sapendo in partenza che troveremo differenze valoriali, ideologiche, di atteggiamenti e di credenze, e di non pretendere di trovare nostri cloni, ma accettare di comunicare nelle diversità.

Mancanza di referenti comuni

Facciamo il punto. L’incomunicabilità viene descritta nel modello delle Quattro Distanze come uno stato dovuto alla presenza di una o più “distanze” tra i due comunicatori. 

  • D1 – Prima Distanza: differenze nei ruoli e nelle personalità, tali da rendere impossibile l’accettazione del ruolo e quindi da rompere la comunicazione per non accettazione dei ruoli dell’altro o della relazione” 
  • D2 – Seconda Distanza: differenze sul tema della conversazione oppure incomunicabilità di codice, cioè il fatto di non avere un codice comune e condiviso per poter comunicare, che si tratti di una lingua vera e propria, o di uno stile comunicativo almeno in parte comune. 
  • D3 – Terza Distanza: divergenze nei valori, nelle ideologie, nelle credenze personali di portata tale da rendere totalmente incompatibili tra i due comunicatori e da bloccare la comunicazione o provocare il ritiro di una delle due parti non appena emergono. 

Dopo questo riassunto delle prime tre distanze, passiamo alla D4 (Distanza Referenziale). Il tema della D4, e della rottura della comunicazione sulla D4, riguarda l’incomunicabilità delle esperienze, o il fatto di avere avuto esperienze completamente diverse di una situazione, o di non aver mai condiviso un certo referente, sia esso un oggetto, una situazione, o uno stato emotivo.

Ci sono esperienze che sono difficilmente comunicabili, altre che non sono comunicabili per niente. Lo sforzo della comunicazione empatica, infatti, è comprendere esperienze e stati d’animo che noi non abbiamo potuto vivere, capendoli come se fossimo la persona che parla. Per certi temi, invece, esiste una sostanziale incomunicabilità di fondo, soprattutto per le sensazioni fisiche, viscerali e corporee (bodily-felt sense). 

Se non sono mai stato su un taxi colorato a tre ruote, la mia immagine mentale del taxi sarà quella che si è formata in base alla mia esperienza di vita.  E se due persone interagiscono usando lo stesso termine, per due esperienze di vita o oggetti mentali diversi, abbiamo una rottura comunicativa. 

In altre parole, spesso pensiamo di parlare della stessa cosa, ma non lo stiamo facendo. Parlarsi chiaro vuol quindi dire anche spendere qualche parola in più per “metacomunicare”, per “parlare delle parole”, per spiegare i termini e la nostra immagine mentale collegata.

La D4 ci parla anche delle esperienze intraducibili, quelle che puoi condividere solo ed unicamente con chi ha avuto la stessa, o simile, esperienza (es: partorire). Questo vale per tutte le azioni che l’altro con cui comunichiamo non abbia esperito direttamente. 

Un concetto fondamentale per la comunicazione è quello del felt sense, o “sensazione provata”, sviluppato da Carl Rogers. Questo concetto è importante perché ci avvicina alla vera natura della comunicazione. L’incontro e lo scambio comunicativo sono sempre connotati dai tentativi di espressione di qualche tipo di sensazione difficile da esprimere, un incontro comunicativo tra i felt sense. Il “ponte” che la parola e il messaggio cercano di costruire è tra i felt sense delle persone, per cui non c’è da meravigliarsi di quanto sia difficile comunicare alle persone correttamente come stiamo, ascoltare ed essere chiari quando il tema conversazionale riguarda i sentimenti e le emozioni, gli stati d’animo, e non oggetti fisici. 

In altre parole, stiamo attenti a dare per scontato di essere capiti facilmente, e di capire facilmente i concetti altrui. Teniamo sempre attivo l’allarme che ci segnala quanto sia facile e probabile che avvengano incomprensioni e malintesi, e molto probabilmente avremo ragione. 

libro "Parliamoci Chiaro" di Daniele Trevisani

Per approfondimenti vedi:

L’incomunicabilità viene descritta nel “Modello delle 4 Distanze” (4 Distances Model) come uno stato dovuto alla presenza di una o più “distanze” tra i due comunicatori:

D1 – Distanza 1: differenze nei ruoli e personalità, tali da rendere impossibile l’accettazione del ruolo e quindi rompere la comunicazione per “inaccettazione dell’altro”

D2 – Distanza 2: differenze che possono riguardare o il tema della conversazione (A vuole parlare di un tema, B di un altro, e nessuno è disposto ad “andare incontro” all’esigenza altrui), oppure incomunicabilità di codice, non avere un codice comune e condiviso per poter comunicare, che si tratti di una lingua vera e propria, o di uno stile comunicativo almeno in parte comune.

D3 – Divergenze nei valori, nelle ideologie, nelle credenze personali – di portata tale da essere totalmente incompatibili tra i due comunicatori, e bloccare la comunicazione, o provocare il ritiro di una delle due parti, non appena emergono.

Dopo questo riassunto delle prime tre distanze, passiamo alla D4 – Distanza Referenziale o Distanza Esperienziale. Il tema della D4, e della rottura della comunicazione lungo la D4, riguarda l’incomunicabilità delle esperienze, o il fatto di avere fatto esperienze completamente diverse di una situazione, o ancora non avere mai condiviso un certo referente, sia esso un oggetto, una situazione, o uno stato emotivo. La esponiamo prima in modo grafico, per poi entrare nei dettagli.

D4 -Incomunicabilità esperienziale

Ci sono esperienze che sono difficilmente comunicabili, altre che non sono comunicabili per niente. Lo sforzo della comunicazione empatica infatti è quello di comprendere esperienze e stati d’animo che noi non abbiamo potuto vivere, capendole come se fossimo la persona che parla. Compito arduo, ma non impossibile. Per certi temi, invece, esiste una sostanziale incomunicabilità di fondo, soprattutto per le sensazioni fisiche, viscerali, corporee,. Trovare forme per trasmettere il “bodily-felt sense” (sensazione corporea provata) è una competenza ancora veramente embrionale per la razza umana., e lo si fa in modo molto primitivo e spesso poco efficace.

La saggezza non è comunicabile. La scienza si può comunicare, ma la saggezza no. Si può trovarla, viverla, si possono fare miracoli con essa, ma spiegarla e insegnarla non si può.
(Hermann Hesse)

Avete mai visto un taxi in un paese orientale, costituito da un triciclo a motore colorato. Ebbene, si usa la stessa parola “taxi” anche per indicare una lussuosa berlina di rappresentanza che puoi prendere all’uscita dell’aeroporto di Amsterdam o New York.

Se non sono mai stato su un taxi colorato a tre ruote, la mia immagine mentale del taxi sarà quella che si è formata in base alla mia esperienza di vita.

E se due persone interagiscono usando lo stesso termine, per due esperienze di vita o oggetti mentali diversi, abbiamo una rottura comunicativa.

Questo vale per tantissime altre cose. Possiamo garantire che la nostra immagine mentale di cosa sia un matrimonio, formatasi in seguito alla partecipazione ad alcuni matrimoni in Italia, si adatta malissimo a quello che potrebbe essere un matrimonio in Asia, in Africa, in Giappone, o in un paese Arabo. Usiamo sì la stessa parola – “matrimonio” – possiamo anche tradurla in una “lingua di mezzo” come l’inglese con “marriage”, ma l’immagine mentale che vi si associa, sarà assolutamente basata sulle diverse esperienze di ciascuno. In altre parole, spesso pensiamo di parlare della stessa cosa, ma non lo stiamo facendo. Da lì ad accadere malintesi, incomprensioni e disaccordi, passa poco.

Parlarsi chiaro vuol dire anche quindi spendere qualche parola in più per “metacomunicare”, per “parlare sulle parole”, spiegare i termini e la nostra immagine mentale e cosa noi intendiamo per un “matrimonio”, o un piatto di spaghetti. Chi sia stato all’estero e abbia visto, ad esempio, gli spaghetti come vengono fatti e presentati, magari con marmellata e stracotti, ha provato quest’esperienza, e sa che non è bene dare per scontato che tutti abbiano le stesse percezioni e significati rispetto ad un termine linguistico.

La D4 ci parla anche delle esperienze intraducibili, quelle che puoi condividere solo ed unicamente con chi ha avuto la stessa o simile esperienza.

Ad esempio, “fare una derapata controllata” con una moto da cross o da enduro, è un’esperienza che può aver fatto solo chi ha guidato una moto da cross o da enduro di una certa potenza, e con parecchia pratica alle spalle. Questo verbo contiene in sé la sensazione di perdita di controllo della ruota posteriore che viene continuamente riallineata tramite il comando del gas, esperienza interiore e sensoriale, ma anche emotiva, che può essere espressa a voce, ma mai davvero provata come chi l’ha davvero vissuta.

Questo vale per praticamente tutte le azioni che l’altro con cui comunichiamo non abbia esperito direttamente.

Gendlin e Rogers ci parlano del concetto dei “referenti diretti”: sono quegli stati corporei o mentali che l’individuo percepisce ma che non hanno ancora trovato una manifestazione esterna nella parola. In altre parole sono sensazioni provate ma non ancora uscite o comunicate ad alcuno. Sono condizioni “pre-verbali” che vengono comunicate a fatica proprio perché estremamente soggettive.

Perché tale difficoltà a comunicare? Da un lato si tratta di materiale pre-verbale, quindi non di testo scritto da trasmettere, ma di sensazioni interne, che il linguaggio stesso fatica a catturare. Dall’altro lato, come osserva Gendlin, l’uso della parola “referente” esprime un particolare tipo di sensazione ancora non chiara, alla quale il cliente di una sessione di psicoterapia si riferisce[1]. Il fatto stesso di dare voce a questa sensazione è un atto liberatorio e terapeutico.

Un concetto fondamentale per la comunicazione è quello del “Felt Sense” o “sensazione provata”, sviluppato da Carl Rogers. Questo concetto è importante perché ci avvicina alla vera natura della comunicazione: l’incontro e lo scambio comunicativo sono sempre connotati dai tentativi di espressione di qualche tipo di sensazione difficile da esprimere, un incontro comunicativo tra i “felt sense”, e ciè che emerge nella comunicazione è abbastanza lontano dall’avvicinarsi ad una oggettiva. Il “ponte” che la parola e il messaggio cercano di costruire, è tra i “felt sense” delle persone, per cui non c’è da meravigliarsi su quanto sia difficile comunicare alle persone correttamente come stiamo, ascoltare, ed essere chiari quando il tema conversazionale riguarda i sentimenti e le emozioni, gli stati d’animo, e non oggetti fisici.

E anche quando si tratta di cercare di trasmettere informazioni su oggetti fisici, es. un disegno geometrico da far riprodurre ad un compagno di formazione, nella mia esperienza ho notato che la quota di distorsione del messaggio era sempre grandissima, per cui l’oggetto di partenza, es, un insieme di quadrati e rettangoli, disposti su un foglio, diventava un caos nel disegno finale che il ricevente produceva potendosi fidare e affidare solo alla comunicazione altrui.

In altre parole, stiamo attenti a dare per scontato di essere capiti facilmente, e di capire facilmente i concetti altrui. Teniamo sempre aperta la porta che ci segnala quanto sia facile e probabile che avvengano incomprensioni e malintesi, e molto probabilmente avremo ragione.

Definite sempre un termine quando lo introducete per la prima volta. Se non sapete definirlo evitatelo. Se è uno dei termini principali della vostra tesi e non riuscite a definirlo piantate lì tutto. Avete sbagliato tesi (o mestiere).
(Umberto Eco)

[1] Akiko Doi, & Ikemi, Akira (2003). How getting in touch with feelings happens: The process of Referencing. In: Journal of Humanistic Psychology, Vol 43 no. 4, Fall 2003.

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Dr. Daniele Trevisani - Formazione Aziendale, Ricerca, Coaching