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© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Negoziazione interculturale. Comunicare oltre le barriere culturali. Dalle relazioni interne sino alle trattative internazionali”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore

Le barriere linguistiche e culturali

Una delle prime scoperte di chi si avventura al di fuori dei propri contesti culturali, è che le regole comportamentali funzionanti nella propria cultura si dimostrano fragili e poco produttive quando trasposte in un contesto estraneo. 

Vediamo alcuni esempi brevi:

  • Nella tua casa: da un pò vorresti trattare con un tuo familiare un argomento, ma ogni volta che ci provi la persona sfugge. Cosa sta accadendo?
  • Nella tua nazione: un cliente vorrebbe acquistare (un progetto, un prodotto) ma tu sai che l’acquisto è sottodimensionato, il problema che egli vorrebbe risolvere è grande e il budget non è sufficiente per dargli un risultato vero, come riesci a farlo capire?
  • Pechino. Ore 9,30, Hotel Sheraton. La delegazione dell’impresa cliente non è ancora arrivata, l’appuntamento era alle 9,15. Possiamo interpretarlo come una mossa tattica, o un reale ritardo? Volevano ritardare, o è successo qualcosa?
  • Mosca. Proponiamo alla controparte l’esclusiva del nostro prodotto sul territorio Sovietico, il benefit aggiuntivo della formazione del personale di tutta la loro rete vendita, ma la controparte si offende e chiude le trattative. Cosa è successo?
  • Buenos Aires. Le trattative per accedere agli appalti del ministero dell’industria sono interminabili, incomprensibili, oscure. Come comportarci?
  • Gerusalemme. Rappresentanti dei culti ebraico, cattolico e musulmano, ministri e rappresentanti politici si incontrano per negoziare una pace possibile, siete chiamati a condurre il dibattito, come evitare un conflitto?
  • Budapest. La direzione di stabilimento non riesce ad abbattere i difetti di produzione, ogni tentativo di intervenire in profondità è vano. Cosa fare?

In ogni situazione esemplificativa esposta, siamo di fronte alla problematica della negoziazione interculturale.

La capacità negoziale interculturale è nelle mani di chi è più abile nel gestire la comunicazione sul campo, applicando la consapevolezza culturale (power of awareness) in ogni singolo contatto. 

Ma vediamo qualche altra situazione.

  • Bologna, inizi del terzo millennio: un bambino di nove anni non vuole più andare alla scuola di calcio che frequenta già da due anni, preferisce giocare con i propri amici nel campetto, e di scuola di calcio e campionato non vuole più sentire parlare. Perché?
  • Monaco di Baviera: un marito trentenne, libero professionista, litiga con la moglie (stessa età) perché lui vuole fare i figli solo quando avranno una solida base economica, mentre la moglie vuole farli presto. Cosa succede?
  • Casa tua: ti svegli alla mattina e sai di aver fatto un sogno che ti ha colpito ma non riesci a ricordare i particolari. Cosa è successo?
  • Nel tuo ufficio o azienda: con un collega non riesci a capirti da tempo, sembrate parlare due lingue diverse, più ti sforzi e più non vi capite, cominci ad essere veramente stanco della situazione. Cosa sta succedendo in realtà?

In tutti questi casi entra – a vari stadi – la dimensione interculturale. 

Un denominatore comune accomuna tutti questi casi: le barriere linguistiche non sono nulla rispetto alla diversa visione del mondo che le persone portano con se, e alle diversità che esiste tra sè e gli altri, nonostante le apparenze.

Non vogliamo svelare o proporre soluzioni facili o immediate per tutti questi diversi casi (al massimo, possiamo proporre ipotesi), ma vogliamo dare solo un indizio sul caso che sicuramente risulta più strano e difficile da inquadrare come comunicazione interculturale: il ricordo di un sogno. Ebbene, come evidenziano diverse ricerche nel campo, anche il dialogo interno alla stessa persona (dialogo interiore) assume tratti del dialogo interculturale. 

Quando diversi stati di coscienza hanno difficoltà a dialogare tra loro, es: lo stato razionale della veglia contro lo stato inconscio e subconscio del sonno, si produce incomunicabilità interna. Questi stati sono dominati da logiche estremamente diverse, e riescono a trovare momenti di comunanza solo in rare occasioni (come negli stati di confine, di dormiveglia, i momenti nei quali nessuno dei due riesce a dominare l’altro).

Persino a livello interiore, quindi, troviamo sintomi di una condizione di dialogo interculturale.

Le barriere alla comunicabilità e i campi semantici

Abbiamo iniziato ad accennare, nel paragrafo precedente, al problema della diversa concezione del mondo prodotta dalla diversità culturale. 

Ma i problemi non si fermano qui. Nella comunicazione interculturale troviamo infatti una ulteriore barriera, in genere molto più evidente: una lingua diversa, un linguaggio diverso, un codice di comunicazione non comune, dei sottocodici (dialetti, linguaggi professionali) sconosciuti. 

È sufficiente sentir parlare tra di loro due astronomi o due fisici, mentre trattano un loro problema lavorativo, per sentirsi dopo pochi secondi completamente estranei, non riuscire a connettersi mentalmente con quanto essi stiano dicendo.

Anche in questo caso dobbiamo considerare un fenomeno importante: la diversità linguistica può essere evidente (macrodiversità: es., Cinese vs. Arabo), ma anche molto subdola e difficile da riconoscere, creando situazioni di microdiversità linguistica.

Esistono diversi linguaggi professionali all’interno della stessa lingua, e significati diversi applicati alle stesse parole.

Il problema della comunicazione non si limita alla traduzione tra lingue diverse, ma tocca anche il flusso di parole che intercorrono tra padre e figlio, cresciuti in due generazioni diverse, con modelli e linguaggi diversi, o tra dirigenti di diversi settori, i cui problemi e linguaggi divengono mondi separati.

Tradurre significa trasportare significati all’interno di altre lingue, ma anche, e soprattutto, consentire l’accesso ad un sistema di pensiero diverso.

Vediamo il seguente caso:

  • per gli Americani USA, “tomorrow” (domani, in italiano) significa dalla mezzanotte alla mezzanotte;
  • in Messico, “mañana” (sempre “domani” in italiano) significa “nel futuro”, ha senso posticipatorio generale, e non racchiude assolutamente un preciso arco di tempo.

Le due diverse concezioni non sono puramente linguistiche, ma si riferiscono ad una diversa percezione del tempo.

Quando due generazioni o due religioni dialogano tra di loro, il problema dell’interpretariato culturale si pone seriamente. Questo problema emerge anche nel dialogo tra due aziende, indipendentemente dalla lingua utilizzata.

La traduzione è in realtà un fenomeno molto più complesso. Ogni parola, ogni verbo, ha “campi semantici” (campi di significato) specifici e non traducibili esattamente nella lingua altrui. In alcuni casi, non esistono possibilità di traduzione – in molti casi, le parole e verbi non hanno alcuna corrispondenza esatta nelle culture e lingue altrui. 

Vediamo un esempio. Una società italiana si appresta ad avviare una attività produttiva in Cina. È alla ricerca di consulenze in loco per formare i quadri sui temi della leadership orientata alla qualità, l’impegno sui valori aziendali (commitment), la buona comunicazione interna. È alla ricerca quindi di formatori in comunicazione. Ma come farà a descrivere il proprio bisogno, quando la categoria “formatori in comunicazione” non è linguisticamente consolidata nella lingua cinese? E siamo sicuri che – qualora esista un termine similare – l’immagine mentale che in Italia corrisponde al “formatore” sia la stessa nella mente del ricevente cinese? Pensare che le immagini mentali tra due soggetti possano combaciare perfettamente è una pura illusione.

Esistono problemi interculturali anche quando si parla di comunicazione tra sessi. Se solo riflettiamo su quanta diversità esista tra un uomo e una donna latini sul concetto di “avere una relazione”, o “fare l’amore”, e altri concetti simili, possiamo capire che la dimensione interculturale sia presente in ogni istante quotidiano.

Ma torniamo alla nostra dimensione italo-cinese. Di quale forma di comunicazione stiamo parlando? In Cinese esistono almeno due termini (ideogrammi) per descrivere la “comunicazione”, ed almeno tre parole che possono vagamente avvicinarsi al senso del termine “formatore”. Siamo certi di poter tradurre correttamente o che il traduttore lo faccia?

Anche lingue molto simili (italiano e spagnolo) possono dare origine a problemi di traduzione, a volte proprio per la similarità del sound o della parola. 

La parola “imbarazzata” in italiano ha un significato (all’incirca, essere a disagio), mentre in spagnolo la parola “embarazada” significa essere incinta. La stessa similarità nella radice della parola genera problemi nel parlante americano che si rapporta ad un parlante spagnolo dicendo “I am embarrassed” (sono imbarazzato), che può essere decodificato come “sono incinto”.

Il problema interculturale non parte solo dalla distanza chilometrica, ma può prodursi nel raggio di pochi metri. 

Ogni dialetto è pieno di parole che non possono essere tradotte nella lingua ufficiale.

Le distanze psicologiche e comunicative

Sentire la “distanza” tra persone è un fatto comune, quotidiano. Sentirsi lontani anche quando si è vicini fisicamente, cercare un contatto e non trovarlo, non capire le mosse di avvicinamento altrui, i desideri di un rapporto più profondo, o i segnali che gli altri ci lanciano. È un aspetto comune della vita.

Possiamo però, ed è questo il gioco interessante – cercare di ridurre queste distanze, se e quando lo desideriamo interiormente – nel caso delle amicizie e rapporti intimi. 

In questi casi, o quando sia importante in termini di business, è possibile mettere in atto dei dispositivi che ci permettano di cercare l’avvicinamento, ridurre la distanza e allontanare l’incomprensione.

Tra i principali errori della comunicazione vi è quello di illudersi che le persone siano tutto sommato simili in termini di opinioni, linguaggi, atteggiamenti, valori di fondo, visioni del mondo

Questa presunzione porta a considerare la trasmissione di un’idea o concetto che noi consideriamo ovvio e semplice, un fatto quasi “automatico”, mentre nella realtà le cose non stanno così.

Una ulteriore illusione è che la comunicazione interculturale richieda poco sforzo o impegno. Alcuni pensano di risolvere i rapporti con mogli, mariti figli, colleghi, parlando ad un cellulare per pochi minuti. Fossero anche ore, la qualità comunicativa rimarrà comunque inadatta al problema.

La vera negoziazione interculturale richiede tempo, impegno, dedizione, contatti interpersonali e ampio “lavoro di rapporto” che non si conclude con un email o una telefonata.

Se vogliamo essere efficaci sul piano interculturale dobbiamo utilizzare i tempi adeguati e i mezzi di contatto adeguati.

I critical incidents (casi critici, positivi o negativi) sono di estremo aiuto per scoprire alcuni meccanismi di relazione che non funzionano, comportamenti e atteggiamenti che creano difficoltà nei rapporti e nelle negoziazioni, dove non sia stato dedicato il tempo sufficiente a lavorare sul rapporto, a chiarire le diversità, o non siano stati utilizzati i mezzi di contatto più efficaci, da parte nostra o dagli altri.


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Le parole chiave di questo articolo Le barriere comunicative e le distanze psicologiche sono :

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© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Action Lines

Il concetto di Action Line è equiparabile alla “linea di azione”, la tattica, la ricerca della “mossa giusta”, della sequenza di mosse azzeccate, così come nell’analisi delle possibili “mosse sbagliate”.

Come concetto, è applicabile in diverse modalità:

  • fare action line significa preparasi ad un incontro ed esplorare le possibili opzioni comportamentali da applicare, soprattutto tramite role-playing,
  • significa analizzare le possibili reazioni che possono avere gli interlocutori (modello Se-Allora, If- Then),
  • significa demolire le tattiche dell’interlocutore prima ancora che esse avvengano.

Dobbiamo distinguere (1) le action line di preparazione agli incontri, e (2) le action line dell’istante, le singole mosse che accadono durante le interazioni reali.

Come una strategia dell’istante, o tattica comportamentale, la action line richiede sia base teorica che capacità di adattamento rapido. 

La linea di azione esprime il senso tattico delle mosse comportamentali e comunicative che vengono condotte da un attore per avvicinarsi al proprio obiettivo.

Il tema di fondo delle action line è la capacità di essere flessibili e adattare le proprie skills alle variazioni situazionali anche istantanee (strategia dell’istante: cosa faccio ora).

Le scuole di vendita e negoziazione rigide prescrivono generalmente comportamenti standard e formule da apprendere, mentre il metodo delle Action Line focalizza il valore dell’ascolto, delle tecniche conversazionali e della capacità di essere se stessi, “vivi” e non ripetitivi nell’applicarle. 

Nel teatro, soprattutto nel metodo Stanislavskij, troviamo la stessa impostazione:

Una delle cose che colpisce di più studiando Stanislavskij e il suo “metodo” è la coscienza che egli aveva dei pericoli di ogni cristallizzazione, di ogni irrigidimento teorico. Stanislavskij aveva troppa pratica viva del teatro per non accorgersi che è proprio l’irrigidimento, il fermarsi alle “ricette” facilmente riproducibili e immediatamente trasformabili in “luoghi comuni”, a costituire uno dei maggiori pericoli per chi fa pratica teatrale[1].

Marketing e Action Line

Applicare il marketing strategico alla vendita significa soprattutto:

  • capire come adeguare i prodotti ai cambiamenti di mercato, 
  • come trasmettere identità e senso della missione, 
  • quali strategie di segmentazione e posizionamento adottare, 
  • quali strategie pubblicitarie e di direct-marketing, 
  • come costruire la rete di vendita, le politiche distributive
  • quali politiche di prezzo adottare. 

A queste attività vengono dedicate ampie risorse e tempo. 

Tutto questo investimento, tuttavia, può essere distrutto da negoziazioni sbagliate. 

Nelle aziende, la preparazione alla negoziazione risulta ampiamente sottovalutata. Si presta grande attenzione ai budget pubblicitari ma poi si trascurano i micro-comportamenti nei riguardi del cliente, fatti di singole azioni, incontri, telefonate, frasi e corrispondenza. 

La storia del comportamento tenuto dall’azienda nei riguardi del cliente nasce dall’impatto delle micro-comunicazioni e forma quella “Customer Experience” così importante per creare fidelizzazione.

Cerchiamo quindi di dare corpo – nella negoziazione – a tale approccio di attenzione ai dettagli, definendo una terminologia che ci permetta di affrontare tecnicamente l’argomento.

Ciascuna storia individuale del rapporto tra organizzazione e cliente è suddivisibile in Steps, ovvero fasi temporali successive durante le quali si articola il rapporto. L’insieme dei passi attuati costituisce un percorso della linea di azione (Path).

L’insieme degli Steps la cui responsabilità ricade sull’impresa è definibile come linea di azione – Action Line.

Essa ci pone il problema della scelta tra alternative e corsi d’azione diverse,  in quanto è sempre possibile attuare altre tipologie di step, producendo esiti diversi (maggiormente negativi o maggiormente positivi). 

Principio 3 – Definizione ottimale degli steps nelle action line

Il successo della negoziazione dipende:

  • dalla capacità di pensare a quali sequenze di azioni (steps) siano ottimali per rapportarsi al cliente, partendo dalla volontà iniziale sino all’esito finale;
  • dalla capacità di creare percorsi di azione (path) soppesati in termini di probabilità di successo e insuccesso;
  • dalla capacità di valutare quali punti di rottura, trappole o fallimenti siano possibili nella linea di azione seguita.

Dall’analisi delle Action Lines che hanno avuto esito negativo è possibile ricavare preziosi elementi per evitare futuri errori e per correggere le proprie strategie (lessons learned: lezioni apprese).

L’analisi delle Action Lines già accadute permette di rivedere la propria impostazione sul mercato in termini di comportamenti quotidiani. 

Nell’analisi degli eventi negativi (critical incidents negativi) è possibile determinare in quale punto esattamente si sia verificato il Breakdown, o dove sia localizzata la trappola relazionale (Trap).

E’ possibile identificare le eventuali azioni di recupero (Recovery) in caso di fallimento della linea di azione, valutando la loro fattibilità e la loro convenienza.

Lo stesso tipo di analisi è possibile anche sulle Action Lines che hanno avuto esiti positivi (critical incidents positivi). 

In caso di esito negoziale positivo, il metodo ALM prevede il ricorso ad una analisi degli atteggiamenti positivi, piuttosto che alla riproposizione esatta dei comportamenti in altre sedi. 

Dobbiamo qui differenziare tra atteggiamenti positivi e comportamenti positivi. Non è possibile generalizzare sempre i comportamenti di successo al fine di riproporli in altre situazioni, in quanto – in realtà – esistono sfumature diverse in ogni tipo di rapporto tra persone e tra imprese. Gli atteggiamenti positivi invece hanno maggiore possibilità di essere generalizzati.

Principio 4 – Rivisitazione critica delle Action Lines passate, analisi dei critical incidents positivi e negativi e costruzione delle best-practices

Il successo della negoziazione dipende:

  • dalla capacità di riflettere sui casi positivi (critical incidents positivi) e trarre da essi prassi da replicare (best practices), analizzando gli atteggiamenti e steps attuati e i motivi del successo;
  • dalla capacità di riflettere sui casi negativi (critical incidents negativi) e trarre da essi insegnamenti sui possibili errori strategici, modi di approccio, e motivi dell’insuccesso;
  • dalla capacità di trasformare le analisi sul passato in conoscenza operativa per il futuro.

Nel metodo ALM, come già sostenuto, più che regolette semplici è necessario dedicare tempo ed energie alla riflessione sui casi di successo e insuccesso, estrapolandone una teoria basata sulla realtà dei fatti.

La decostruzione e ricostruzione del passato è fondamentale per attivare una crescita personale, poiché spesso il flusso di esperienza (flow of experience) sovrasta l’individuo, porta le persone a vivere istante dopo istante in un turbine lavorativo e non fermarsi ad analizzare quanto accade. 

Le analisi retrospettive di maggiore efficacia richiedono la presenza di un counselor o coach e devono comunque essere svolte, almeno, con un confronto tra colleghi preparati a farlo, per poter confrontare opinioni e posizioni e non realizzare analisi da un unico punto di vista.

La sola voce interiore non basta, per crescere è indispensabile il confronto.

Una distinzione necessaria nelle Action Lines è quella tra linea di azione (LDA) acquisitiva, che opera sul cliente potenziale già identificato (prospect) e LDA fidelizzativa sul cliente già acquisito.

La LDA sul prospect si pone il problema di come giungere alla acquisizione del cliente attraverso passi di contatto iniziale, contatti pre-negoziali e contatti negoziali, sino alla conclusione o chiusura.

La LDA sul cliente già acquisito riguarda invece il problema della Retention, ovvero della fidelizzazione del cliente, riducendo il rischio di perdita del cliente da attacchi della concorrenza e errori interni.

Dall’approccio negoziale classico all’approccio negoziale ALM

L’approccio negoziale classico vede in genere un elevato grado di strutturazione. All’interno di questo approccio, molti suggerimenti risultano certamente utili, ma non è possibile – nel metodo ALM – utilizzare strutture negoziali rigide. 

Tra gli approcci classici citiamo ad esempio Al Najjari e D’Ambros (2004), i quali invitano i negoziatori internazionali a considerare la negoziazione come un processo diviso in fasi :

  • La fase pre-negoziale : le parti si preparano all’incontro.
  • La fase di costruzione delle relazioni : questa fase varia grandemente a seconda dell’appartenenza culturale di ciascun incaricato alle trattative.
  • La fase di scambio delle informazioni : le parti decidono quali sono le informazioni da mettere sul tavolo del negoziato, e quali invece sono quelle da tenere nascoste, magari per essere utilizzate come merce di scambio in un momento successivo.[2].
  • La fase di trattativa vera e propria : in questa fase lo stile negoziale di ciascuno emerge prepotentemente. Possiamo avere di fronte due tipi di interlocutori: la persona aggressiva, che cercherà in ogni modo di forzare la controparte a modificare le proprie posizioni, ed il soggetto accomodante, il quale tenterà di individuare uno o più punti di interesse comune per utilizzarli come base per una trattativa.[3].
  • La fase delle reciproche concessioni : questa è la fase in cui le parti devono, reciprocamente, scambiarsi concessioni e smussare gli inevitabili spigoli esistenti tra le contrapposte loro esigenze.

In questo modello classico di negoziazione notiamo una struttura preconfezionata, non necessariamente da gettare, e ricca anche di spunti interessanti. 

Ciò che preme sottolineare – come punto di divergenza – è che nell’approccio ALM le linee di azione strategica possono essere variate e non necessariamente passeremo alla fase delle reciproche concessioni, anzi, questa fase potrebbe trasformarsi in una fase di cross-selling o di aumento del prezzo, e non di discesa del prezzo. 

Ogni negoziazione, nel metodo ALM, richiede un approccio unico.

Gli approcci negoziali classici evidenziano una esigenza di standardizzazione, come emerge chiaramente dalla visione di Najjari e D’Ambros (2004):

È stato dimostrato che una strategia pianificata aumenta decisamene le possibilità di successo, specialmente nei casi di negoziazione cooperativa: recarsi ad un incontro avendo come unica strategia la logica del «caso per caso» non è un comportamento efficace. In particolare, nel momento in cui si determinano gli obiettivi strategici della trattativa, è necessario aver ben chiaro qual è la bottom line dell’azienda rispetto alla trattativa stessa, ossia quali sono le condizioni al di sotto delle quali è più conveniente non concludere alcun accordo.”

Nel metodo ALM, al contrario, si esprime una esigenza di destrutturazione e di diversificazione (pur rispettando alcuni principi base o bottom-line): la negoziazione viene vista come una relazione sempre unica, da condurre caso per caso.

Non è possibile standardizzare nulla che non si conosca, l’unico elemento standardizzabile è la pratica la volontà di essere consulenziale.

Questo richiede la ricerca di una linea tattica originale, spesso irripetibile, non irregimentabile, così come uniche, irripetibili e non standardizzabili sono le situazioni contingenti, le culture aziendali dei clienti e i casi di negoziazione della vita reale.

Il metodo ALM invita i negoziatori ad identificare Action Lines prototipiche (prototipi o modelli negoziali) di probabile efficacia in una certa cultura (americana, latina, cinese, etc), o in una certa azienda, senza mai assumere la certezza che quella linea funzionerà, e senza mai dare per certo che la reazione dell’interlocutore sarà esattamente quella prevista

La varianza intra-culturale è oggi almeno pari a quella inter-culturale, così possiamo trovare un cinese più orientato al business di un americano, uno svedese più “caldo” dei latini, nulla è da dare per scontato.

Il metodo ALM richiede ampie dosi di studio e di leadership conversazionale. Possiamo cercare – e riuscire nella pratica – a spostare il tono della negoziazione da uno stile rigido e anaffettivo, ad uno stile più intriso di emozioni. Il negoziatore assertivo ha il potere di fare questo se conosce le giuste tecniche di leadership conversazionale.

Il vero problema che il negoziatore deve tenere a mente è il concetto di Value Mix o consapevolezza del valore che egli è in grado di trasferire.

Il Value Mix e la sequenza ALM per il negoziatore aziendale

Qualsiasi negoziatore aziendale efficace deve essere consapevole della propria mission, del valore che egli può apportare alla controparte e dei motivi unici per cui la controparte può aver bisogno esattamente di lui o lei e non di altri.

La consapevolezza del negoziatore deve riguardare tutti i tre punti principali che precedono la negoziazione (Scenari, Mission, Marketing Mix e Value Mix). 

I punti a valle della sequenza (Action Line e Front Line) comprendono l’atto del prepararsi a negoziare (Action Line) e del negoziare reale (Front-Line).

Sequenza base del metodo ALM

  1. Scenari
  2. Mission
  3. Mktg MixValue Mix
  4. Action Line
  5. Front Line

Ripetiamo le consapevolezze primarie del negoziatore rispetto ai 5 punti critici:

  • Consapevolezze di scenario: quali scenari vive la propria azienda, ad esempio, cosa accade nella distribuzione, nella ricerca, nella concorrenza, cosa accade a livello legale, tecnologico, e ad ogni altro livello che sia in grado di modificare l’ambiente in cui l’azienda opera. Sapere in quali scenari ci si muove è indispensabile per essere consapevoli della mission, in quanto la mission aziendale (come risposta ad un bisogno di mercato) si inserisce sempre in una dinamica innescata da scenari di bisogno sul mercato stesso.
  • Consapevolezza della mission e dei confini della mission: sapere quale mission ha, realmente, l’azienda per cui si opera, cosa si fa e perché, cosa non si fa e per quali motivi. Per mission si intende nel metodo ALM il senso di esistere dell’azienda, i tipi di relazione d’aiuto che l’azienda può attivare e per chi, i bisogni che può risolvere, e la sua differenzialità, distintività o unicità rispetto alle altre aziende che aspirano anch’esse a servire quei mercati.
  • Consapevolezza del valore erogabile: come l’azienda concretizza la mission in valore reale attraverso un marketing mix reale, fatto di prodotti/servizi concreti, di prezzi e listini prezzi, di condizioni di fornitura e distribuzione, di strategie promozionali e di informazione. Tutte le leve del marketing mix, nel metodo ALM, devono essere viste come apportatrici di valore. Non si parla più quindi semplicemente di marketing mix ma di value mix come patrimonio del negoziatore.

Il negoziatore deve essere consapevole di tutte le argomentazioni che può usare (consapevolezza della to-say-list) collegate agli scenari, alla mission e al value mix, e del momento in cui usarle. 

Allo stesso tempo, la consapevolezza deve riguardare la not-to-say list, l’elenco delle frasi o affermazioni che possono uccidere il valore percepito da parte della controparte.

Principio 5 – Consapevolezza della sequenza ALM e degli argomentari negoziali

Il successo della negoziazione dipende:

  • dalla consapevolezza degli scenari in cui opera l’azienda e di quelli in cui opera la controparte negoziale;
  • dalla consapevolezza dei fattori di “collimazione” tra catene del valore, che possono portare le due mission aziendali a cooperare ed interagire;
  • dalla capacità di gestire il posizionamento percettivo in termini di unicità, distintività e differenzialità rispetto agli altri soggetti in grado di servire il cliente;
  • dalla capacità di tradurre lo stato di unicità o distintività in specifiche to-say-list e not-to-say list, argomentabili e realmente difendibili.

[1] Failla, 2005.

[2]Al Najjari, Najdat e D’Ambros, Denise (2004), Tecniche e tattiche nella negoziazione internazionale: come impostare una strategia vincente. In: PMI n. 9/2004..

[3] Ibidem.

Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

© Articolo estratto con il permesso dell’autore, Dott. Daniele Trevisani dal libro “Ascolto Attivo ed Empatia. I segreti di una comunicazione efficace. Milano, Franco Angeli

Analisi del quadrante futuro

E’ inevitabile che la percezione del futuro abbia intrecci con il passato della persona o dell’azienda, la sua storia, i critical incidents (avvenimenti critici) positivi e negativi che l’hanno caratterizzata.

Gli avvenimenti critici sono definiti sia positivamente (incidents positivi) che negativamente (incidents negativi).

Un esempio di incident positivo può essere, a livello personale, il ricordo di un momento di felicità in famiglia, o un successo di vendita.

Un incident negativo, invece, l’essere stato incapace di gestire l’aggressività di qualcuno senza far valere le proprie ragioni, oppure al contrario avere usato aggressività eccessiva quando non doveva essere fatto, rovinando un rapporto, o ancora una conversazione spiacevole con un cliente con il quale ci si è trovati in situazione di incomunicabilità.

Così come la persona ha i propri incidents che ne costellano il passato, anche le aziende hanno un proprio vissuto carico di eventi. Anzi, è decisamente normale che in un’azienda siano accaduti avvenimenti sia positivi che negativi. Nessuna azienda di successo sarebbe tale se non si avventurasse in sfide difficili. Il vero problema consiste nel farlo con le armi giuste e la conoscenza del percorso e degli ostacoli possibili.

In termini di diagnosi e terapia, il successo dell’analisi psicologica svolta tramite il T-Chart aziendale si correla al grado di apertura del cliente, alla sua volontà di collaborare all’analisi. Se si riesce ad ottenere collaborazione, se vi sono i requisiti indispensabili, l’analisi del passato, l’emersione degli incidents positivi e negativi aiuta il professionista dell’ascolto a capire quali comportamenti del cliente hanno determinato il successo e l’insuccesso.

L’oggetto dell’analisi non è unicamente un rivivere avvenimenti, ma la ricerca degli atteggiamenti e comportamenti, delle strategie e delle linee di azione, che le persone o le aziende hanno messo in campo per superare gli ostacoli.

Analizzando unicamente la porzione che riguarda il futuro, la distribuzione temporale ottimale deve sviluppare – in generale – un andamento cuneiforme, dove alcuni cardini della Vision  sono chiaramente identificati, e ad essi sono saldamente collegati i progetti operativi.

“Dare corpo agli spazi psicologici” è il senso ultimo di sviluppo del quadrante futuro.

Esempio per una persona: Nella parte iniziale (alla sinistra) si collocano progetti di breve termine, operazioni pratiche e quotidiane (es: smettere di mangiare zuccheri e fare un allenamento al giorno ogni giorno). Nella parte centrale, più ristretta, si collocano alcune linee di sviluppo strategico, piani di sviluppo di medio termine (es: perdere peso e sviluppare massa muscolare”). Nella parte finale (a destra) si collocano gli eventi cardinali della visione es: “sentirsi meglio, più giovane, più agile, senza acciacchi”.

Esempio per un’azienda: Nella parte iniziale (alla sinistra) si collocano progetti di breve termine, operazioni pratiche e quotidiane (es: contattare cinque clienti importanti per ciascuna provincia). Nella parte centrale, più ristretta, si collocano alcune linee di sviluppo strategico, piani di sviluppo di medio termine (es: dare corpo ad un business plan denominato “progetto Clienti Direzionali Italia Nordest”). Nella parte finale (a destra) si collocano gli eventi cardinali della visione aziendale es: “sviluppare l’immagine aziendale dell’impresa come prima azienda del settore entro il prossimo decennio nel mercato italiano nel Nordest”.

I piani di sviluppo sono interconnessi alla costruzione di una visione, all’emersione e definizione del posizionamento ideale (cosa vogliamo essere), e richiedono la progettazione di una strategia efficace.

I progetti applicativi prendono forma tramite piani di sviluppo (plans), specifiche serie di attività organizzate attorno ad un tema, che traducono la visione in progetto.

Le azioni applicative (cosa fare domani) sono una derivazione dei piani di sviluppo, e la correlazione tra i due momenti deve essere molto forte.

Una visione vuota, priva di elementi cui aspirare, svuotata di speranze e sogni, non produce alcuna motivazione.

Domani cosa faccio? Boh? (certo, se non ho ancorato il domani a qualche obiettivo, la risposta sara difficile!)

La costruzione della prospettiva temporale richiede quindi il passaggio dal vuoto al pieno, sino a insediare negli spazi mentali gli eventi aspirazionali significativi che riempiono il campo psicologico in densità ed estensione.

Le domande in questo contesto, servono, e soprattutto le domande potenti, quelle che vanno al punto, come “come ti vuoi vedere tra 10 anni”, oppure “immagina di giocare a calcio con tuo figlio tra dieci anni, se non fai attività fisica mai da qui ad allora, come vedi che andrà a finire”?

Domanda: inquadriamo un momento intermedio? Come vorresti vederti tra 5 anni?

Se non mi voglio vedere tra 10 anni grasso e incapace di correre, sarò più disponibile a fare un piano, in cui fra 5 anni mi vedo più agile e in forma, piano che comprende azioni quotidiane specifiche. Es. Bene, cosa si può fare di concreto domani, anzi oggi stesso? Riusciamo a trovare il nome di 3 palestre vicine a casa?  o vicine al lavoro?

È già un passo avanti significativo.

L’ascolto è un “attivatore”. In particolare, attiva ragionamenti e riflessioni su chi siamo (nel coaching e nel counseling) e chi vorremmo essere.

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Copyright. Articolo estratto dal libro “Direzione Vendite e Leadership. Coordinare e formare i propri venditori per creare un team efficace” di Daniele Trevisani, Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Coordinare l’attività del venditore e del Team

Coordinare l’attività del venditore significa:

  • sul piano dei tempi, inquadrare cosa fare e quando, adottando uno stile di direzione orientato alle azioni;
  • agire sul piano della struttura di personalità e manageriale del venditore: come sei, e come lavori – stile di direzione orientato alla persona.

Ogni persona è un universo a sé stante e quindi lo stile di leadership deve essere “situazionale”, cioè un approccio generale valido per tutti più un intervento mirato su ciascuno dei membri del team, a seconda delle proprie caratteristiche.

Coordinare significa capire il motivo di essere di ciascuno, isolare la sua specifica missione all’interno della matrice territori/servizi, e mantenere una visione dall’alto sulle operazioni complessive.

Coordinare un gruppo di diversi venditori significa averne assolutamente chiara la mission individuale, il contributo distintivo che deve essere apportato, e soprattutto i confini di ruolo e i limiti operativi (geografici, merceologici) di ciascun venditore.

Il metodo HPM per inquadrare lo stato delle energie del venditore e del team

Nel metodo HPM sviluppato da Studio Trevisani, è stata posta attenzione scientifica e di ricerca sul concetto di Performance (prestazione) e di Wellness (benessere) applicati a chiunque opera professionalmente, nel lavoro o nello sport, nella vendita e nella leadership.

Porsi il problema della performance seriamente significa chiedersi quali sono le condizioni che la permettono, i fattori che la rendono possibile. Per ottenere performance di vendita è necessario che la struttura organizzativa sia ben funzionante e che il “sistema-uomo” (il venditore in questo caso) sia carico di energia, di competenze e di volontà di raggiungere risultati, e di obiettivi ben inquadrati e profilati.

Il metodo HPM “Human Performance Modeling” si prefigge di evidenziare i fattori principali che permettono al sistema-uomo di fornire prestazioni.

Le sei aree di lavoro del Metodo HPM

Approfondiamo le sei specifiche aree di lavoro di un percorso di crescita personale nel metodo HPM, come esposte le testo “Il Potenziale Umano” e in “Personal Energy”.

  1. Energie fisiche (stato bioenergetico): le energie corporee sono il substrato fondamentale per mettere in atto qualsiasi azione o volontà, anche intellettuale e di vendita. Persino il pensiero e le attività mentali sono processi che utilizzano energie biologiche; la nostra vita e persino il nostro pensiero dipendono dalla qualità del sangue, dall’ossigeno, dai nutrienti, dal respiro – tutti fattori che incidono sulla lucidità e sul benessere anche mentale. Pensare, progettare, ideare, comunicare, negoziare, richiede energie e biologia attiva, ben funzionante.
  2. Energie mentali (stato psicoenergetico): se il “poter fare” dipende in larga misura dal livello di energie fisiche, il “voler fare” richiede accesso alle energie mentali. Un venditore senza motivazione non vende nemmeno a chi vuole comprare. È indispensabile quindi esaminare il fronte psicologico della prestazione e del benessere individuale. Quali sono i fattori che generano motivazione e demotivazione? Quali interventi concreti sono possibili? Se riusciamo ad isolare variabili in grado di generare o ridurre le energie mentali avremo aperto una via determinante per capire meglio come funziona l’uomo e cosa si rompe nel funzionamento della persona e delle organizzazioni quando essi non riescono a raggiungere i propri obiettivi.
  3. Micro-competenze: le energie diventano utili e concrete quando le sappiamo tradurre in azione, e questo richiede competenze a livello micro. Ad esempio, durante una trattativa di vendita, sapere in quale esatta frazione di secondo fermare chi parla per saper introdurre delicatamente il tema di conversazione che ci interessa trattare, è un insieme di micro-competenze, inclusa la tecnica del “Repair” o mossa di riparazione (es: mi permetto di suggerire, se consente, di trattare questo tema ora, per poi tornare su X…). Senza queste micro-mosse della conversazione, il cliente si sentirebbe solo interrotto e maltrattato. Ogni azione è preceduta dal pensiero di fare quell’azione, quindi se con il Training Mentale riusciamo a cogliere il pensiero che precede l’zione, e valutare se sia opportuno, siamo ad uno stato di micro-competenze molto elevato e sottile. Si tratta di una vera e propri “caccia” ai dettagli lavorabili ed allenabili, alle cose che altrimenti sfuggono. Nuove competenze, nuove sfide.
  4. Macro-competenze: i dettagli di un singolo atto sono importanti, ma lo è anche possedere un buon ventaglio di conoscenze, una conoscenza chiamata “enciclopedica”, nel senso di “non limitata” ad uno spazio troppo stretto e angusto, solo iperspecialistico. Se vendi auto, è molto, ma molto bene, che ti intendi anche di gomme, e di energie rinnovabili, e di altre forme di propulsione come l’elettrico, l’ibrido. Devi saper interagire con il cliente non solo sul prezzo. Per capire le “connessioni tra le cose” occorre conoscere più campi del sapere, e metterli in relazione.  Se ci liberiamo dal male della presunzione, tutti noi possiamo diventare consapevoli di non sapere. Spesso gli incidenti personali di vita (critical incidents), le fasi di malessere, i test di realtà, le cadute, ci segnalano che qualcosa non va. Sia in questi casi, che nella vita quotidiana, chiediamoci cosa è bene imparare. Rimaniamo aperti. Howell[1], nell’introdurre il concetto di unknown incompetence (ciò che non sappiamo di non sapere) ha fatto un regalo ad ogni essere umano, stimolandolo ad andare a cercare i suoi punti ciechi nascosti. L’analisi del livello macro ci porta inoltre a ragionare sul tema dell’entropia delle competenze, il degrado progressivo che subisce la nostra preparazione per via dell’ambiente che cambia ed evolve, e come fronteggiarlo.
  5. Progettualità e concretizzazione: stupende idee che non trovino mai soddisfazione e applicazione, distruggono anziché costruire. Niente è più deleterio del rimanere costantemente in uno stato di tensione latente, di pulsione bloccata, un tendere a…sempre incompiuto, ogni idea forte o desiderio di attivazione incompiuto produce danni, una vita castrata, un adagiarsi nella sofferenza senza che mai si provi un avvicinamento all’oggetto o condizione desiderata, ad uno stato superiore. Concludere una trattativa in modo positivo, chiudere una vendita, fa bene allo spirito. Giorno dopo giorno soffoca chi non tenta di vivere una vita a pieno e lascia le cose sempre a metà. Occorre quindi trovare sfogo applicativo, liberazione progettuale, determinazione, sviluppare le tecniche per canalizzare le energie in goal concreti. Nessuno può pretendere che ogni sogno si concretizzi, ma nemmeno accettiamo la castrazione di ogni nostro sogno. Nessuno pretende record mondiali o progetti forzatamente fantastici, ma piccoli passi si, ricerca di significati si, ricerca di scopi praticabili si. Ogni micro-goal raggiunto ci fa pensare di poterne raggiungere un altro ancora e rinforza la nostra autostima. Ogni piccolo passo conta.
  6. Visione e ideali: il quadro dei valori in cui crediamo, il futuro che vogliamo costruire, una causa alla quale vogliamo contribuire, ciò che riteniamo sia degno, qualcosa per cui lottare.

L’aspetto della visione, dei valori e degli ideali è senza dubbio il più distante da un mondo massificato e materialistico. Il solo pensiero di aiutare e lasciare una piccola traccia verso un mondo migliore nobilita la nostra vita e la riempie di significati.

Vogliamo fare alcune riflessioni che estendono questo ragionamento alla formazione aziendale, coaching e percorsi di sviluppo:

  1. Energie e competenze sono importanti, ma senza passione, senza il motore di una causa nobile, tutto è inutile. 
  2. “A cosa serve il mio sforzo?”… è una domanda che deve trovare risposte.
  3. Tante persone sono come auto pronte al via, ma con il parabrezza talmente sporco da non consentire di vedere “verso dove”, andiamo. Auto senza un guidatore, viandanti senza una meta e senza un perché.
  4. Occorre stimolare e riscoprire gli ancoraggi profondi ai valori, e ad una causa, la sacralità di una missione, persino la sacralità dell’esistenza.
  5. Le performance, le nostre giornate, le nostre ore, sono piene di atti vuoti o sono ancorati ad un disegno superiore? Esiste una “spiritualità” delle performance o del fare, un “fuoco sacro” che alimenta energie e motivazione?
  6. Diamo un senso a quello che facciamo? Ci proviamo? Possiamo cogliere un motivo denso di significato?
  7. Credere in quello che si fa è determinante per l’auto-immagine. Se ci sentiamo inutili venditori di fumo non andremo mai da nessuna parte. Se troviamo invece il modo di essere di aiuto a qualcuno, di dare senso, o di lottare per qualcosa, diventiamo pieni di forze.
  8. Ancorare l’azione a ideali significa riconoscere il bisogno di esistere per un fine. Le performance sono destinate a svanire nell’istante, mentre invece una causa è eterna.
  9. Vi sono persone e atleti che sperimentano il contatto con una realtà superiore ogni volta che entrano nelle quattro mura di una palestra o di un Dojo, e sanno che il loro allenamento sarà una forma di preghiera e di contatto con il proprio Dio, o anche solo con le forze primordiali della natura. Lo stesso può accadere nell’impegnarsi in un progetto aziendale o personale, e in una vendita.

La visione di una causa per cui lottare o di un senso in quanto facciamo è un motore potente. Quando questo collegamento denso di valori, mistico o sacro, accade, le energie si sprigionano, i miracoli sono dietro l’angolo.

I fattori da cui dipende la performance personale e lo stato del venditore

Il metodo HPM sostiene che le performance sono ampiamente correlate ai seguenti punti:

  • alle energie fisiche (stato di carica organismico);
  • alle energie mentali (stato di carica motivazionale, forza di volontà);
  • alle macro-competenze insite nel ruolo (i saperi, i saper essere, e i saper fare che certo ruolo richiede);
  • alle micro-competenze: i dettagli e le micro-attenzioni correlate alle macro-competenze (es: sapere bene come aprire una riunione di vendita o negoziazione, come gestirne i contenuti, e come chiuderla);
  • alla fissazione di goal intesi come proposizioni di risultato quantificabili ed oggettivabili;
  • alla visione, intesa come motore ispirativo dell’orizzonte futuro cui si guarda (o al passato da cui si sfugge), alla means-end-chain (catena mezzi-fini) che costituisce la visione personale (il “perché” facciamo le cose).

I fattori da cui dipende la performance del team e lo stato del team

Ogni team si può considerare come la sommatoria ed interazione tra più sistemi di energie personali (sistemi piramidali HPM,) che interagiscono tra di loro. Ogni team ha due grandissimi nemici:

  1. le incomprensioni tra membri del team e
  2. il calo di energie di uno o più membri del team.

Il metodo HPM richiede di porre attenzione, da parte della direzione vendite, ai seguenti punti:

  • lo stato di ciascun soggetto per quanto riguarda le 6 aree identificate;
  • i rapporti di interazione tra soggetti, a livello orizzontale (rapporti tra colleghi interni al team);
  • i rapporti di comunicazione e la qualità comunicativa dal leader verso ogni singolo membro del team;
  • i rapporti di comunicazione e la qualità comunicativa posta in essere dai membri del team verso il leader (comunicazione bottom-up, flussi di ascolto dal cliente verso la direzione vendite, mediata dal venditore);
  • le comunicazioni interne al gruppo;
  • i rischi di disallineamenti nei goal tra membri del team e leader: è pericoloso avere idee diverse su ciò che sia un goal o cosa si debba fare – in pratica – sul campo;
  • i rischi di disallineamenti nella visione e nella prospettiva temporale – ad esempio gli orientamenti a lungo periodo nella costruzione di un parco clienti di qualità vs gli orientamenti di breve termine verso il raggiungimento di un budget di vendita anche con clienti di bassa qualità e progetti a basso valore;
  • i disallineamenti comunicativi: comprendersi male, fraintendimenti (misunderstanding), disaccordi (disagreement);
  • cali energetici che coinvolgono un membro del team, che se non compresi e compensati, si ripercuotono a cascata sia sul leader che sul gruppo;
  • i cali energetici del leader, che si ripercuotono su tutto il gruppo.


[1] Howell, William S. (1982). The empathic communicator. University of Minnesota: Wadsworth Publishing Company.

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©  Tratto dal libro “Il Coraggio delle Emozioni” di Daniele Trevisani

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Incominciai anche a capire che i dolori, le delusioni

e la malinconia non sono fatti per renderci scontenti

e toglierci valore e dignità, ma per maturarci.

(Hermann Hesse, Peter Camenzind)

 

I critical incidents, o casi critici, sono episodi degni di esame, i punti della vita nei quali abbiamo incontrato il dolore, un corso di eventi non previsto, non voluto, che ci ha lasciato spiazzati, o trovato impreparati: una perdita mentre pensavamo di vincere, un litigio, un’incomprensione, un conflitto, un evento negativo o anche un evento positivo inatteso, uno stato dell’umore disgraziato.

In altri casi i critical incidents come incidenti o eventi clamorosi non si manifestano, lasciando posto ad un’emozione sorda che si associa ad un periodo della vita o ad alcune giornate in cui sentiamo solo un umore disturbato ma non perché.

I critical incidents possono essere eventi drammatici o invece di piccola portata, ma comunque significativi, come lo svegliarsi male e non capire cosa lo provoca. O un incubo notturno che ci ha tediato e che non riusciamo a spiegarci.

Non chiederti che esatti comportamenti hai sbagliato, ma che linea di azione hai tenuto! Quali atteggiamenti sono nati? Perchè quelli e non altri?

Può trattarsi di un accadimento che ci ha riguardato e non riusciamo ad interpretare, non riusciamo a capire cosa sia successo. Possono essere casi di vita come la perdita di un lavoro, o una trattativa andata male, una gara persa, un litigio, una relazione che non va, o anche solo la difficoltà a raggiungere i propri obiettivi quotidiani.

Può anche trattarsi di una malattia fisica o sofferenza psicologica. In ogni caso, la vita ci presenta continuamente sfide che non riusciamo a vincere, o cadute, e alcune di queste fanno male. L’essenziale è che il critical incident sia isolabile e localizzabile, trasformato in un episodio specifico da esaminare, e in qualche misura narrabile.

Dal momento in cui comunichiamo ad un Coach o Counselor competenti un Critical Incident, si apre la porta della sua comprensione.

Esiste una forte analogia tra il piano fisico e il piano mentale.

I trigger points riguardano, in fisiologia, i punti dolorosi al tatto, come in una contrattura muscolare. I trigger points segnalano quasi sempre un problema sottostante latente, un’infiammazione, una contrattura, un trauma ancora attivo, un malfunzionamento di un organo, di un muscolo, di una articolazione.

Rimangono in genere silenziosamente dolorosi, nello sfondo, finché una attività di “palpazione”o diagnosi non li fa emergere, come quando si cerca di localizzare dove fa male e improvvisamente si scopre il punto doloroso.

Vogliamo utilizzare qui questo concetto anche in chiave psicologica e di crescita personale e organizzativa, come immagine interessante in una psicologia del Coaching, per indicare gli argomenti che trovano in noi o nei clienti nervi scoperti, i punti dolorosi del piano esistenziale che quando incontrati ci fanno soffrire, o provocano reazioni.

Nell’organizzazione, sono i punti e argomenti che “fanno male” perché si connettono a disagi sottostanti, a “buchi neri” del Fattore Umano.

Esaminare i critical incidents (casi critici) e i trigger points (zone di dolore) è utile per prendere coscienza dello stato esistenziale attuale e suoi possibili miglioramenti. E soprattutto, per non mentire a se stessi su quali siano i nostri veri bisogni di auto-miglioramento, quali sono le “verità” di noi stessi che ci sono spesso taciute, spesso ignote, e quasi sempre ben lontane dall’essere comprese fino in fondo.

 

La minima deviazione iniziale dalla verità si moltiplica col tempo di migliaia di volte. (Aristotele)

 

©  Tratto dal libro “Il Coraggio delle Emozioni” di Daniele Trevisani

Articolo di Daniele Trevisani, Copyright 2010, Studio Trevisani

… ogni essere umano possiede dentro di sè una energia che tende alla realizzazione di sè, e – dato un clima psicologico adeguato – questa energia può sprigionarsi e produrre benessere sia personale che per l’intero sistema di appartenenza (famiglia, azienda, squadra).

Oltre al clima psicologico favorevole alla crescita, è importante  la possibilità di non essere soli nel percorso e avere compagni di viaggio (condizione 1). Una condizione ulteriore indispensabile (condizione 2) è sapere dove muoversi, verso dove andare, poter accedere ad un modello o teoria che guidi la crescita.

Con questa duplice attenzione, lo sviluppo personale diventa un fatto perseguibile, non più solo un sogno o un desiderio.

Una persona, un’azienda, un atleta, una squadra, sono organismi in evoluzione che spesso anziché evolvere in-volvono, o implodono, si consumano.

Tutti desideriamo la crescita e il benessere ma a volte ci troviamo di fronte a risultati insufficienti (sul lavoro, o nei rapporti di amicizia, o nel nostro percorso di vita) e a stati d’animo correlati di malessere, sfiducia o calo di autostima.

Dunque, bisogna agire. Ma ancora più interessante – prima di affrontare il come agire – è capire quando nasce il bisogno. Alcune domande provocative:

  • Quali sono i limiti inferiori, i segnali che ci informano del fatto che è ora di cambiare, che qualcosa non va, o che vogliamo essere migliori o anche solo diversi? Dobbiamo aspettare di raggiungerli o possiamo agire prima?
  • Quando prendiamo consapevolezza del bisogno di crescere o evolvere?
  • Da cosa siamo “scottati”, quali esperienze o fatti ci portano a voler evolvere? Quali sono i critical incidents che ci segnalano che è ora di una svolta? Dobbiamo attenderli o possiamo anticiparli?

critical incidents possono essere eventi drammatici o invece di piccola portata, ma comunque significativi, come lo svegliarsi male e non capire perché. Può trattarsi di un accadimento che ci ha riguardato e non riusciamo ad interpretare, non riusciamo a capire cosa sia successo. Possono essere casi di vita come la perdita di un lavoro, o una trattativa andata male, una gara persa, un litigio, una relazione che non va, o anche solo la difficoltà a raggiungere i propri obiettivi quotidiani. Può anche trattarsi di una malattia fisica o sofferenza psicologica. In ogni caso, la vita ci presenta continuamente sfide che non riusciamo a vincere, e alcune di queste fanno male.

Spesso rimanere “scottati” (da un’esperienza o stimolo) è indispensabile per acuire lo stato di bisogno, ma – come dimostrano gli studi sulla fisiologia –  l’organismo degli esseri viventi si abitua anche a stati di sofferenza cronica e finisce per considerarli quasi accettabili. Finisce per conviverci.

La metafora della rana nella pozzanghera, vera o falsa che sia, è comunque suggestiva: leggende metropolitane sostengono che una rana che si tuffi in una pozzanghera surriscaldata dal sole reagisca immediatamente e salti via. La rana scappa dall’ambiente inospitale senza bisogno di complicati ragionamenti. D’estate, una rana che sia nella stessa pozzanghera – la quale progressivamente si surriscalda al sole – non subisce lo shock termico istantaneo e può giungere sino alla morte, poiché – grado dopo grado – il peggioramento ambientale procede, in modo lento e costante, e non si innesca lo shock da reazione.

Non ci interessa la biologia delle rane, se la leggenda sia vera o falsa, e nemmeno se questo sia vero per tutte le rane. Interessa il problema dell’abitudine a vivere al di sotto di uno stato ottimale o della rinuncia a crescere, la rinuncia a credere che sia possibile una via di crescita o (nei casi peggiori) una via di fuga o alternativa ad un vivere oppressivo, intossicato, o semplicemente al di sotto dei propri potenziali.

L’abitudine all’ambiente negativo porta ad uno stato di contaminazione e alla mancanza di uno stimo di reazione adeguato. Si finisce per non sentire più il veleno che circola, l’aria viziata o velenosa.

Bene, in certe zone dello spazio-tempo, del vissuto personale, l’aria è ricca di ossigeno, ma in altre, larga parte dell’aria che respiriamo è viziata, e non ce ne rendiamo conto.

In certe aziende, famiglie o gruppi sociali (e persino nazioni), la persona, e la risorsa umana (in termini aziendalistici) assomiglia molto alla rana: può trattarsi di uno stagno visivamente splendido e accogliente, con entrate sontuose e atri luminosi, ma che – vissuto da dentro – diventa una perfida pozza venefica nella quale non si riesce più a “respirare”, e si finisce per soffocare.

Nella vita gli ambienti circostanti mutano ma non sempre con la velocità sufficiente ad innescare lo shock da reazione, e ci si sforza di adattarsi o sopportare. In altre realtà opposte, l’ambiente è invece favorevole e permette all’essere umano di realizzarsi.

Lo sforzo di adattamento produce un adeguamento inferiore, un blocco della tendenza attualizzante: la tendenza ad essere il massimo di ciò che si potrebbe essere, la tendenza a raggiungere i propri potenziali massimi di auto-espressione. Il nostro scopo è invece di perseguire la tendenza autoespressiva ai suoi massimi livelli: la tendenza di ogni essere umano ad essere il massimo di ciò che può essere.

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Articolo di Daniele Trevisani, Copyright 2010, Studio Trevisani