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©Copyright. Articolo estratto con il permesso dell’autore dal libro di Daniele Trevisani: “Psicologia di Marketing e Comunicazione” Franco Angeli Editore, Milano

Acquistare non richiede unicamente un esborso in denaro. Spesso un acquisto si carica di costi psicologici nascosti che ne aumentano il gravame.

Ad esempio, ipotizziamo che un’azienda riceva una proposta di passaggio ad un nuovo sistema operativo per i propri PC. Se essa ha appena terminato un costoso programma di formazione per il personale sul vecchio sistema operativo, il costo di acquisto si caricherà di ansie e preoccupazioni non monetarie (costi psicologici). Ad esempio, può nascere la percezione che l’investimento precedente in formazione diventerebbe immediatamente inutile.

Un secondo costo psicologico può essere di natura relazionale e d’immagine. Il buyer che decide di passare al nuovo sistema operativo potrebbe venire giudicato dai dipendenti come incapace di programmare (Perché mi avete fatto fare un corso su questo sistema operativo, se poi appena appreso non lo devo utilizzare, e devo iniziare da capo? – potrebbe chiedersi il dipendente). Di questa reazione negativa attesa il buyer può sentire con forza il peso, e decidere di non acquistare, soprattutto temendo le ripercussioni nell’ambiente circostante, anche se la valutazione del prodotto è buona.

Un altro esempio di costo psicologico nascosto è connesso al costo valoriale di una scelta. Una scelta di acquisto viene soppesata anche alla luce dei valori sottostanti. Ad esempio, per un ecologista/animalista convinto, acquistare un hamburger non significa unicamente sborsare alcuni dollari, ma rifiutare a tutti i valori in cui crede. Il costo psicologico in questo caso è enormemente superiore al costo monetario. Lo stesso vale (nell’ecologista) per l’acquisto di una pelliccia, o di un’auto che consuma molto.

I costi psicologici si dividono quindi, nella nostra prima categorizzazione, in costi psicologici personali (effetti indesiderati dell’acquisto legati ai propri valori o credenze) e in costi sociali o normativi (determinano un non-acquisto causato delle possibili reazioni negative degli altri: colleghi, amici, parenti, superiori, ecc.).

Tra i costi psicologici rientrano possibili perdite di immagine, di valori, cambiamenti di abitudini consolidate, diminuzioni di sicurezza, calo di approvazione sociale, riduzioni di qualità della vita, aumento di ansie e tensioni, e altre preoccupazioni legate in qualche modo (nella mente del cliente) all’atto di acquisto. Esse incidono sul comportamento di acquisto anche se frutto di immaginazione o basate su dati in realtà non fondati.

Analizziamo un caso ulteriore di acquisto di innovazione: l’implementazione di un sistema di e-commerce aziendale, proposto ad un imprenditore. Potremmo scoprire ad esempio che il costo di separazione sottostante non riguarda il solo denaro necessario (il costo del sistema), ma include anche l’anticipazione di una perdita di controllo. L’imprenditore sente che altri in azienda (es: gli informatici, o i nuovi esperti di internet marketing) e non più lui, capiranno cosa sta accadendo e come gestire l’impresa. Questo provoca riduzione del senso di autostima e caduta del ruolo.

Questi costi psicologici nascosti possono essere il fuoco che alimenta le obiezioni di superficie. Capirli, per poi gestirli, è assolutamente necessario.

©Copyright. Articolo estratto con il permesso dell’autore dal libro di Daniele Trevisani: “Psicologia di Marketing e Comunicazione” Franco Angeli Editore, Milano

Semantica articolo. Le keywords pertinenti nella psicologia del marketing e comunicazione sono:

Costo latente

Costo relazionale

Costo d’immagine

Costo valoriale

Costi psicologici personali

Costi sociali

Costi normativi

Comportamento d’acquisto

Senso di autostima

Costo di separazione

Costo Psicologico

Stress Emotivo

Equilibrio Mentale

Prezzo Dell’Ansia

FaticaEmotiva

TensioneMentale

Rischio Per La Salute Mentale

Oneri Psicologici

Peso Mentale

Affaticamento Emotivo

Impatto Psicologico  

Sforzo Mentale

Carico Emotivo  

Toll Mentale

Costo Emotivo  

Sacrificio Psicologico

Fardello Emotivo

Pressione Mentale

Fattore Psicologico

Gravame Emotivo

©Copyright. Articolo estratto con il permesso dell’autore dal libro di Daniele Trevisani: “Psicologia di Marketing e Comunicazione” Franco Angeli Editore, Milano

Le nostre ipotesi vanno alla ricerca delle pulsioni e dei moventi profondi, oltre la pura espressione verbale e consapevole. Se considerassimo sufficienti le prime spiegazioni verbali fornite dai consumatori, per capire le dinamiche reali del loro comportamento, ci accontenteremo davvero di poco. Non è facile per nessuno dare risposte a domande del tipo: “Quanto ha influito il personaggio di Superman nella costruzione del tuo modello di Sé ideale” (ad un ragazzo, ma specularmente questo vale per la Barbie in una ragazza). L’influenza può essere avvenuta, e molto forte, ma a livello inconscio, senza una chiara percezione del fenomeno.

La letteratura psicosociale è sin troppo ricca di studi che dimostrano quanta distanza esiste tra ciò che le persone dicono di fare e ciò che fanno veramente, tra l’immagine che proiettano all’esterno e la propria vera identità, tra quello che sono e quello che vorrebbero essere.

Un primo momento di analisi riguarda la distanza tra ciò che le persone proiettano, tra ciò che dichiarano, e i veri comportamenti e pensieri posseduti. In genere la collimazione tra queste sfere non è totale, ma esistono aree del Sè che non emergono (area 1), ed aree del Sè puramente proiettate (area 3).

La ricerca di marketing ha evidenziato il fenomeno del Socially Desirable Responding (SDR) che riguarda la tendenza degli individui a proiettare di se stessi, quando intervistati formalmente o nella comunicazione interpersonale, un’immagine accettabile, positiva, rispetto alle norme culturali correnti, o alle norme dei gruppi di appartenenza.

David Mick (1996)[1] ad esempio ha evidenziato le difficoltà insite nell’esplorazione del “dark side” del comportamento del consumatore, su temi quali il materialismo, l’uso di alcool e di droghe, l’acquisto compulsivo, i piccoli furti nei negozi, le scommesse, il fumo di sigaretta, e la prostituzione.

Il Socially Desirable Responding avviene sia per incapacità di focalizzare le proprie motivazioni, che per volontà precisa di nascondere fatti, comportamenti e opinioni, di consumo, culturali e politiche.


[1] Mick, D.G. (1996). Are studies of dark side variables confounded by socially desirable responding? The case of materialism. Journal of Consumer Research, 23.

©Copyright. Articolo estratto con il permesso dell’autore dal libro di Daniele Trevisani: “Psicologia di Marketing e Comunicazione” Franco Angeli Editore, Milano

Semantica articolo – le keyword pertinenti nella psicologia del marketing e comunicazione

Psicologia del marketing e della comunicazione

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Livelli della motivazione d’acquisto

Livelli della motivazione

Motivazione d’acquisto

Psicologia del consumo

Comportamenti di acquisto

Motivazione conscia

Motivazione inconscia

Motivazione subconscia

Persuasione

Comportamento del consumatore

Neuromarketing

Segmentazione di mercato

Influenza sociale

Psicologia del colore

Branding emotivo

Comunicazione persuasiva

Psicologia dei prezzi

Scelta razionale vs. emotiva

Customer journey

Effetto halo

Teoria dell’elaborazione a due vie (Elaboration Likelihood Model)

Cognitive bias

Fattori motivazionali

Creazione di desiderio

Costruzione dell’identità di marca

Psicologia delle vendite

 Fattori psicologici nell’acquisto impulsivo

Gestione delle aspettative del consumatore

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© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Psicologia di marketing e comunicazione. Pulsioni d’acquisto, leve persuasive, nuove strategie di comunicazione e management”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore

L’immagine del prodotto

L’immagine dell’impresa nasce dalla somma delle impressioni che un soggetto (ad esempio un cliente) sviluppa nei riguardi di essa, ogni qualvolta viene a contatto con qualcosa (un prodotto, una persona, un simbolo) ad essa collegato o da essa prodotto. Ogni marchio, ed ogni azienda, sono in grado di generare impressioni nei clienti (positive o negative che siano). 

Così come l’azienda assume un’immagine agli occhi dei suoi pubblici, i prodotti acquistano una connotazione, e persino una personalità (debole o forte, definita o vaga, gradita o sgradita). 

Un prodotto forte è dotato di una personalità ben definita che lo fa fuoriuscire dalla concorrenza di prezzo. L’immagine del prodotto, del marchio e dell’azienda può essere misurata scientificamente. La sua costruzione attiva è uno degli obiettivi primari di qualsiasi strategia competitiva.

Quando esiste una connessione tra il prodotto, il marchio e l’immagine proiettata dall’individuo, il prodotto diventa strumento di impressions management

Il prodotto d’immagine assume valenze comunicazionali nella proiezione di un’identità, facilitando il passaggio del cliente da un’identità attuale ad un’identità desiderata (identità target o immagine target). Non importa che ciò sia realmente vero, è sufficiente che questo sia vero nella psicologia individuale dell’acquirente. 

In altre parole, l’immagine del marchio e l’immagine del prodotto diventano strumenti espressivi di un modo di essere, o di un modo di pensare. 

Trasmettono un’identità del possessore, o almeno, il più delle volte, questo è ciò che vorrebbe l’acquirente.

Il prodotto non è solo un assemblaggio di componenti. Una visione puramente merceologica e ingegneristica impedisce di capirne il valore affettivo.

Quando i prodotti si rivolgono a bisogni di ordine superiore – bisogni sociali, autorealizzazione, costruzione d’immagine della persona – essi assumono valenze soprattutto psicologiche, ancor prima che tecnico-funzionali.

I prodotti/servizi (non tutti, naturalmente, ma buona parte di essi) si trasformano da beni asettici a oggetti dotati di anima, e con essi si instaura un rapporto che fuoriesce dalla pura fruizione per entrare nel campo della comunicazione e della psicologia. Diventano, in altre parole, strumenti espressivi con i quali il soggetto cerca di modificare la propria identità, verso un’immagine più vicina al proprio sè ideale.

Nella psicologia del consumo il prodotto assume valenze emotive, quale porzione del vissuto di un individuo. L’acquisto di un viaggio può avere alla base la ricerca di un semplice momento di svago o ricreazione. Ma un viaggio può essere anche il momento di svolta di una vita, nel quale ricercare la propria identità smarrita, e ritrovare un senso nella propria esistenza. 

Sviluppare sensibilità verso la motivazione d’acquisto sottostante, capire le valenze emotive attribuite dal consumatore è un prerequisito per la comunicazione aziendale e la costruzione del prodotto. Come si può notare, elementi estranei al prodotto possono distruggere o rovinare l’esperienza del fruitore e distruggere il tentativo di costruzione attiva dell’immagine.

La presenza di elementi di disturbo, difformi e disomogenei (ad esempio un cesto dei rifiuti di plastica, anziché ricoperto di legno, in un agriturismo) elimina la consonanza tra gli elementi, necessaria per costruire un profilo d’immagine omogeneo e fluido.

Il profilo d’immagine di un marchio o di un prodotto è analizzabile ricorrendo, tra l’altro, a concetti sviluppati dalla psicologia sociale degli atteggiamenti, che esploreremo di seguito.

Gli atteggiamenti del cliente

Gli atteggiamenti sono un concetto fondamentale della psicologia sociale. Il loro utilizzo nelle ricerche psicologiche e nel marketing è ampio e permea diverse funzioni: comunicazione, ricerca di mercato, test dei prodotti, segmentazione del mercato, risorse umane e formazione aziendale.

Come sottolineano Eiser e van der Pligt (1991)[1], gli atteggiamenti non sono vaghi stati d’animo o sensazioni, ma forme di esperienza che (a) si riferiscono a specifici oggetti, eventi, persone o problemi, e (b) sono di natura essenzialmente valutativa, cioè implicano dei giudizi di buono-cattivo, positivo-negativo, giusto-sbagliato.

La relazione tra atteggiamento e obiettivi aziendali è forte e immediata. Gli atteggiamenti verso il prodotto, verso il marchio o impresa, e verso il venditore, generano o eliminano la propensione all’acquisto.

La psicologia degli atteggiamenti applicata al marketing è in grado di fornire numerosi contributi di grande rilevanza per la comprensione di come le persone valutano i prodotti. L’importanza del concetto di atteggiamento proviene dalla sua stretta correlazione con il comportamento. Gli atteggiamenti sono precursori dei comportamenti. In altre parole, la creazione di atteggiamenti positivi (1) verso il prodotto, (2) verso il venditore e (3) verso il marchio, è indispensabile per conseguire successo di vendita.

La ricerca evidenzia che l’atteggiamento individuale non è l’unica causa del comportamento, altri fattori situazionali (ad esempio la pressione degli amici o della famiglia, o tagli alla disponibilità economica, tanto per fornire un dato concreto) possono bloccare l’azione, o dirigerla verso altre mete.

In generale, possiamo affermare che nel marketing l’atteggiamento individuale verso un prodotto o un comportamento è il risultato di una serie di valutazioni specifiche, e si forma come sommatoria delle opinioni e credenze (convinzioni) relative alle componenti del prodotto. L’atteggiamento verso un comportamento emerge come risultato delle varie credenze riguardanti l’esito del comportamento stesso.

L’atteggiamento può avere una valenza positiva o negativa. Inoltre, ciascun atteggiamento avrà una certa “forza”, cioè un livello più o meno alto di radicamento nel soggetto. Perciò potremo identificare atteggiamenti fortemente positivi o fortemente negativi, moderatamente positivi o moderatamente negativi, oppure atteggiamenti neutri o inesistenti, verso qualsiasi tipo di prodotto.

La forza di un atteggiamento verso il prodotto si determina grazie ad un ragionamento moltiplicatorio: è il risultato delle credenze soggettive sul fatto che il prodotto possegga una certa proprietà per la valutazione (positiva o negativa) di quella proprietà.

Ad esempio, il mio atteggiamento verso l’ “oggetto mentale” Internet sarà dato:

  1. dalle proprietà positive che io vi attribuisco (ritengo che Internet renda possibile una ricerca veloce di informazioni; considero anche indispensabile, oggi, poter scambiare dati con altre persone senza spostarmi fisicamente) e
  2. da quanto risulta per me importante quella proprietà (per me la velocità nelle ricerche di informazioni è molto importante, così come poter risparmiare tempo negli spostamenti).

Queste valutazioni spingeranno il soggetto ad avere un atteggiamento complessivamente positivo.

In ogni prodotto è possibile percepire sia componenti positive che negative, le quali vengono soppesate secondo un sistema di bilanciamento che è estremamente individuale e soggettivo. Posso personalmente ritenere che Internet contenga anche informazioni errate ed inutili, e questo possa generare dispersività, ma questo fatto è per me poco incisivo, in quanto sento di padroneggiare bene lo strumento e di poter gestire facilmente il problema. Tutto sommato, quindi, il mio atteggiamento complessivo verso Internet sarà positivo (sommatoria di forti valutazioni positive, con qualche debole valutazione negativa). 

Nell’individuo, le diverse informazioni e valutazioni (positive e negative) compongono un quadro di atteggiamento . Questo sistema complesso di valutazioni deve essere capito, dopo una attenta analisi dei punti di forza e di debolezza del prodotto, se si vuole sperare di ottenere una buona probabilità di successo di mercato. Il valore complessivo dell’atteggiamento consente di migliorare la propria offerta, la progettazione di prodotto, e la comunicazione al cliente.

Il prodotto nel continuum positività-negatività

Gli individui non sono uguali tra loro in merito a posizioni specifiche su diversi argomenti: ad esempio, riguardo alla pena di morte, alcuni hanno posizioni negative molto forti e radicate, altri ugualmente forti, ma in senso favorevole, altri ancora moderatamente a favore o contro, altri ancora non avranno alcun’opinione specifica. Lo stesso vale rispetto ai prodotti.

Ciascun individuo possederà diverse tipologie di atteggiamento nei riguardi di diverse entità di valutazione. La struttura dei diversi atteggiamenti può essere visualizzata lungo un continuum.

Per ogni atteggiamento, esistono ancoraggi valoriali e culturali, a volte chiari e decodificabili immediatamente, altre volte inconsci e subconsci.

È naturale che un qualsiasi tentativo di modificare queste situazioni preesistenti (tentativo di persuasione) si confronterà con la modifica dei valori sottostanti, e porrà problemi di diversa natura.

In generale si può affermare che quanto maggiore è la forza di un atteggiamento, e radicato il suo collegamento con altri atteggiamenti forti e valori elevati, tanto più alta è la difficoltà di cambiarlo. Atteggiamenti molto forti e radicati nel tempo sono difficili da cambiare. Là dove non esiste alcun atteggiamento specifico (ad esempio un tema sul quale l’individuo non ha mai focalizzato la propria attenzione) la creazione di un atteggiamento specifico risulta più semplice.

Implicazioni per il marketing business-to-business

Nel business-to-business, molto spesso la latitudine di accettazione del buyer verso un nuovo prodotto o nuovo servizio non è predefinita, in quanto appunto non vi sono esperienze in merito. Questa rappresenta una problematica generale delle aziende che vendono innovazione.

Una tattica difensiva del buyer è quella di partire da posizioni negative, salvo modificarle in seguito. Non tutti, fortunatamente, adottano questa tattica, in quanto preclude ad una valutazione oggettiva e ponderata delle opportunità che possono essere realmente presenti nell’offerta.

Tra gli individui presenti all’interno di un target o campione eterogeneo di aziende, esistono varietà e differenziazioni in merito alla natura di atteggiamento preesistente. All’interno di una popolazione ampia, spesso la distribuzione degli atteggiamenti preesistenti assume una forma di curva normale (curva gaussiana, in termini statistici), che vede la presenza di un’area di soggetti fortemente positivi, una massa di “incerti” o persone che detengono atteggiamenti deboli, e un’area di soggetti con atteggiamenti negativi. Occorre quindi, per il venditore, capire questo scenario di atteggiamenti preesistenti, poiché con questo quadro egli dovrà confrontarsi.

Segmentazione attitudinale del cliente

Il termine “attitude” nella terminologia psicologica e di marketing anglosassone risponde all’equivalente italiano di “atteggiamento”. Con una piccola traslazione linguistica, utilizzeremo questo termine per definire il concetto di “segmentazione attitudinale”, intesa come stratificazione del mercato in funzione degli atteggiamenti preesistenti. 

La nostra tecnica individua cinque macrogruppi, differenziati in termini di posizioni latenti verso il prodotto:

  • Gruppo A: soggetti aperti e disponibili che dispongono di atteggiamenti fortemente positivi; le credenze possedute sono tutte positive e rilevanti.
  • Gruppo B: i soggetti dispongono di atteggiamenti positivi ma di valenza debole o moderata. Questi soggetti possono collocarsi in B anche quando a credenze positive (prevalenti) si sommano credenze negative (minoritarie).
  • Gruppo C: soggetti che non dispongono di un chiaro orientamento, per indisponibilità di esperienze precedenti o difficoltà nel valutare, o non conoscenza della materia;
  • Gruppo D: soggetti moderatamente negativi. La negatività può provenire o dal riconoscere solo punti negativi, o dal riconoscere più punti negativi (o di maggiore intensità) rispetto a quelli positivi. Eventuali punti positivi, nel quadro di atteggiamenti complessivo verso il prodotto o la proposta, diventano minoritari.
  • Gruppo E: soggetti fortemente negativi; le credenze negative possono essere numerose e sommarsi, oppure possono essere poche ma di intensità molto alta, tali da mettere in secondo piano qualsiasi altra possibile valutazione.

Questi diversi stadi corrispondono a diverse realtà psicologiche che il venditore troverà nel buyer. La difficoltà di vendita sarà crescente man mano che ci si sposta dal gruppo A al gruppo E, con una distribuzione degli atteggiamenti lungo un continuum  positivo/negativo, anche se venditori abili non si scoraggeranno molto nel fronteggiare soggetti E.

La segmentazione attitudinale (identificazione di sottogruppi diversificati in funzione degli atteggiamenti esistenti), ha lo scopo di:

  1. inquadrare la struttura degli atteggiamenti preesistenti,
  2. identificare i target prioritari,
  3. definire strategie di attacco ai diversi target.

Distribuzione delle risorse sui diversi target

Nessuna azienda o organizzazione dispone di un budget di comunicazione infinito, o di infinite risorse di vendita (tempi, uomini e mezzi). Diventa pertanto necessario definire le priorità di intervento, o priorità di vendita, in relazione ai diversi tipi di target.

In genere, queste vanno ottimizzate e distribuite partendo dai target più accessibili e responsivi, tenendo per ultimi i più ostili, i quali richiedono un maggiore costo di vendita (tempo, energie, sforzo persuasivo e abilità necessarie).

Saper identificare con che tipo di soggetti si dovrà avere un confronto è una necessità che va oltre il marketing aziendale, e pervade fortemente anche il marketing pubblico e la comunicazione pubblica. 

L’utilizzo di una strategia standardizzata su target dalle caratteristiche troppo diverse ne riduce sicuramente l’efficacia, soprattutto quando non sia stato trovato un minimo comune denominatore motivazionale.

In base alle considerazioni esposte, formuliamo il seguente principio:

Principio – Assioma di targeting della comunicazione

  • La comunicazione strategica richiede l’attivazione di percorsi e strategie diversificate in funzione dei diversi target. 
  • La comunicazione deve essere tarata in base alla struttura di atteggiamenti esistente nel soggetto ricevente.
  • La necessità di diversificazione della strategia cresce all’aumentare della divergenza/differenza tra soggetti e gruppi sui quali si vuole agire. 

In questo assioma si sostiene, quindi, che l’accettazione di un messaggio sia correlata al grado di “centratura” sui bisogni del target, sulla corretta identificazione delle strutture preesistenti di atteggiamento.

I problemi emergono sia nella pubblicità realizzata senza analisi precedente del target, che nella vendita diretta in cui il venditore fronteggia un soggetto sconosciuto.

In questi casi di blind sales (vendita che avviene su soggetti non conosciuti) la posizione dovrà essere rilevata online, in diretta, sul luogo e durante l’incontro. Le tecniche di rilevazione (domande, probing) non devono tuttavia urtare il sistema difensivo del soggetto, il quale deve vedere nelle domande del venditore una reale forma di interessamento.

Un tecnico di blind sales o un tecnico di vendita creativa è un soggetto molto abile sia in termini di formazione psicologica che in termini di capacità di analisi. Questi professionisti sono decisamente rari.

Nella vendita di servizi (es: finanziari, immobiliari), un’attività preliminare di segmentazione e screening diviene necessaria per fornire al venditore un profilo preliminare dei soggetti da incontrare (un profilo psicografico, oppure la posizione di atteggiamento ed interesse rilevata in precedenza). Questo consente la realizzazione di visite di vendita maggiormente mirate.

Nella comunicazione pubblicitaria, o comunque mediata, e nella vendita indirizzata a più soggetti (quando quindi il target è costituito da un gruppo), vale inoltre il seguente principio:

Principio – Assioma del minimo comune denominatore (MCD)

  • Azioni di comunicazione che hanno come target un gruppo composito di soggetti dovranno basarsi su bisogni e caratteristiche che costituiscono un minimo comun denominatore tra i soggetti membri del gruppo (valori condivisi, atteggiamenti condivisi, passati condivisi). 
  • Al crescere della variabilità interna del gruppo diminuisce la probabilità di trovare modelli validi ed efficaci per tutti i soggetti, e quindi aumenta la necessità di sviluppare strategie comunicative diversificate.

Credenze sul prodotto e belief system del consumatore

Le credenze, secondo Rokeach,[2] sono «proposizioni semplici, consapevoli o inconsapevoli, inferite da ciò che una persona dice o fa, che possano essere precedute dalla frase …Credo che…».

Alla base della formazione degli atteggiamenti verso il prodotto vi sono le «credenze» del soggetto (beliefs) relative al prodotto. La somma delle diverse credenze crea il “sistema delle credenze” (belief system) del cliente relativo alle conseguenze dell’acquisto. 

Credenze e atteggiamenti sono concetti diversi, in quanto le credenze rappresentano le componenti di base degli atteggiamenti, i mattoni costitutivi. Un atteggiamento può quindi essere considerato come una organizzazione di credenze

Il sistema delle credenze è un composto instabile, in cui ogni informazione in ingresso può modificarne la struttura. Le diverse credenze, valutate soggettivamente, producono l’atteggiamento complessivo di prodotto.

Il termine “credenze” evidenzia subito un fatto importante: gli atteggiamenti verso il prodotto sono un fatto psicologico, ed esistono anche senza la prova diretta o test del prodotto svolto in prima persona. È sufficiente un passaparola negativo (o positivo), o una supposizione tutta interiore sul gradimento, o persino il sound del marchio, ad innestare lo sviluppo di credenze e quindi la formazione di atteggiamenti. La credenza è una convinzione, che può anche essere sbagliata. 

Non dobbiamo pensare che il fondamento di una valutazione di prodotto si basi su riscontri oggettivi o valutazioni scientifiche, ma prendere atto che le credenze (beliefs) di prodotto si formano indipendentemente dalla volontà del venditore: sono dati di fatto con i quali egli deve avere a che fare, e che può tuttavia cercare di cambiare.

Gli atteggiamenti hanno quindi componenti cognitive, affettive e comportamentali. 

  • La componente cognitiva degli atteggiamenti riguarda l’insieme di credenze che il cliente possiede relative all’oggetto (ciò che il cliente pensa di sapere)
  • La componente affettiva o valutativa riguarda il grado di favore o sfavore verso l’oggetto, il grado di positività o negatività, che il cliente percepisce nell’oggetto
  • La componente conativa o comportamentale riguarda la tendenza all’azione che l’atteggiamento predispone nel cliente (acquistare o meno, suggerire il prodotto ad altri, non suggerirlo, o addirittura sconsigliarlo, ecc).

La maggior parte degli scienziati sociali è d’accordo sul fatto che un atteggiamento non sia un elemento basilare, irriducibile, all’interno della personalità, ma rappresenti un cluster (aggregazione) di più elementi intercorrelati.

Esistono forti influenze reciproche tra le tre componenti dell’atteggiamento. Se dispongo di una informazione non veritiera su una persona (ad esempio, penso – sbagliando – che abbia tradito la fiducia di qualcuno), la componente cognitiva sarà viziata da un errore di conoscenza. 

Questo errore si trasferirà alla componente valutativa (inizierò ad avere un rifiuto interno di quella persona, se per il mio sistema di valori il tradimento della fiducia è un comportamento indegno) e alla componente comportamentale (non lo inviterò ad una festa). 

La traduzione non è tuttavia automatica, poiché, come ricordato, vincoli esterni possono creare vincoli così forti da non consentire alla persona di agire coerentemente con i propri atteggiamenti.

Persuasione e organizzazione degli atteggiamenti

Abbiamo notato come le credenze su un determinato oggetto o prodotto si inseriscono all’interno del sistema di credenze di cui dispone il soggetto (belief system), che rappresenta «l’universo totale delle credenze di una persona riguardanti il mondo fisico, sociale, e il self». 

Dobbiamo considerare che le attività di persuasione aziendale, o l’autopersuasione di un consumatore  – magari successiva alla prova di un prodotto – costituiscono atti di riorganizzazione del belief system, cioè veri e propri mutamenti nel sistema di credenze della persona, a volta anche dolorosi.

Questa modifica, se avviene, causerà una forte riorganizzazione cognitiva, il cui costo è elevato in termini di sforzo persuasivo per l’individuo, il quale dovrà iniziare a “vedere il mondo” attraverso un sistema diverso di credenze. Il cambiamento di credenze non è di per se negativo, se il sistema di credenze iniziali conteneva bias, errori di valutazione che autolimitano la crescita del soggetto. 

Iniziare a percepire il mondo attraverso una luce diversa, con l’eliminazione dei filtri autoimposti o creati artificialmente dall’ambiente sociale, è del resto uno degli obiettivi della terapia cognitiva e di alcune scuole psicoterapeutiche (scuole Rogersiane[3]), le cui applicazioni alla vendita aziendale sono oggetto di studio da parte dell’autore e altri ricercatori.

La forza coesiva e la resistenza al cambiamento dei belief systems è tale che molti soggetti preferiscono rifiutare nuova informazione, pur di conservare il sistema di credenze in atto. Ad esempio, un razzista etnico sarà tentato a pensare che il ragazzo nero, il quale ha salvato una bambina da un annegamento, lo ha fatto “per ottenere una ricompensa” e non per volontà individuale. Questi meccanismi di “errore di attribuzione” che avvengono per non modificare le proprie strutture concettuali, sono stati dimostrati dalla ricerca sociale sulla comunicazione interculturale, inizialmente per comprendere i meccanismi di comprensione/incomprensione tra culture, ed in seguito per capire alcune valutazioni di prodotto nel marketing internazionale

In questi contesti, infatti, è stato dimostrato che le aziende di paesi ad alta reputazione in un certo settore industriale (moda italiana, meccanica tedesca, elettronica giapponese, ecc.), godono in quel settore di un vantaggio competitivo di immagine del prodotto. Ciò avviene grazie al belief system stereotipico del consumatore, che attribuisce ai prodotti di quel paese, in quel settore industriale, un grado di qualità di partenza superiore.

Questo effetto, determinato country-of-origin effect, è studiato estensivamente[4]. Ricerche nel campo dimostrano che il fattore “paese di origine” viene utilizzato dal consumatore in condizioni di scarsità di tempo di elaborazione (quando, cioè, non esiste tempo sufficiente per testare realmente le prestazioni e compararle tra prodotti).

Non dobbiamo né possiamo basare una strategia di marketing sulle credenze che il cliente “dovrebbe avere”, ma su quelle che effettivamente ha, per quanto sbagliate o distorte siano. Fare il contrario significherebbe ottenere risultati opposti o controproducenti, sia nella comunicazione sociale e pedagogica, che nella comunicazione di mercato.Sono proprio le credenze del momento ciò che l’individuo pensa, gli elementi in base ai quali agisce. Il fatto che le credenze siano distorte, al di là della verità oggettiva, non cambia le cose. Quindi le credenze assumono un peso maggiore rispetto alla “verità” di fatto. 


[1] Eiser, J.R., & van der Pligt, J. (1991). Atteggiamenti e decisioni. Bologna, Il Mulino. Edizione originale: Attitudes and Decisions. London, Routledge, 1988.

[2] Rokeach, M. (1968). Beliefs, attitudes, and values. San Francisco: Jossey-Bass.

Rokeach, M. (1973). The nature of human values. New York: Free Press.

[3] Autore di riferimento: Carl Rogers, psicologo e psicoterapeuta creatore della Client-centered therapy. Vedi Rogers (1951). Per approfondimenti sulle applicazioni rogersiane al marketing e comunicazione aziendale vedi www.medialab-research.com/tecniche/rogersiane/

[4] Vedi Gurhan-Canli, Z. & Maheswaran, D. (2000). Determinants of Country-of-origin evaluations Journal of Consumer Research, 27.

Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

Le parole chiave di questo articolo La psicologia degli atteggiamenti verso il prodotto sono :

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  • Credenza
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  • Quadro di atteggiamento
  • Distribuzione degli atteggiamenti preesistenti
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  • Targeting della comunicazione
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  • Sistema delle credenze
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  • Componente affettiva
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  • Country of-origin-effect
  • Strategie di marketing sulle credenze

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Il modello del comportamento pianificato

Il comportamento (acquistare o meno, fare o meno una scelta) è governato – secondo la Teoria del Comportamento Pianificato – da 3 grandi forze:

  1. le credenze dell’individuo,
  2. le aspettative dei gruppi di riferimento,
  3. la sensazione dell’individuo rispetto al poter controllare gli esiti delle sue scelte.[1]

L’atteggiamento verso il prodotto o verso la scelta risulta dalla somma delle diverse credenze che la persona possiede. Queste possono essere tutte negative (avremo quindi un atteggiamento negativo), tutte positive (con esito di una valutazione positiva) o in parte positive e in parte negative (avremo quindi uno stato di dissonanza nel cliente).

Ma non solo. Ogni volta che siamo a decidere se fare o non fare, o cosa scegliere, scatta il meccanismo del “cosa ne penseranno gli altri che sono importanti per me” (la famiglia, gli amici della palestra, gli amici del bar, colleghi di lavoro, o qualsiasi altro gruppo importante per il soggetto).

Il Perceived Behavioral Control viene determinato da due fattori: 

  1. Control Beliefs: quanto vengono visti difficili i comportamenti (risorse necessarie, skills, barriere ambientali), in termini di attuazione pratica (es: penso che giocare a poker sia bello ma difficilissimo);
  2. Perceived Power: la percezione del grado di successo, le capacità che l’individuo sente di avere, sull’attuazione del comportamento (es: penso di poter imparare a giocare a poker se mi impegno a fondo).

La teoria prevede che anche un compito difficile può essere tentato, se la percezione di potercela fare è alta (del tipo “potrei persino lanciarmi da un grattacielo, se penso di aver gli strumenti per atterrare bene”). 

Viceversa, anche azioni semplici non verranno attuate, se l’individuo percepisce barriere tali (interne o esterne) che lo possano bloccare (Es: “non ce la farò mai a parlare a quella persona, sono troppo timido”).

Queste percezioni partono dall’esperienza passata, da un analisi del proprio stato attuale, e dall’anticipazione di circostanze future (credenze sul futuro).

Uno dei contributi importanti fornito dalla T.C.P. consiste nel far emergere l’importanza delle credenze del soggetto come principali determinanti del suo comportamento: credenze soggettive, e non realtà oggettive. 

Le credenze, come tali, possono essere anche profondamente errate, dovute a disinformazione, o scarsa conoscenza di stati reali, situazioni oggettive e dati di fatto.

Nel modello osserviamo infatti che: 

  • sono le credenze sugli esiti dei comportamenti a creare l’atteggiamento verso l’intraprendere o meno un’azione (non le prove reali sugli esiti dimostrabili del comportamento);
  • sono le credenze su come gli altri reagiranno, a creare la percezione di doversi adattare alle aspettative altrui (non la conoscenza reale di come gli altri reagiranno, ma una pura ipotesi anticipativa di tale reazione);
  • sono le credenze del soggetto rispetto a ciò che egli può o riesce a fare, e non le sue reali capacità, a limitare il campo del fattibile.

Le credenze comportamentali : Behavioral Beliefs:

Le credenze comportamentali collegano il comportamento target ai suoi esiti previsti.

  • Una credenza comportamentale è la probabilità percepita che il comportamento target produca un certo risultato (outcome), un risultato che potrà essere positivo o negativo.
  • La somma delle credenze possedute dall’individuo forma l’atteggiamento verso il comportamento.

Poniamo il caso di un consumatore di fronte alla scelta di acquistare cerchi in lega leggera per la propria auto. Una delle pulsioni verso l’acquisto nasce dalla credenza che il cerchio in lega sia più leggero e riduca gli spazi di frenata dell’auto. Se questo risultato (outcome) è valutato molto positivamente (il cliente è molto sensibile al discorso “sicurezza”), la credenza inciderà positivamente sulla propensione specifica all’acquisto.

La propensione d’acquisto tuttavia è influenza da tutto l’insieme di credenze del cliente. Se una credenza ulteriore è che i cerchi in lega possano arrugginire facilmente, prima dei cerchi tradizionali (un outcome negativo), avremo una fonte di credenze che riduce la propensione all’acquisto. 

La scelta si farà più difficile in quanto due credenze diverse, dai risultati attesi opposti (uno positivo, l’altro negativo), sono in conflitto, creando dissonanza cognitiva nel cliente.

Compito di chi vende o agisce nel marketing è quindi scoprire:

  • quante e quali sono le credenze “attive” nel soggetto;
  • quante e quali sono positive, negative, e con che intensità;
  • come le credenze si rapportano tra loro (decostruzione della mappa mentale delle credenze o belief-system);
  • quali credenze sono tra di loro in antitesi, creando dissonanza palese o latente;
  • quali credenze possono essere create per modificare lo stato attuale;
  • su quali credenze è più agevole agire per modificarne la direzione o intensità;
  • quali sono determinate da valutazioni d’esperienza personale, e quali sono basate su fonti non validate.

Le credenze normative : Normative Beliefs

Le credenze normative si riferiscono alle aspettative comportamentali percepite nei referenti importanti per l’individuo (persone o gruppi), quali la moglie o marito, famiglia, amici, colleghi, collaboratori o capi, clienti, partner, concorrenti o fornitori e altri che assumono funzione di referenti in relazione al ruolo ricoperto e al comportamento in esame.

Le credenze normative (ciò che pensiamo gli altri vorrebbero noi facessimo o non facessimo), in combinazione con le motivazione ad adattarsi alle aspettative altrui, formano la “norma soggettiva”.

In termini psicanalitici, dobbiamo ricordare che il modello TCP non include solo soggetti importanti “viventi, ma anche persone del proprio passato, o miti, o personaggi religiosi di riferimento (es, cosa farebbe Gesù se fosse al posto mio di fronte a questa scelta?) 

Le persone influenti possono anche non essere presenti, ma fungono comunque da “altri soggetti di riferimento”. Gli “altri latenti” o “referenti latenti” sono soggetti cui l’individuo guarda mentalmente per capire se questi sarebbero contenti o meno dell’azione che sta per intraprendere.

Quando sto per fare qualcosa di importante penso sempre se mia nonna avrebbe voluto o no, lei si che sapeva come si stava al mondo…. era una persona eccezionale. Mi ha cresciuto lei.

Gli “altri rilevanti reali” sono invece soggetti presenti fisicamente nella vita del soggetto, soggetti con i quali ha realmente a che fare. Questi soggetti sono spesso multipli, nel senso che in molte scelte l’individuo deve render conto a numerose persone e gruppi Es: scegliere un abito ha un’influenza sia sulla famiglia che sul gruppo di persone con cui si lavora. Le loro “opinioni latenti” sulla bontà dell’acquisto agiscono in background sulla scelta.

Anche in questo caso dobbiamo notare che si tratta comunque di credenze: un cliente potrebbe rifiutare un acquisto gradito, nell’ipotesi che la mogli abbia una reazione negativa.

Questo rappresenta un problema dal momento in cui non si tratta di certezze ma di credenze, e come tali suscettibili di errore e percezioni distorte della realtà.

In termini di vendita, il lavoro sulla norma soggettiva richiede al venditore la capacità di modificare la percezione del rapporto individuo-gruppi, in due direzioni:

  • direzione A: emancipando l’individuo dalla pressione percepita dei gruppi, o,
  • direzione B: facilitando l’acquirente a vendere egli stesso l’idea della soluzione ai propri gruppi di riferimento, fornendogli argomentazioni adeguate.

Bisogna, in altre parole, ridurre le pressioni sociali percepite verso il non-acquisto ed eliminare la fonte di obiezione normativa, che recita nella mente del soggetto il mantra “quelli che contano per me non vorrebbero questo acquisto, o se lo facessi ne verrei in qualche modo punito”.

Questi casi si inseriscono all’interno dell’ampia gamma delle riflessioni guidate indirizzanti, tecnica specifica del metodo ALM.

Le credenze sulle proprie capacità di controllo della situazione : Control Beliefs

Le credenze sul controllo degli eventi e sulle proprie capacità di azione sono al centro dell’intenzione di fare o no fare, agire o non agire, acquistare o non acquistare. 

“Sarò in grado di far digerire questo acquisto a mia moglie?” può chiedersi un marito. 

 “Ho il controllo della situazione?” “Ce la posso fare?” sono altre domande inerenti le credenze sul controllo.

Il controllo comportamentale percepito si riferisce alla riflessione del soggetto rispetto alla sua abilità di “tenere a bada” gli esiti di una scelta[2].

Le credenze sul controllo hanno a che fare con le presenza percepita di fattori che possono facilitare o impedire la prestazione o comportamento. 

Poniamo il caso di un manager che debba affrontare un discorso in pubblico: se anticipa tra gli uditori la presenza di elementi ostili, ma si ritiene in grado di dominarli, andrà tranquillamente verso la prestazione. Se non ritiene di avere le energie sufficienti per farlo, cercherà di evitare la situazione. 

Il problema dei control beliefs non dipende solo dalla forza delle sfide esterne, ma anche e soprattutto dalla capacità interna che l’individuo sente di possedere, in relazione alle sfide (stato bio-energetico e psico-energetico dell’organismo)[3].

Anche sfide banali possono apparire gigantesche se i control beliefs sono negativi. Al contrario, il soggetto che sente di possedere grado elevato di autostima, sicurezza di sé, autocontrollo, e livelli energetici elevati, percepirà le condizioni per realizzare una buona prestazione, sia essa comunicativa, o in qualsiasi altro contesto comportamentale.

Relativamente all’acquisto, il cliente basa le sue credenze di controllo sulla base di passate esperienze, e giungere alla conclusione che “sì, sono in grado di gestire questa situazione, quindi procedo verso l’acquisto”, oppure “no, non ce la posso fare, è troppo difficile per me far passare la cosa, non sono in grado, non ce la faccio”, e quindi non procedere all’acquisto.

Le credenze sul controllo sono assolutamente diverse dal reale controllo che l’individuo possiede. Il controllo comportamentale reale si riferisce alle reali abilità, capacità e strumenti e altri prerequisiti posseduti, necessari per produrre un certo risultato o azione. Il controllo percepito si basa invece sulle credenze, su ipotesi, e non su una verifica svolta nella realtà.

Nella negoziazione, i meccanismi sono gli stessi. Solo che al posto del prodotto la controparte analizzerà la proposta o soluzione (o le diverse proposte).

Per esempio, se due parti in guerra stanno trattando un armistizio, la proposta dello stesso verrà analizzata dalla controparte in:

  • termini di atteggiamenti (cosa rappresenta per me un armistizio, una resa o un successo?),
  • termini di aspettative altrui (i generali, i politici e la popolazione si aspettano un armistizio o saranno contrari?),
  • controllo situazionale (sarò in grado di farlo rispettare o mi aspetto che anche firmando vi siano fazioni che non lo rispetteranno?).

Tutti questi elementi possono essere oggetto di analisi e di negoziazione.

La capacità di vendere “sicurezza”

La Teoria del Comportamento Pianificato è in grado di spiegare numerose scelte del consumatore. I campi di applicazione di questo modello comportamentale sono vasti, e spaziano dal marketing finanziario al marketing turistico, dai comportamenti di consumo individuale agli acquisti aziendali. Ad esempio, nel marketing sportivo diverse ricerche evidenziano che la scelta di uno sport si basa spesso su percezioni errate di ciò che si è o meno in grado di fare.

La credenza “non ce la posso fare” caratterizza anche gli aspetti finanziari di molti acquisti.

Tra le cause che possono (1) bloccare o (2) fornire un “lasciapassare” all’acquisto, si inserisce un importante elemento del control belief: la percezione di poter finanziare l’investimento, di essere o non essere economicamente all’altezza della spesa. 

Esistono infatti acquisti o investimenti aziendali che (a) sono personalmente ritenuti utili (= atteggiamento positivo), (b) non trovano barriere all’acquisto da parte dei gruppi di riferimento (= lasciapassare normativo), ma (c) sono percepite come troppo onerose in relazione alle disponibilità personali o aziendali (= blocco sul senso di controllo dell’investimento).

Nel metodo ALM è necessario porre attenzione sia ai dati oggettivi (es: il fatturato aziendale, la disponibilità economica misurabile) che al sistema di credenze dell’individuo. 

I blocchi d’acquisto non partono solo da reali condizioni finanziarie o da vera indisponibilità ma anche da barriere mentali.

La percezione di non poter finanziare un investimento deriva spesso, nella nostra esperienza, da una errata allocazione dei budget mentali: casi in cui le risorse finanziarie esistono, ma sono mal distribuite. Si investono denari in aspetti aziendali irrilevanti e non dove conta.

In questi casi alcuni budget di spesa improduttivi sono sovrafinanziati, mentre nuove possibilità di investimento, più produttive, non hanno ancora trovato “canali mentali” aperti nel cliente[5]

Il caso tipico è dato dalla carenza di budget per la formazione. La formazione aziendale, se ben condotta, produce in realtà un ROI (Return on Investment) molto elevato, rispetto a spese in investimenti materiali che rimangono spesso inutilizzati. 

Il venditore consulenziale dovrà quindi sapersi muovere su diversi fronti:

  • Aiutare il cliente a dirottare budget mentali da spese improduttive a nuove forme di investimento più produttivo. Il lavoro sui budget mentali implica un processo consulenziale e pedagogico sul modo di gestire le risorse del cliente, un’attività di che richiede grande professionalità.
  • Saper gestire la dilazione nel tempo dell’investimento (es: rateizzazione).
  • Saper suggerire soluzioni di finanziamento dell’investimento tramite fonti diverse (da fonti pubbliche, quali i finanziamenti agevolati, a fonti private di credito).
  • Saper creare messaggi e comunicazione centrata sul ritorno dell’investimento (creare credenze positive su come l’investimento metterà il soggetto in grado di produrre più utile e fatturato, e quindi di ripagare abbondantemente la spesa). 

Il supporto professionale del venditore/consulente consiste quindi nel creare maggiore percezione di controllo sulla finanziabilità, sulla fattibilità e ritorno dell’investimento (messaggio: “anche tu puoi farlo”, e “si ripagherà abbondantemente”) e anche nel dirottare risorse da budget improduttivi ad altri budget (consulenza sui budget mentali).

Il consulente d’acquisto che agisce sui control beliefs si trova quindi ad agire non solo come consulente “di risultato” (cosa otterrai dall’investimento) ma anche come consulente sul metodo di finanziamento, là dove esistono barriere mentali dovute a credenze errate da parte del cliente sul fatto che l’investimento non sia alla sua portata o non finanziabile.

Il consulente che intende agire sui control beliefs deve creare una relazione di aiuto nei riguardi del cliente, relativa al come implementare la soluzione. Questo significa accompagnare il cliente nel processo di cambiamento

Ad esempio, una soluzione informatica costosa, ma gradita e produttiva, può trovare barriere dovute ai control beliefs quando il cliente pensa di non essere in grado di gestire la transizione al nuovo sistema informatico (difficoltà di migrazione). 

Il consulente che offra un servizio di formazione, accompagnamento, tutoraggio e coaching nella transizione/migrazione al nuovo sistema informatico rimuoverà in questo modo diverse barriere legate alla percezione “non ce la posso fare”, che caratterizza i control beliefs negativi. 

Questo significa vendere qualcosa di ben superiore al prodotto/servizio: la capacità di “vendere sicurezza”.


[1] Vedi Ajzen, Icek (1991). The theory of planned behavior. In: Organizational Behavior and Human Decision Processes, 50, 179-211.

[2] Performare (to perform) è il verbo utilizzato dagli autori della TPB, e questo esprime il senso più profondo della sensazione di capacità nel fornire una prestazione.

[3] Fonte: Ricerche dell’autore (in corso) sulle relazioni tra sistemi energetici e prestazioni comunicative, metodo HPM. Per ottenere informazioni sullo stato di avanzamento e prossime pubblicazioni inerenti il tema, visitare www.studiotrevisani.it

[4] Per un approfondimento sulle teorie dei budget mentali, vedi capitolo 8 (“Budget Mentali e psicologia economica”) nel volume di Trevisani, Daniele (2001), Psicologia di Marketing e Comunicazione. Milano, FrancoAngeli,

Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Action Lines

Il concetto di Action Line è equiparabile alla “linea di azione”, la tattica, la ricerca della “mossa giusta”, della sequenza di mosse azzeccate, così come nell’analisi delle possibili “mosse sbagliate”.

Come concetto, è applicabile in diverse modalità:

  • fare action line significa preparasi ad un incontro ed esplorare le possibili opzioni comportamentali da applicare, soprattutto tramite role-playing,
  • significa analizzare le possibili reazioni che possono avere gli interlocutori (modello Se-Allora, If- Then),
  • significa demolire le tattiche dell’interlocutore prima ancora che esse avvengano.

Dobbiamo distinguere (1) le action line di preparazione agli incontri, e (2) le action line dell’istante, le singole mosse che accadono durante le interazioni reali.

Come una strategia dell’istante, o tattica comportamentale, la action line richiede sia base teorica che capacità di adattamento rapido. 

La linea di azione esprime il senso tattico delle mosse comportamentali e comunicative che vengono condotte da un attore per avvicinarsi al proprio obiettivo.

Il tema di fondo delle action line è la capacità di essere flessibili e adattare le proprie skills alle variazioni situazionali anche istantanee (strategia dell’istante: cosa faccio ora).

Le scuole di vendita e negoziazione rigide prescrivono generalmente comportamenti standard e formule da apprendere, mentre il metodo delle Action Line focalizza il valore dell’ascolto, delle tecniche conversazionali e della capacità di essere se stessi, “vivi” e non ripetitivi nell’applicarle. 

Nel teatro, soprattutto nel metodo Stanislavskij, troviamo la stessa impostazione:

Una delle cose che colpisce di più studiando Stanislavskij e il suo “metodo” è la coscienza che egli aveva dei pericoli di ogni cristallizzazione, di ogni irrigidimento teorico. Stanislavskij aveva troppa pratica viva del teatro per non accorgersi che è proprio l’irrigidimento, il fermarsi alle “ricette” facilmente riproducibili e immediatamente trasformabili in “luoghi comuni”, a costituire uno dei maggiori pericoli per chi fa pratica teatrale[1].

Marketing e Action Line

Applicare il marketing strategico alla vendita significa soprattutto:

  • capire come adeguare i prodotti ai cambiamenti di mercato, 
  • come trasmettere identità e senso della missione, 
  • quali strategie di segmentazione e posizionamento adottare, 
  • quali strategie pubblicitarie e di direct-marketing, 
  • come costruire la rete di vendita, le politiche distributive
  • quali politiche di prezzo adottare. 

A queste attività vengono dedicate ampie risorse e tempo. 

Tutto questo investimento, tuttavia, può essere distrutto da negoziazioni sbagliate. 

Nelle aziende, la preparazione alla negoziazione risulta ampiamente sottovalutata. Si presta grande attenzione ai budget pubblicitari ma poi si trascurano i micro-comportamenti nei riguardi del cliente, fatti di singole azioni, incontri, telefonate, frasi e corrispondenza. 

La storia del comportamento tenuto dall’azienda nei riguardi del cliente nasce dall’impatto delle micro-comunicazioni e forma quella “Customer Experience” così importante per creare fidelizzazione.

Cerchiamo quindi di dare corpo – nella negoziazione – a tale approccio di attenzione ai dettagli, definendo una terminologia che ci permetta di affrontare tecnicamente l’argomento.

Ciascuna storia individuale del rapporto tra organizzazione e cliente è suddivisibile in Steps, ovvero fasi temporali successive durante le quali si articola il rapporto. L’insieme dei passi attuati costituisce un percorso della linea di azione (Path).

L’insieme degli Steps la cui responsabilità ricade sull’impresa è definibile come linea di azione – Action Line.

Essa ci pone il problema della scelta tra alternative e corsi d’azione diverse,  in quanto è sempre possibile attuare altre tipologie di step, producendo esiti diversi (maggiormente negativi o maggiormente positivi). 

Principio 3 – Definizione ottimale degli steps nelle action line

Il successo della negoziazione dipende:

  • dalla capacità di pensare a quali sequenze di azioni (steps) siano ottimali per rapportarsi al cliente, partendo dalla volontà iniziale sino all’esito finale;
  • dalla capacità di creare percorsi di azione (path) soppesati in termini di probabilità di successo e insuccesso;
  • dalla capacità di valutare quali punti di rottura, trappole o fallimenti siano possibili nella linea di azione seguita.

Dall’analisi delle Action Lines che hanno avuto esito negativo è possibile ricavare preziosi elementi per evitare futuri errori e per correggere le proprie strategie (lessons learned: lezioni apprese).

L’analisi delle Action Lines già accadute permette di rivedere la propria impostazione sul mercato in termini di comportamenti quotidiani. 

Nell’analisi degli eventi negativi (critical incidents negativi) è possibile determinare in quale punto esattamente si sia verificato il Breakdown, o dove sia localizzata la trappola relazionale (Trap).

E’ possibile identificare le eventuali azioni di recupero (Recovery) in caso di fallimento della linea di azione, valutando la loro fattibilità e la loro convenienza.

Lo stesso tipo di analisi è possibile anche sulle Action Lines che hanno avuto esiti positivi (critical incidents positivi). 

In caso di esito negoziale positivo, il metodo ALM prevede il ricorso ad una analisi degli atteggiamenti positivi, piuttosto che alla riproposizione esatta dei comportamenti in altre sedi. 

Dobbiamo qui differenziare tra atteggiamenti positivi e comportamenti positivi. Non è possibile generalizzare sempre i comportamenti di successo al fine di riproporli in altre situazioni, in quanto – in realtà – esistono sfumature diverse in ogni tipo di rapporto tra persone e tra imprese. Gli atteggiamenti positivi invece hanno maggiore possibilità di essere generalizzati.

Principio 4 – Rivisitazione critica delle Action Lines passate, analisi dei critical incidents positivi e negativi e costruzione delle best-practices

Il successo della negoziazione dipende:

  • dalla capacità di riflettere sui casi positivi (critical incidents positivi) e trarre da essi prassi da replicare (best practices), analizzando gli atteggiamenti e steps attuati e i motivi del successo;
  • dalla capacità di riflettere sui casi negativi (critical incidents negativi) e trarre da essi insegnamenti sui possibili errori strategici, modi di approccio, e motivi dell’insuccesso;
  • dalla capacità di trasformare le analisi sul passato in conoscenza operativa per il futuro.

Nel metodo ALM, come già sostenuto, più che regolette semplici è necessario dedicare tempo ed energie alla riflessione sui casi di successo e insuccesso, estrapolandone una teoria basata sulla realtà dei fatti.

La decostruzione e ricostruzione del passato è fondamentale per attivare una crescita personale, poiché spesso il flusso di esperienza (flow of experience) sovrasta l’individuo, porta le persone a vivere istante dopo istante in un turbine lavorativo e non fermarsi ad analizzare quanto accade. 

Le analisi retrospettive di maggiore efficacia richiedono la presenza di un counselor o coach e devono comunque essere svolte, almeno, con un confronto tra colleghi preparati a farlo, per poter confrontare opinioni e posizioni e non realizzare analisi da un unico punto di vista.

La sola voce interiore non basta, per crescere è indispensabile il confronto.

Una distinzione necessaria nelle Action Lines è quella tra linea di azione (LDA) acquisitiva, che opera sul cliente potenziale già identificato (prospect) e LDA fidelizzativa sul cliente già acquisito.

La LDA sul prospect si pone il problema di come giungere alla acquisizione del cliente attraverso passi di contatto iniziale, contatti pre-negoziali e contatti negoziali, sino alla conclusione o chiusura.

La LDA sul cliente già acquisito riguarda invece il problema della Retention, ovvero della fidelizzazione del cliente, riducendo il rischio di perdita del cliente da attacchi della concorrenza e errori interni.

Dall’approccio negoziale classico all’approccio negoziale ALM

L’approccio negoziale classico vede in genere un elevato grado di strutturazione. All’interno di questo approccio, molti suggerimenti risultano certamente utili, ma non è possibile – nel metodo ALM – utilizzare strutture negoziali rigide. 

Tra gli approcci classici citiamo ad esempio Al Najjari e D’Ambros (2004), i quali invitano i negoziatori internazionali a considerare la negoziazione come un processo diviso in fasi :

  • La fase pre-negoziale : le parti si preparano all’incontro.
  • La fase di costruzione delle relazioni : questa fase varia grandemente a seconda dell’appartenenza culturale di ciascun incaricato alle trattative.
  • La fase di scambio delle informazioni : le parti decidono quali sono le informazioni da mettere sul tavolo del negoziato, e quali invece sono quelle da tenere nascoste, magari per essere utilizzate come merce di scambio in un momento successivo.[2].
  • La fase di trattativa vera e propria : in questa fase lo stile negoziale di ciascuno emerge prepotentemente. Possiamo avere di fronte due tipi di interlocutori: la persona aggressiva, che cercherà in ogni modo di forzare la controparte a modificare le proprie posizioni, ed il soggetto accomodante, il quale tenterà di individuare uno o più punti di interesse comune per utilizzarli come base per una trattativa.[3].
  • La fase delle reciproche concessioni : questa è la fase in cui le parti devono, reciprocamente, scambiarsi concessioni e smussare gli inevitabili spigoli esistenti tra le contrapposte loro esigenze.

In questo modello classico di negoziazione notiamo una struttura preconfezionata, non necessariamente da gettare, e ricca anche di spunti interessanti. 

Ciò che preme sottolineare – come punto di divergenza – è che nell’approccio ALM le linee di azione strategica possono essere variate e non necessariamente passeremo alla fase delle reciproche concessioni, anzi, questa fase potrebbe trasformarsi in una fase di cross-selling o di aumento del prezzo, e non di discesa del prezzo. 

Ogni negoziazione, nel metodo ALM, richiede un approccio unico.

Gli approcci negoziali classici evidenziano una esigenza di standardizzazione, come emerge chiaramente dalla visione di Najjari e D’Ambros (2004):

È stato dimostrato che una strategia pianificata aumenta decisamene le possibilità di successo, specialmente nei casi di negoziazione cooperativa: recarsi ad un incontro avendo come unica strategia la logica del «caso per caso» non è un comportamento efficace. In particolare, nel momento in cui si determinano gli obiettivi strategici della trattativa, è necessario aver ben chiaro qual è la bottom line dell’azienda rispetto alla trattativa stessa, ossia quali sono le condizioni al di sotto delle quali è più conveniente non concludere alcun accordo.”

Nel metodo ALM, al contrario, si esprime una esigenza di destrutturazione e di diversificazione (pur rispettando alcuni principi base o bottom-line): la negoziazione viene vista come una relazione sempre unica, da condurre caso per caso.

Non è possibile standardizzare nulla che non si conosca, l’unico elemento standardizzabile è la pratica la volontà di essere consulenziale.

Questo richiede la ricerca di una linea tattica originale, spesso irripetibile, non irregimentabile, così come uniche, irripetibili e non standardizzabili sono le situazioni contingenti, le culture aziendali dei clienti e i casi di negoziazione della vita reale.

Il metodo ALM invita i negoziatori ad identificare Action Lines prototipiche (prototipi o modelli negoziali) di probabile efficacia in una certa cultura (americana, latina, cinese, etc), o in una certa azienda, senza mai assumere la certezza che quella linea funzionerà, e senza mai dare per certo che la reazione dell’interlocutore sarà esattamente quella prevista

La varianza intra-culturale è oggi almeno pari a quella inter-culturale, così possiamo trovare un cinese più orientato al business di un americano, uno svedese più “caldo” dei latini, nulla è da dare per scontato.

Il metodo ALM richiede ampie dosi di studio e di leadership conversazionale. Possiamo cercare – e riuscire nella pratica – a spostare il tono della negoziazione da uno stile rigido e anaffettivo, ad uno stile più intriso di emozioni. Il negoziatore assertivo ha il potere di fare questo se conosce le giuste tecniche di leadership conversazionale.

Il vero problema che il negoziatore deve tenere a mente è il concetto di Value Mix o consapevolezza del valore che egli è in grado di trasferire.

Il Value Mix e la sequenza ALM per il negoziatore aziendale

Qualsiasi negoziatore aziendale efficace deve essere consapevole della propria mission, del valore che egli può apportare alla controparte e dei motivi unici per cui la controparte può aver bisogno esattamente di lui o lei e non di altri.

La consapevolezza del negoziatore deve riguardare tutti i tre punti principali che precedono la negoziazione (Scenari, Mission, Marketing Mix e Value Mix). 

I punti a valle della sequenza (Action Line e Front Line) comprendono l’atto del prepararsi a negoziare (Action Line) e del negoziare reale (Front-Line).

Sequenza base del metodo ALM

  1. Scenari
  2. Mission
  3. Mktg MixValue Mix
  4. Action Line
  5. Front Line

Ripetiamo le consapevolezze primarie del negoziatore rispetto ai 5 punti critici:

  • Consapevolezze di scenario: quali scenari vive la propria azienda, ad esempio, cosa accade nella distribuzione, nella ricerca, nella concorrenza, cosa accade a livello legale, tecnologico, e ad ogni altro livello che sia in grado di modificare l’ambiente in cui l’azienda opera. Sapere in quali scenari ci si muove è indispensabile per essere consapevoli della mission, in quanto la mission aziendale (come risposta ad un bisogno di mercato) si inserisce sempre in una dinamica innescata da scenari di bisogno sul mercato stesso.
  • Consapevolezza della mission e dei confini della mission: sapere quale mission ha, realmente, l’azienda per cui si opera, cosa si fa e perché, cosa non si fa e per quali motivi. Per mission si intende nel metodo ALM il senso di esistere dell’azienda, i tipi di relazione d’aiuto che l’azienda può attivare e per chi, i bisogni che può risolvere, e la sua differenzialità, distintività o unicità rispetto alle altre aziende che aspirano anch’esse a servire quei mercati.
  • Consapevolezza del valore erogabile: come l’azienda concretizza la mission in valore reale attraverso un marketing mix reale, fatto di prodotti/servizi concreti, di prezzi e listini prezzi, di condizioni di fornitura e distribuzione, di strategie promozionali e di informazione. Tutte le leve del marketing mix, nel metodo ALM, devono essere viste come apportatrici di valore. Non si parla più quindi semplicemente di marketing mix ma di value mix come patrimonio del negoziatore.

Il negoziatore deve essere consapevole di tutte le argomentazioni che può usare (consapevolezza della to-say-list) collegate agli scenari, alla mission e al value mix, e del momento in cui usarle. 

Allo stesso tempo, la consapevolezza deve riguardare la not-to-say list, l’elenco delle frasi o affermazioni che possono uccidere il valore percepito da parte della controparte.

Principio 5 – Consapevolezza della sequenza ALM e degli argomentari negoziali

Il successo della negoziazione dipende:

  • dalla consapevolezza degli scenari in cui opera l’azienda e di quelli in cui opera la controparte negoziale;
  • dalla consapevolezza dei fattori di “collimazione” tra catene del valore, che possono portare le due mission aziendali a cooperare ed interagire;
  • dalla capacità di gestire il posizionamento percettivo in termini di unicità, distintività e differenzialità rispetto agli altri soggetti in grado di servire il cliente;
  • dalla capacità di tradurre lo stato di unicità o distintività in specifiche to-say-list e not-to-say list, argomentabili e realmente difendibili.

[1] Failla, 2005.

[2]Al Najjari, Najdat e D’Ambros, Denise (2004), Tecniche e tattiche nella negoziazione internazionale: come impostare una strategia vincente. In: PMI n. 9/2004..

[3] Ibidem.

Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

I livelli delle domande: domande interiori e domande esterne

La fase di analisi ed ascolto richiede il ricorso a:

  • domande aperte,
  • domande chiuse,
  • domande di precisazione,
  • riformulazioni e verifiche di comprensione,
  • riepiloghi, sommari,
  • rispecchiamento dei contenuti.

Le domande devono essere poste solo dopo che si sia creato lo spazio psicologico per farle, chiedendo il permesso al cliente di porgli alcune domande che servono per poter realizzare proposte sensate.

Durante la fase di analisi è essenziale il ricorso alla carta e penna per prendere appunti, sotto forma di parole chiave, ed un precedente allentamento alle tecniche di memorizzazione, intervista e Analisi della Conversazione (Conversation Analysis, CA).

Tutti noi abbiamo curiosità e dubbi, che però raramente esprimiamo. 

A volte non lo facciamo per pudore (quante volte fai sesso in un mese? = invasione dello spazio psicologico altrui), altre volte per titubanza strategica (vorrei chiedergli quanto sono disposti a pagare ma non lo faccio per timore che mi dicano una bugia sulla quale poi non saprei come argomentare), e per tante altre ragioni.

Un’operazione fondamentale è distinguere tra:

  • domanda interiore: la domanda reale che ci stiamo ponendo e a cui vorremmo risposta (es: quanti soldi avete a disposizione?), quello che vorremmo davvero sapere, quello che abbiamo bisogno di sapere, i bisogni informativi di base
  • domanda esteriore: la domanda che è adeguata e consentita ad un certo stato di relazione, in base al grado di familiarità con il soggetto, di trasparenza comunicativa, di tempo disponibile (es: avete già fissato un budget per questa iniziativa?), le mosse conversazionali che poniamo in essere, i modi con i quali arriviamo ad ottenere quelle informazioni.

Ogni mancata informazione è un rischio

Ogni volta che il decisore non dispone di informazioni si apre un rischio.

Ogni mancata informazione è un rischio potenziale. 

Si richiede pertanto il il ricorso a domande mirate:

domande latenti – fabbisogno informativo – cui è necessario dare risposte e rischi correlati al non sapere le risposte.

Il management scientifico non può permettersi soglie di rischio irragionevoli. Questo non vuol dire chiudersi in una roccaforte, o non accettare una componente di rischio imprenditoriale e di vendita, ma capire in quale terreno ci stiamo muovendo, cioè muoversi con consapevolezza.

Empatia e tecniche di ascolto empatico

L’ascolto è una delle abilità più critiche della negoziazione e della vendita. Lo stereotipo classico del venditore intento a “parlare sull’altro”, a “vincere nella conversazione”, ad avere sempre l’ultima parola, è sbagliato.

L’approccio empatico prevede una concezione opposta: ascoltare in profondità per capire la mappa mentale del nostro interlocutore, il suo sistema di credenze (belief system), e trovare gli spazi psicologici per l’inserimento di una proposta.

Nel metodo ALM distinguiamo alcuni tipi principali di empatia, in base agli angoli di osservazione:

  • Empatia comportamentale: capire i comportamenti e le loro cause, capire il perché del comportamento e le catene di comportamenti correlati.
  • Empatia emozionale: riuscire a percepire le emozioni vissute dagli altri, capire che emozioni prova il soggetto (quale emozione è in circolo), di quale intensità, quali mix emozionali vive l’interlocutore, come le emozioni si associano a persone, oggetti, fatti, situazioni interne o esterne che l’altro vive.
  • Empatia relazionale: capire la mappa delle relazioni del soggetto e le sue valenze affettive, capire con chi il soggetto si rapporta volontariamente o per obbligo, con chi deve rapportarsi per decidere, lavorare o vivere, quale è la sua mappa degli “altri significativi”, dei  referenti, degli interlocutori, degli “altri rilevanti” e influenzatori che incidono sulle sue decisioni, con chi va d’accordo e chi no, chi incide sulla sua vita professionale (e in alcuni casi personale).
  • Empatia cognitiva (o dei prototipi cognitivi): capire i prototipi cognitivi attivi in un dato momento del tempo, le credenze, i valori, le ideologie, le strutture mentali che il soggetto possiede e a cui si ancora.

Elementi positivi e distruttivi dell’empatia

L’empatia viene distrutta o favorita da specifici comportamenti comunicativi e atteggiamenti.

Favorisce l’empatiaDistrugge l’empatia
CuriositàDisinteresse
Partecipazione reale all’ascolto, non finzioneFingere un ruolo di ascolto solo per dovere professionale
Riformulazione dei contenutiGiudizio sui contenuti, commenti
Pluralità di approcci di domanda (domande aperte, chiuse, di precisazione, di focalizzazione, di generalizzazione)Monotonia nel tipo di domande
Centratura sul vissuto emotivoCentratura esclusiva sui fatti
Segnali non verbali di attenzioneBody Langage che esprime disinteresse o noia
Segnali paralinguistici di attenzione, incoraggiamento ad esprimersi, segnali “fàtici” (segnali che esprimono il fatto di essere presenti e attenti)Scarsa dimostrazione di interesse e attenzione al flusso di pensieroAssenza o scarsità di segnali “fàtici” e di contatto mentale

La comunicazione d’ascolto e la qualità dell’ascolto, comprendono la necessità di separare nettamente le attività di comprensione (comunicazione in ingresso) dalle attività di espressione diretta (comunicazione in uscita).

Regole per un ascolto di qualità

Durante le fasi di ascolto è necessario:

  • non interrompere l’altro;
  • non giudicarlo prematuramente;
  • non esprimere giudizi che possano bloccare il flusso espressivo altrui;
  • non distrarsi, non pensare ad altro, non fare altre attività mentre si ascolta (tranne prendere eventuali appunti), usare il pensiero per ascoltare, non vagare;
  • non correggere l’altro mentre afferma, anche quando non si è d’accordo, rimanere in ascolto;
  • non cercare di sopraffarlo;
  • non cercare di dominarlo;
  • non cercare di insegnargli o impartire verità, trattenere la tentazione di immettersi nel flusso espressivo per correggere qualcosa che non si ritiene corretto;
  • non parlare di sè;
  • testimoniare interesse e partecipazione attraverso i segnali verbali e il linguaggio del corpo;

Di particolare interesse risultano gli atteggiamenti di:

  • interesse genuino e curiosità verso la controparte: il desiderio di conoscere ed esplorare la mente di un’altra persona, attivare la curiosità umana e professionale;
  • silenzio interiore: creare uno stato di quiete emozionale (liberarsi da emozioni negative e pregiudizi) per ascoltare l’altro e rispettarne i ritmi.

Differenza tra empatia e simpatia: applicare l’empatia e non la simpatia

Empatia e simpatia non sono sinonimi

Empatia significa capire (es: capire perché un cliente posticipa un acquisto o vuole un prodotto di basso prezzo, o ci parla di un certo problema). 

Simpatia significa invece apprezzare, condividere, essere daccordo. 

La vendita richiede l’applicazione dell’empatia e non necessariamente della simpatia.

L’ascolto attivo e l’empatia non vanno confuse con l’accettazione dei contenuti altrui o dei loro valori. 

Le regole di ascolto attivo non sono regole di accettazione del contenuto, ma metodi che permettono di far fluire il pensiero altrui più liberamente possibile per ricavarne apertura e informazioni utili.

La fase di giudizio interiore su quanto ascoltiamo, inevitabile durante la negoziazione, deve essere “relegata” alla nostra elaborazione interna, tenuta per fasi successive della contrattazione, e non deve interferire con la fase di ascolto.

Quando il nostro scopo è ascoltare dobbiamo ascoltare.

Per farlo dovremo:

  • sospendere il giudizio,
  • dare segnali di assenso (segnali di contatto, segnali fàtici),
  • cercare di rimanere connessi al flusso del discorso,
  • fare domande ogniqualvolta un aspetto ci sembra degno di approfondimento,
  • non anticipare (es: sono certo che lei…) e non fare affermazioni,
  • limitarsi a riformulare i punti chiave di quanto detto dall’altro,
  • non interrompere inopportunamente.

È necessario riservare il nostro giudizio o fare puntualizzazioni solo dopo avere ascoltato in profondità e all’interno di un frame negoziale adeguato.

L’obiettivo delle tecniche empatiche è quello di favorire il flusso del pensiero altrui, e di raccogliere quanto più possibile le “pepite informative” che l’interlocutore può donare. L’empatia, se ben applicata, produce “flusso empatico”, un flusso di dati, informazioni fattuali, sentimentali, esperienziali, di enorme utilità per il negoziatore.

Il comportamento contrario (giudicare, correggere, affermare, bloccare) spezza il flusso empatico, e rischia di arrestare prematuramente la raccolta di informazioni preziose. 

Esiste un momento nel quale il negoziatore deve arrestare il flusso del discorso altrui (momento di svolta, turning point) ma in generale è bene lasciarlo fluire, finche non si sia compreso realmente con chi si ha a che fare e quali sono i veri obiettivi, e tutte le altre informazioni necessarie.

Le tecniche empatiche sono inoltre d’aiuto per frenare la tendenza prematura alla disclosure informativa di sè: il dare informazioni, il lasciar trapelare dati inopportunamente o prematuramente su di noi. 

Dare al cliente informazioni e dati che potrebbero risultare controproducenti genera un effetto boomerang. Ogni informazione deve essere fornita con estrema cautela. 

L’atteggiamento empatico è estremamente utile per concentrare le energie mentali del negoziatore sull’ascolto dell’altro e frenare le nostre disclosure inopportune.


Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

Articolo a cura di: Cristina Turconi – Executive & Business Coach ICF | Formatrice Aziendale | Facilitatrice Lavoro di Gruppo | Master Trainer in HPM™ Human Potential Modeling | Consulente e Innovation Manager MISE 

“Se le porte della percezione fossero sgombrate, ogni cosa apparirebbe com’è, infinita”. 

William Blake

Questa la domanda che mi ha sempre frullato nella testa tutte le volte che sentivo parlare genericamente di “Training Mentale” fintanto che ne ho fatto esperienza attraverso la Programmazione Neuro-Associativa™.

Il lavoro della Programmazione Neuro-Associativa™ consiste nell’ancorare uno stato della mente di rilassamento o attivazione di emozioni positive ad uno stato esterno, un compito o task che vogliamo svolgere nello stato migliore possibile. 

Spesso durante un percorso di Coaching il cliente matura una consapevolezza che poi fatica a portare in azione, questo perché la nostra mente razionale vaglia in continuazione le nostre capacità fisiche, psicologiche, creative, culturali e professionali, così come i valori della cultura nella quale siamo inseriti, e li mette a confronto con i nostri desideri e aspirazioni, filtrando cosa sia possibile e cosa no.

Nelle esercitazioni con la Programmazione Neuro-Associativa™, la voce del Coach guida il cliente in uno stato alfagenico di completo rilassamento, portandolo a visualizzare la situazione target, a viverla a livello subconscio attenuando i filtri della mente razionale, lasciandola quindi più libera di esplorare i concetti connessi alle consapevolezze maturate nella sessione di coaching e facilitandone il viaggio verso il cambiamento desiderato.

Quello che accade è un meccanismo unico: è uno spalancarsi alla capacità di “sentire”, di percepire i singoli passi del percorso di cambiamento cogliendone le sensazioni positive; sentendone i profumi, i colori, il tatto, i suoni e le sensazioni interne che possono produrre, fino a toccare quella sorgente di consapevolezza, di libertà vera e propria che dona un senso più profondo a ogni singola azione.

Di seguito le mie annotazioni “a caldo” dopo l’esercizio:

Cosa ho sperimentato:

Sensazione di respirare liberamente. Stato di calma, imperturbabilità, assenza di turbamento interiore nel corpo. La mente come ferma, senza agitazione, non ci sono pensieri, sono solo il mio respiro. Sensazione di immersività in una dimensione che non ha dimensione. Visualizzazione molto vivida, colori accesi, precisione di alcuni dettagli. Osservo con pacatezza senza fretta. Non so se cammino o mi muovo lentamente o io sono ferma e il paesaggio intorno a me muta. Il posto è meraviglioso, quasi magico, sembra la foresta di avatar. Ci sono fiori, natura, colori, alberi, animali non presenti in natura e animali tipo lucciole. Sento il profumo dei fiori, riesco a percepirne la struttura vellutata anche se non li tocco. 

Continuo a camminare e tutto diventa sempre più bello. Toglie il fiato. 

La voce guida mi accarezza lungo tutto il percorso, come il sussurro del vento. Mi sento sicura, protetta e guidata ma è qualcosa che nasce da dentro di me, non dipende dalla voce. La voce forse è solo un eco antico di ciò che già so. È un’essenza più profonda che parla da dentro di me molto più vicina a chi sono davvero. La sacralità di questa passeggiata mi commuove. Sento il calore dentro al corpo. Sento il mio campo del cuore allargarsi e abbracciare tutta la rigogliosità e abbondanza della natura che mi circonda e mi avvolge. Non so se sia beatitudine, non riesco a dare un nome alla sensazione che provo, penso che tentare di darle un nome ne sminuirebbe l’intensità e il valore perché non si può descrivere ma solo provare. Le lacrime mi inumidiscono gli occhi. Sento un profondo grazie salirmi da dentro. Corde profonde sono toccate, e risuonano dentro di me. Non c’è più ansia, turbolenza o agitazione. Non c’è bisogno di muoversi da nessuna parte semplicemente basta vagabondare tra un fiore e l’altro e coglierne ciò che arriva gustandolo totalmente nel qui e ora. Sono qui e faccio per il piacere di fare. Non ci sono risultati da perseguire, non ci sono aspettative, è il cammino che mi chiama e si manifesta davanti a me ad ogni passo e io posso solo fare ciò che è giusto, perché voglio, perché posso farlo, perché sperimento facendo e divento sperimentando. Non c’è più un essere, un fare, un avere, c’è solo uno stare. I dettagli mi colpiscono gli occhi. Sono quasi lucenti.

C’è solo bellezza, perfezione, conoscenza e amore qui. E io mi immergo. Riesco a respirarci dentro. Non voglio uscire. E poi la voce mi dice che posso portare benessere, pace e amore nel fare coaching, nel chiamare i clienti, nello stare in aula. Mi colpisce. Non ci sono più attese o aspettative ma solo un diventare attraverso l’esprimere chi voglio essere mentre faccio quello che amo fare. È una prospettiva che non ho considerato mai prima. È un concetto che scardina. Sono richiamata ad uscire. Faccio fatica a staccarmi e a ritornare nello stato vigile. 

Riflessioni emerse:

C’è un modo diverso di vivere la mia professionalità, il mio lavoro, la mia quotidianità più orientata allo studio, alla ricerca o a un fare libero dall’ansia, dalle aspettative mie e di come gli altri vorrebbero che io fossi. Non è un vivere con pazienza ma un fare e uno stare mentalmente libero da ogni sforzo. Perché in quel fare c’è il gustare la perfezione e la possibilità di sperimentare chi sono. Solo operando da quello stato della magica foresta di Avatar mi sento a casa e posso suonare la mia musica. Li posso assaporare e gustare il senso di questo mio passaggio terreno, dove i sensi diventano solo un canale, un mezzo, un amplificatore necessario a “fare esperienza” di tutta quella bellezza e perfezione. Liberando me stessa e operando da quello stato, non posso che lasciare una buona scia.

I fattori che hanno facilitato la sperimentazione profonda in questa esercitazione sono stati:

– il rapporto di fiducia instauratosi con il Coach (Dr. Daniele Trevisani)

– un luogo accogliente e sicuro

– la posizione comoda, sdraiata con la testa rialzata e gli occhi chiusi

– la musica rilassante di sottofondo

– l’uso sapiente della voce e l’utilizzo delle pause che mi hanno permesso di visualizzare e elaborare con i miei tempi 

– il sentire il conduttore sempre presente e in sintonia durante tutta la durata della sperimentazione.

Essere riuscita a “vivere” nell’esercitazione quel flusso emotivo positivo che dona piacere alle singole azioni è stata una spinta motivazionale potente che sta facendo la differenza nel mio agire quotidiano.

Per approfondimenti vedi:

Cristina Turconi
Executive & Business Coach ICF | Formatrice Aziendale | Facilitatrice Lavoro di Gruppo | Master Trainer in HPM™ Human Potential Modeling | Consulente e Innovation Manager MISE 

Sito Cristina Turconi – Sviluppo del Potenziale Individuale, dei Team e delle Imprese
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Parole chiave dell’articolo sulla Programmazione Neuro-Associativa™

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  • Rilassamento
  • Scienza delle performance
  • Stati alterati di coscienza
  • Stati della mente
  • Stati di coscienza
  • Stati di coscienza alterati
  • Stato della mente
  • Stato di coscienza
  • Valori
  • Valori intangibili

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Una vendita, tante psicologie

Chi si occupa di comunicazione da tempo e per lavoro, sa bene che le persone non acquistano solo oggetti, ma “comprano” idee, concetti, immagini mentali, simbologie da esibire. Comprano per far contento qualcuno in azienda, o per conquistare un credito relazionale.

A volte comprano quello che non gli serve. A volte non comprano ciò che gli servirebbe davvero. Ma dietro ad ogni scelta, per quanto primitiva e irrazionale, si nasconde una logica, che una mente da analista può scoprire.

La Consumer Research (scienza del comportamento di consumo), in alcuni dei suoi esponenti di punta, primo di tutti il Semiologo David Mick, ha analizzato le connessioni tra i significati che attribuiamo ai prodotti e le nostre scelte di acquisto[1]. L’esito fondamentale di una grande mole di ricerche è il valore di “auto-regalo” che i prodotti assumono (self-gifting), una “carezza psicologica” che le persone si fanno concedendosi un certo prodotto, o un certo marchio, e il valore di “simbolico” che connette larga parte degli acquisti: l’acquisto come dimostrazione di potere, o di status, di differenziazione da… o di appartenenza ad un gruppo.

La Psicologia Semiotica del Marketing si occupa di comprendere le connessioni tra “segni” esterni (es. un marchio), significati esistenziali (cosa significa per me quel marchio o simbolo), e comportamenti di acquisto.

È attenta quindi ai simbolismi che le persone associano a un prodotto o un comportamento di acquisto, quali sono i segni e segnali ai quali un cliente presta attenzione, e che valore hanno per lui.

status

Senza l’analisi semiotica non potremmo mai afferrare, ad esempio, il legame ancestrale che lega moto e motociclista (la moto come mezzo di libertà), e lo vedremmo solo come mezzo di trasporto. Se entriamo nell’analisi di uno specifico marchio – perderemmo di vista il significato di ribellione, potenza e voglia di trasgressione (e tanti altri simbolismi) che un motociclista appassionato associa alla sua Harley Davidson.

Altri studi analizzano il valore dimostrativo o esibitivo che hanno i comportamenti specifici di acquisto, come il recarsi in un casinò a giocare o il gioco d’azzardo, i tanti “perché nascosti, dimostrativi e auto-dimostrativi” che conducono una persona a farlo[2]. Questi studi esaminano soprattutto i bisogni profondi cui risponde questo atto, nonostante si tratti di un comportamento che esce di ogni logica apparente. 

Sempre in campo semiotico, si producono analisi interessantissime, quali quelle sulle “costellazioni di consumo”: i “raggruppamenti” nei quali troviamo mescolati marchi, prodotti, tipologie di persone e strati sociali. Uno studio di Chaplin e Lowrey[3] dimostra che i bambini e ragazzi sono in grado di distinguere con precisione queste “costellazioni”, e compiono scelte di acquisto correlate, hanno “fiuto” per il mondo sociale che li circonda, come emerge da questa intervista fatta dai ricercatori:

Il mio vicino di casa, . . . è così “Crunchie” . . .hai presente… vegetariano, ambientalista, superintelligente… ma così svaccato.. si mette le Birkenstocks, guida una Prius, mangia solo cibi organici… ci scommetto che lava i panni con il detersivo Seventh Generation. . . l’”Accarezza Alberi”… non so se mi spiego… “ [ride]. 

(ragazza 12enne intervistata nello studio di Chaplin e Lowrey, 2010)

Una costellazione di consumo è definita come un gruppo di “prodotti complementari, specifici marchi, e/o attività di consumo utilizzate per costruire, dare significato o assumere uno specifico ruolo sociale” (Englis & Solomon)[4].

I motivi di un acquisto possono essere tanti, ma tutti portano verso il bisogno di comprensione del lato psicologico del cliente, dei comportamento di acquisto, e della correlazione con la strategia di vendita.

Un cerchio giallo all’orecchio, con sopra “qualcosa che luccica” può avere valore di “gioiello” solo se chi lo indossa lo vede come tale, in caso contrario verrebbe trattato come un sovrappeso, qualcosa di inutile.

status symbol

I Semiologi del marketing hanno segnalato da tempo agli economisti un aspetto fondamentale per chi si occupa di vendita: il bisogno di concentrarsi sul “consumo di simboli”, sull’”acquisto di significati”, il meccanismo che porta una persona a volere non solo il prodotto quanto i simbolismi che quel prodotto porta con sé, per quanto irrazionali essi sembrino.

I premi Nobel Kahneman e Tversky[5] con i loro studi di psicologia economica, dimostrano come i processi decisionali umani non seguono sempre principi di razionalità, e gli umani non sono “consumatori razionali”.

A cosa affidarsi quindi? Ad alcuni valori ancestrali, come il valore della fiducia. Si diventa fornitori primari e si vende non solo per i prodotti che si possono mettere a disposizione ma anche per la capacità di generare fiducia.

La fiducia è un fatto molto personale, richiede attenzioni, sensibilità, avere un’immagine positiva alla quale non sia disdicevole accostarsi.

La distintività, su un mercato affollato di fornitori, arriva oggi dal creare relazioni che possono offrire valori aggiunti: certezza, garanzia di esserci, rassicurazione, problem solving, assumersi dei carichi che il cliente non riesce a gestire da solo o non vuole gestire.

fiducia

La Psicologia della Fiducia è un intero nuovo settore della psicologia aziendale che si occupa proprio di questo: come generare (non solo a livello esteriore, ma soprattutto nei fatti) un legame di fiducia forte tra azienda e cliente[6], un “filo rosso”, un senso di sicurezza che unisce il cliente all’azienda. 

Questo comprende la nostra capacità di generare certezze, e per il cliente sapere di poter contare su persone genuine, autentiche, credibili, esperte, preparate e serie, tenendo alla larga i tanti improvvisatori e disonesti.

Chi opera nelle vendite complesse diventa presto consapevole di quanto sia determinante trasferire al cliente un’immagine di identità chiara, forte, vendere chi siamo, far capire dove si colloca il nostro valore, e vendere soluzioni (Solutions Selling), far seguire alle promesse i fatti. 

I clienti non acquistano solo “pezzi” (es, una fornitura di PC) ma vogliono soddisfare dei bisogni psicologici e aziendali, es. velocizzare il lavoro o far sparire il “mal di denti” dei continui malfunzionamenti informatici che li assillano e gli impediscono di concentrarsi su quello che conta, sul loro lavoro. 

Per vendere soluzioni, dobbiamo essere abili nel capire i bisogni, il mondo dei problemi così come percepiti ora dal cliente. E non solo quelli evidenti, ma soprattutto quelli nascosti. Quelli che “non si dicono”. 

È difficile per chiunque, e soprattutto per un dirigente, un titolare d’azienda o un buyer, affermare o “confessare” di aver scelto in precedenza un fornitore sbagliato. 

Avviare il meccanismo della “confessione”, far si che un cliente si apra e “confessi” le proprie esigenze, è un risultato da vero professionista. Un risultato che richiede tempo e abilità.

confessione

È umanamente difficile confessare di aver fatto scelte di mercato che si sono rivelate errate nei fatti, o avere buchi organizzativi, personale demotivato o impreparato (con il rischio di emergere come leader poco abili), difettosità nei prodotti e lamentele dei clienti, e far trasparire i problemi reali che rischiano di dare di sé un immagine negativa. 

La paura di proiettare un’immagine di sé come manager inadeguato esiste, per cui le verità vengono nascoste. 

Ma verità rimangono. E di tali verità di tutti i giorni, nessuna azienda è completamente priva, nemmeno le migliori. 

Da queste condizioni di bisogno non dette partono i moventi di acquisto più forti. Anzi, proprio questi elementi di realtà sono i motori della vendita. 

I moventi d’acquisto si collegano a tensioni sottostanti, stati di discrepanza tra:

(1) come le cose sono, come vengono percepite ora,

(2) come il cliente le vorrebbe.

In altre parole, stati di “mancanza di omeostasi”, percezione di squilibrio, e desiderio di cambiare questi stati.

Per scoprirli, non sarà sufficiente fare domande aperte o contare sulla trasparenza, ma dovremmo arrivare alla verità con una strategia oculata, o una raccolta di informazioni da più fonti, e una forte abilità nelle tecniche di intervista e ascolto attivo.

È necessario coltivare l’abilità, nel venditore, di produrre un clima comunicazionale o “stato conversazionale” in cui si possa creare questa “confessione”, facendo emergere la verità anziché mascherarla. 

Solo così avremo capito come stanno veramente le cose.

Tuttavia, le aziende – come sa benissimo chi le abita –  pullulano di bugie, dette sia internamente sia all’esterno, per cui questa attività di scoperta delle verità è un gioco davvero duro, un gioco per professionisti.

Passare la barriera dell’immagine, delle menzogne, e la coltre di reciproche coperture, è un compito arduo, che richiede professionalità. 

Vendere in ambienti complessi è possibile solo dopo aver capito dove si situano i gap, le dissonanze, le vulnerabilità, il “non detto”, le molle psicologiche che possono far scattare un acquisto, nella intricata rete di decisori e influenzatori. Ed è un compito che richiede formazione.

Diventano essenziali quindi non soltanto i training per l’espressività (farsi capire, saper presentare con efficacia), ma soprattutto training che coltivano le doti di ascolto attivo, analisi tattica ed empatia strategica.

strategia

Tutto questo fa parte della sfera di competenza della psicologia strategica. 

La psicologia strategica è la scienza che si occupa di come generare risultati attraverso azioni comunicative e tattiche (e non, come nel caso della psicologia clinica, curare disturbi psicologici). 

La psicologia positiva è una branca delle scienze psicologiche che si occupa di come generare un atteggiamento positivo in sé stessi e nel gruppo, motivazione, voglia di vivere, capacità di analisi e costruzione attiva dei fattori che possono portare una persona a raggiungere risultati, stato di benessere interiore, e resilienza (capacità di apprendere dagli errori e rialzarsi dopo un insuccesso).

La vendita consulenziale non è un insieme di procedure, è un modo di essere analisti e strateghi che attinge a piene mani alla psicologia positiva e alla psicologia strategica. 

Il metodo cui stiamo lavorando unisce le tecniche della psicologia strategica e della psicologica positiva.

Lo scopo è sviluppare una mente da analista e un modo di essere “stratega positivo”: una persona che utilizza la strategia, compie analisi, apprende dagli errori, considera la sua attività come un grande laboratorio di ricerca, riesce ad immettere energie positive nel suo lavoro, ricavando gratificazione dal modo con cui lavora più che dalle aspettative altrui. 

Questo modo di essere si nutre della volontà di capire, di analizzare, di comprendere, anche e persino mentalità diverse, antitetiche, o distorte, strane mappe di potere, personalità razionali e personalità contorte, irrazionali, confusionarie, entrare in sistemi decisionali noti o invece immergersi in sistemi-cliente strambi, inusuali, dissonanti, senza farsi spaventare da questi, ma anzi accettandoli come “oggetto di ricerca” e sfida professionale.

Mettersi il “camice bianco” dell’analista è fondamentale per capire i sistemi-cliente e i varchi che si possono aprire per generare una vendita non solo sporadica, ma continuativa.

clima comunicazionale

La vendita consulenziale è un approccio psicodinamico alle tecniche di vendita, centrato sul concetto di empatia strategica e di counseling d’acquisto (consulenza verso i bisogni, analisi dei bisogni espressi ed inespressi).

Secondo il modello della scuola consulenziale di vendita, l’obiettivo di una vendita è di attivare una forte relazione empatica con il cliente, essere di aiuto verso i bisogni espressi, far emergere il lato inespresso, e far precedere alla vendita vera e propria un’importante fase di analisi, di ascolto attivo, di comprensione, attivando una “percezione aumentata” (Extended Cognition).

Queste capacità provengono dalla psicologia clinica, in particolare dalle tecniche del colloquio clinico, dell’intervista in profondità, dalla “terapia centrata sul cliente” di Carl Rogers, che utilizza gli strumenti fondamentali della riformulazione verbale ed emotiva, senza la quale non potremmo mai sapere se siamo “connessi” o distanti dal vissuto del cliente[7].

Nella vendita consulenziale Business to Business non può esistere conclusione di vendita senza analisi dei processi aziendali o psicologici che rendono  un certo prodotto – o soluzione –  importante. 

Perché qualcosa diventa importante? Perché ora? Perché non ieri? E come ha risolto il problema sinora il cliente? Quanto è soddisfatto? Che differenza esiste tra ciò che dice e ciò che sappiamo? O tra ciò che dice a voce e ciò che traspare dal suo volto o dall’osservazione della sua azienda? Tra quanto si è detto in riunione e quanto si sente dire nei corridoi?

Possiamo entrare in un livello di relazione tale da far “aprire” il cliente e tirar fuori i veri bisogni, anche quelli non detti?

Per farlo servono vere e proprie metodologie e tecnologie di analisi psicologica. Ad esempio, la Consulenza di Processo (Edgar Schein)[8] offre numerosi spunti, ma nessuna scuola in sé è sufficiente. Per affrontare il mondo delle vendite complesse dobbiamo entrare in un territorio di sperimentazione.

La vendita consulenziale non ha alcuna regola prefissata e rigida, non esistono concetti rapidi o giochi ipnotici, o altre scorciatoie comportamentali: esistono solo tante competenze da apprendere, provare sul campo, per poi ritornare ad apprendere, in una palestra professionale che è anche e soprattutto palestra di vita.

Dovremo sempre tenere alto il fronte della Psicologia Positiva, come nuova scienza che può aiutarci a trovare nuove vie della crescita individuale. 

coltivare

La psicologia positiva ambisce alla coltivazione di uno stile di vita e di pensiero positivo, lo sviluppo delle energie mentali, la crescita dell’ottimismo e dell’ottimismo appreso[9], per costruire gli atteggiamenti che ci servono ad affrontare un mestiere duro ma ricco di enormi soddisfazioni.


[1] Gli studi fondamentali che aprono questo dibattito sono: Mick, D. (1991), Giving gifts to ourselves: A greimassian analysis leading to testable propositions. Marketing and semiotics. Selected papers from the Copenhagen Symposium. Copenhagen, Handelshojskolens Forlag.

Mick, D.G. & DeMoss, M. (1990), To Me from Me. A descriptive phenomenology of self-gifts, in Advances in Consumer Research, 17, 677-682.

Mick, D.G. (1986), Consumer research and semiotics: exploring the morphology of signs, symbols, and significante, in Journal of Consumer Research, 12, 196-213.

Mick, D.G. (1989), The semiotic motive in consumer behavior: recent insight from North American research, Paper presented at the 14th Annual Colloquioum of the International Association for Research in Economic Psychology, Sept. 24-27, Poland.

[2] Humphreys, A. (2010), Semiotic Structure and the Legitimation of Consumption Practices: The Case of Casino Gambling, in Journal of Consumer Research, October 2010.

[3] Chaplin, L.N & Lowrey, T.M (2010), The Development of Consumer-Based Consumption Constellations in Children, in Journal of Consumer Research, Vol. 36, February 2010

[4] Englis, B. G. & Michael R. Solomon (1995), To Be and Not to Be: Lifestyle Imagery, Reference Groups, and the Clustering of America, in Journal of Advertising, 24 (Spring), 13–28.

Englis, B. G. & Michael R. Solomon (1996), Using Consumption Constellations to Develop Integrated Communications Strategies, in Journal of Business Research, 37 (3), 183–91.

[5] Kahneman, D. e Tversky, A. (1979), Prospect Theory: An Analysis of Decision Under Risk, in Econometrica, 47(2), 263-291.

Kahneman, D. e Tversky, A. (1981), Judgment under Uncertainty. Heuristics and Biases, in Science.

[6] Tra i tanti articoli in merito, citiamo alcuni tra cui: 

Karmarkar, U. R., & Tormala, Z. L. (2010), Believe Me, I Have No Idea What I’m Talking About: The Effects of Source Certainty on Consumer Involvement and Persuasion, in Journal Of Consumer Research, Vol. 36, April 2010.

Beverland, M. B. & Farrelly F. J (2010), The Quest for Authenticity in Consumption: Consumers’ Purposive Choice of Authentic Cues to Shape Experienced Outcomes, in Journal Of Consumer Research, Vol. 36, February 2010.

[7] Per alcuni riferimenti bibliografici su Carl Rogers, vedi bibliografia a termine volume.

Rogers, C. R. (1977), Carl Rogers On Personal Power, Delacorte Press, New York. Trad. it: Potere Personale. La forza interiore e il suo effetto rivoluzionario, Roma, Astrolabio, 1978.

Rogers, C. R. (1951), Client-Centered Therapy: Its Current Practice, Implications, and Theory, Houghton Mifflin, Boston

Rogers, C. R. (1961), On becoming a Person, Houghton Mifflin, Boston.

[8] La metodologia della Consulenza di Processo è strettamente derivata dagli studi di Psicologia Umanistica di Carl Rogers, ed è in grado di inquadrare i processi evolutivi che il cliente vive, e le sue dinamiche aziendali da un punto di vista evoluzionistico. 

Tuttavia, si tratta di un metodo destinato originariamente alla consulenza di Direzione Aziendale. La sua applicazione alla vendita consulenziale va creata (ed è il nostro compito), va appresa, va studiata, e serve una formazione forte, professionale.

[9] Citiamo le opere di Myers, D. G. (1993), The pursuit of happiness: Discovering the pathway to fulfillment, well-being, and enduring personal joy, Avon, New York. 

Seligman, M. E. P. (1998), Learned optimism: How to change your mind and your life (2 nd ed.), Pocket Books, New York. 

Seligman, M. E. P., & Csikszentmihalyi, M. (2000), Positive psychology: An introduction. In: American Psychologist, 55, 5-14.

Anolli, Luigi (2005), L’ottimismo, Il Mulino, Bologna.


Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Il primato della comunicazione face-to-face

Ogni Business ha di fronte a sé due grandi strade:

(1) le comunicazioni pubblicitarie, spesso costose, massificate, dagli enormi budget, figlie di un miraggio fatto di inutili lustrini sfavillanti

(2) la scelta di formarsi– soprattutto nel Business to Business – come professionisti nel mondo delle negoziazioni interpersonali e incontri umani, tra persone vere. 

Per la stragrande maggioranza delle imprese e delle organizzazioni non ha senso investire in pubblicità di massa, a tappeto, occorre imparare a colpire i decisori. Occorre un approccio più mirato.

Un contratto da stipulare per un appalto o una fornitura strategica non verranno mai aggiudicati se non attraverso trattative e incremento della conoscenza personale, fiducia, forti legami personali, percezione di benefici.

Ancora, pensiamo a quanta dose di “vendita” e “sviluppo del rapporto umano” vi sia in un colloquio di lavoro, e nella decisione di fidarsi di un certo professionista in ogni campo (medico o avvocato, dentista, fisioterapista, ingegnere o consulente), e persino in un corteggiamento, e nelle tante forme della seduzione. 

Riflettiamo. È sufficiente affidare la seduzione o la costruzione della fiducia ad uno spot o ad un volantino, cartaceo o digitale che sia? Possiamo pensare che uno spot faccia per noi il “lavoro” del capire l’altro, entrarvi in relazione, e costruire una relazione solida?

La pubblicità non è inutile, è uno strumento che serve in casi molto specifici, ma non va confusa con la comunicazione in senso lato. Sono due gambe con le quali le aziende corrono, con la differenza che la gamba pubblicitaria è spesso bella e massaggiata e la gamba della formazione alla negoziazione e comunicazione umana, è amputata.

Siamo circondati e bombardati da pubblicità, da tecnologie di messaggistica, sino alla nausea, siamo stati riempiti di bugie e promesse vuote, e non ci fidiamo più. E abbiamo ben ragione di essere stanchi.

Per questo, molto peso è tornato al fattore umano e all’incontro umano, al guardarsi negli occhi, al voler capire con chi stiamo trattando, un momento essenziale per i progetti che contano davvero. 

Il business del futuro è il risultato di progetti che le imprese, tramite le persone, conducono assieme ad altre imprese tramite persone umane, in carne ed ossa.

È il ritorno del primato dell’uomo.

È in questo campo che si gioca una partita fondamentale. È questo il terreno dove ancora – e sempre più – conta la sensibilità che solo il fattore umano può portare.

Lavorare in partnership con i clienti è una sfida. Significa costruire dal nulla progetti su misura per il clienteavere la capacità di offrire unicità e consulenza, qualità e soprattutto “valore relazionale aggiunto” che faccia la differenza tra noi e gli altri. 

Il mondo degli incontri umani di business face-to-face è più “vero” di quello pubblicitario, è molto più frequente per le piccole, medie e grandi imprese, è un fatto quotidiano, e per le aziende è essenziale formarsi su questo.

face-to-face

Nelle comunicazioni personali, face to face, tutto conta: gli sguardi, le strette di mano, le trattative che le aziende conducono per concludere progetti, affidandosi a poche, selezionate persone in grado di capire situazioni complicate e condurre operazioni negoziali complesse.

Una mente da analista

La vendita complessa è in larga misura la funzione di molte abilità comportamentali e strategiche micro (come la capacità di condurre una conversazione, o osservare dettagli non verbali) e macro (fare analisi di scenario, planning, realizzare progetti e report).

La mente da analista non si ferma al lavoro a tavolino (deskwork), entra in ogni contatto, in ogni stretta di mano, in ogni riunione, in ogni analisi.

sensitivity

Niente viene trascurato.

Comprende anche abilità macro, quali la capacità di compiere analisi socioeconomiche e di progettare piani complessi, elaborare dati, svolgere un’intera analisi di scenario e impostare una strategia.

Nessuno può pretendere di concludere affari o realizzare progetti complessi senza applicare un atteggiamento di analisi profondo, senza avere e coltivare una “mente da analista”.

Un analista si chiede molto spesso “perché”. Nota segnali e sintomi, sviluppa ipotesi, si documenta, svolge ricerca, vuole capire.

Questo atteggiamento, che ho denominato empatia strategica[1], include diversi livelli di comprensione, di attenzione strategica al sistema/cliente al quale ci stiamo avvicinando o che stiamo gestendo:

  • empatia comportamentale (capire i comportamenti del sistema con cui vogliamo lavorare e interagire), 
  • empatia cognitiva (capire come ragiona l’altro), 
  • empatia emozionale (capire gli stati emotivi dell’altro) e 
  • empatia relazionale (capire la rete di relazioni in cui vive l’altro).

Immaginate il contrario: 

  • non capire i comportamenti altrui o non coglierne il senso, 
  • subire azioni le cui ragioni ci sfuggono, e ancora, 
  • non capire che ruolo gioca la controparte,
  • non capire come ragiona l’altro e dare per scontato che ragioni come noi vorremmo o “come si dovrebbe ragionare secondo la (nostra) logica”.

Immaginiamo anche cosa significhi portare con se il fardello di una insensibilità emotiva, l’incapacità di cogliere sfumature, non capire se una persona con cui trattiamo sia triste o felice. Oppure, essere indifferenti verso le reazioni emotive che l’altra persona ha nei riguardi di una scelta o ad alcuni aspetti del progetto che trattiamo, e cosa in specifico la preoccupa, o cosa la interessa. 

E ancora, i problema delle gaffe culturali che possono offendere un dirigente straniero centrale per il successo della trattativa.

tribe

Altro grande tema: l’insensibilità al quadro “tribale” della decisione, i rapporti di forza in essere, la matrice dei poteri (Power Matrix), il rischio di non capire se stiamo trattando con un vero decisore o con un semplice emissario, un influenzatore, o con un puro “parafulmini”, qualcuno che non ha alcun potere. Perdere tempo non è piacevole per nessuno.

A catena, la mancanza di una mente da analista può portarci a perdere di vista persone e ruoli aziendali che dovremmo coinvolgere in un progetto e magari stiamo trascurando completamente.

E, peggio, non afferrare il sistema nelle sue inter-relazioni, ad esempio non capire che esiste un centro di gravità (persone fisiche, o concetti chiave su cui far leva) in ogni acquisto, in ogni decisione. 

Possiamo avere di fronte a noi “clan aziendali” e altre forme tribali che si oppongono al nostro ingresso in azienda così come la compresenza di possibili “amici”, persone che ne vedono invece dei vantaggi. 

Larga parte delle trattative complesse consiste nel “portare dalla nostra parte” i centri di gravità della decisione, con – ancora una volta – abilità nel condurre incontri personali e sviluppo di rapporti umani. 

In un mondo difficile, solo persone preparate e con una “mente da analista” possono penetrare sistemi ostili, individuare le priorità e la “sequenza di mosse” utili per poter spostare l’ago della bilancia decisionale a nostro favore.

Una mente da analista si chiede “Perché dice questo?”, “Perché lo dice adesso?”, “Cosa c’è dietro a questa domanda?”, “Perché non è qui il dott. X… mentre all’altro incontro era presente?”, “Per quali motivi potrebbero dirci di no?”, “Cosa abbiamo di distintivo da proporre?” E tante altre domande, non stereotipate, mai uguali.

I sistemi di contatti e di relazioni in un progetto complesso richiedono visione d’insieme. 

Avere visione d’insieme è una capacità, cogliere il senso di un macro-progetto, capire quando è il momento di fare un incontro, individuare quali sono le informazioni critiche che ci servono (Info-Gap), e arrivare ad esaminare il micro-dettaglio di ogni negoziazione. 

Le capacità nell’analisi micro sono altrettanto fondamentali: come viene condotta una telefonata, un incontro, una stretta di mano, un’occhiata, un gesto, per poi tornare al macro, e, quando serve, ripensare un’intera strategia.

In altre parole, il successo di un’impresa dipende non solo dalle grandi strategie ma anche dalla capacità di portare a casa risultati in ogni singola vendita, e diventare abili in ogni singola conversazione e contatto che costituiscono la linea di vendita. Buoni numeri arrivano solo da buone azioni.

La linea d’azione della vendita (Action Line), così come la linea d’azione negoziale, richiedono una specifica sensibilità. Sensibilità alla comunicazione “olistica”: ogni azione, comportamento, o non-azione, comunica qualcosa.

Questa sensibilità è da praticare contatto dopo contatto, nelle negoziazioni, negli incontri, nelle telefonate, o nei comportamenti tenuti a tavola.

sensibilità

Riguarda persino il modo di parcheggiare in prossimità dell’impresa cliente, le attenzioni nell’aprire la porta o meno a qualcuno, offrire un caffè o un dono. 

I professionisti della vendita strategica e delle negoziazioni complesse adottano un modo di lavorare che è anche un modo di essere.

Colossi aziendali e piccole imprese, nelle loro negoziazioni Business-to-Business, con i distributori, i fornitori, con le reti di vendita, con i buyer aziendali, hanno continui “momenti della verità”: gli incontri faccia a faccia, le discussioni, le mail, le presentazioni, le risposte a domande. 

Per ciascuno di essi diventa essenziale curare le abilità di relazione, le capacità personali di analisi e di comunicazione in chi si deve interfacciare con i clienti che contano, sviluppare grandi progetti e vendite importanti.


[1] Da: Trevisani, Daniele (2005), Negoziazione Interculturale: Comunicazione oltre le barriere culturali. Milano, Franco Angeli.

Altri materiali su Comunicazione, Formazione, Potenziale Umano, Crescita Personale e Professionale, disponibili in questi siti e link:

Altre risorse online

© Articolo estratto dal libro di Daniele Trevisani “Strategie di comunicazione e marketing. Un metodo in 12 punti per campagne di comunicazione persuasiva”. Franco Angeli editore, Milano. Pubblicato con il permesso dell’autore.

Communication Goals: ( Pag. 62 ) passare da un generico obiettivo ad un goal misurabile permette di fissare le azioni sul campo e valutare la qualità delle strategie. La fissazione dei goals richiede la produzione di variabili-target (su cosa voglio vedere effetti) e proposizioni dettagliate di risultato. Es, numero di click, cambiamenti nella percezione, numero di vendite attivate nel periodo di campagna… qualsiasi obiettivo può essere fissato purché misurabile o inquadrabile.

Communication Goals

I goals comunicativi esprimono le azioni che dovranno accadere, i risultati da ottenere, in termini quanto più possibile pratici e misurabili. 

I goals possono essere distinti in due grandi categorie:

  1. Informazionali: produrre o aumentare conoscenza e consapevolezza sua una certa notizia, situazione o stato di fatto. Il caso tipico è dato dalle campagne di “brand awareness” finalizzate alla diffusione della conoscenza del marchio.
  2. Attitudinali/psicologici: creare o modificare atteggiamenti, opinioni, credenze – sino, nei casi più complessi – all’azione sui valori di fondo. Il caso tipico è dato dalle campagne di “identity building” o costruzione di immagine – e da ogni attività che “crei le condizioni” perché un comportamento accada.
  3. Comportamentali/attivazionali: indurre cambiamenti reali, effettivi, nei comportamenti –  modificarli, eliminarli, o crearli. Casi tipici sono le campagne commerciali di vendita, le campagne per ridurre gli incidenti stradali o il fumo, o altre azioni comunicazionali in cui il risultato finale sia comunque un comportamento.

L’ordine di difficoltà è crescente man mano che si passa dalla “semplice” necessità di informare qualcuno, alla volontà di cambiare i suoi atteggiamenti e opinioni, sino al produrre veri cambiamenti di comportamento o creare nuovi comportamenti.

modificare comportamenti

Il goal-setting richiede la chiarificazione di cosa vogliamo ottenere. 

La domanda è: ma tu, hai chiari i tuoi goal? E la tua organizzazione o il tuo team, anno gli stessi tuoi goal o stanno remando in qualche altra direzione?

Occorre una grande affinità di intenti, occorre mettersi daccordo sugli obiettivi da ottenere, costi quello che costi.

Gli animali non si preoccupano del Paradiso o dell’Inferno. Nemmeno io, forse è per questo che andiamo d’accordo.

Charles Bukowski

Molte campagne di comunicazione che vorrebbero creare comportamento (nella comunicazione sociale, o nella vendita) non riescono nemmeno a creare informazione, poiché i goals non esistono o sono fumosi (deliberatamente o per incapacità).

Per facilitare il compito dei realizzatori, occorre predisporre goals chiari e ben comunicabili, abbinati ad apposite schede di rilevazione e check-lists che permettono di svolgere una verifica adeguata. 

Non possiamo infatti creare la situazione in qualcuno, al termine di un briefing, si trovi a dire: “molto bello, però adesso cosa devo fare?” I funzionari o professionisti che sanno tradurre un goal in una sequenza precisa di azioni da intraprendere sono abbastanza rari. Per questo motivo, le check-lists e formulari consentono di avviare molto più rapidamente le operazioni di campagna. 

checklist

Nel metodo ALM abbiamo individuato e predisposto diversi tipi di supporto per il goal-setting nelle campagne di comunicazione e marketing B2B :

Check-list riepilogative di campagna (CRC): predispongono i compiti (task) da assegnare ai diversi membri del team; riassumono i risultati di campagna.

Check-list riepilogative individuali per il team-member (CRI): predispongono e riassumono operazioni svolte da singoli membri del team.

Check-list riepilogative di analisi sul singolo prospect (CRP): predispongono azioni comunicative e riepilogano sotto forma di questionario la situazione rilevata nel singolo cliente attuale o potenziale (o altro destinatario di campagna).

Goals specifici e misurabili

Le campagne necessitano di goals specifici, differenziati dagli obiettivi generici. Per un punto vendita, aumentare il confort del cliente sul non è un goal ma un obiettivo, mentre lo specifico goal può essere formulato  come “ridurre i tempi medi di attesa del cliente da 5 a 2 minuti”. 

goals specifico

Allo stesso modo, l’obiettivo “farsi conoscere dal pubblico” è certamente un risultato auspicabile per ogni azienda, ma per divenire operativo deve essere tradotto in goals misurabili, come “portare a conoscenza i potenziali clienti dell’apertura dei nostri punti vendita, generando un grado di conoscenza (awareness) di almeno il 70% delle famiglie nella città A e il 40% nella città B entro 6 mesi dall’apertura” – proseguendo con la definizione di altre formulazioni misurabili.

Vediamo alcuni esempi di goal misurabili :

Tabella 1 – Esempi di impostazione di goals misurabili per campagne di comunicazione, marketing e commerciali

Per una catena di negozi di abbigliamento“incrementare entro 8 mesi la durata della visita media da 22 minuti a 40 minuti, in almeno il 70% dei nostri punti vendita, attraverso azioni di ottimizzazione della Customer Experience
Per una catena di vendita informatica“ridurre entro 12 mesi dal 25% al 4% il numero di clienti in età 14-24 che reputano insoddisfacente il nostro servizio post-vendita ottenuto attraverso il call-center”
Per una banca o assicurazione“incrementare il tasso di chiusura dal 3% al 40% sui servizi finanziari destinati alle PMI nella regione Lombardia, su vendite gestite dalla rete di vendita esterna, per l’anno XXXX”(l’obiettivo viene ripetuto declinandolo con % e goals specifici per ogni regione)
Per un’azienda automobilistica“almeno il 95% di chi ha acquistato un’auto del nostro marchio deve essere contattato da una nostra concessionaria al raggiungimento dei 100.000 Km percorsi e non oltre i 120.000, per offrire un up-selling
Per un’azienda di allestimenti fieristici“Il 100% dei direttori commerciali delle aziende dai 50 ai 100 mil. di euro della provincia di Brescia deve essere contattato dal 10 settembre al 10 novembre, con un tasso di chiusura del 10% entro il 20 novembre”(l’obiettivo viene ripetuto con tassi diversi per altre 15 province limitrofe)
Per un’associazione industriale“Il 60% dei direttori risorse umane delle aziende associate (target customer) deve acquisire la pratica di interpellarci, nel prossimo anno, prima di ogni azione formativa, per ottenere una consulenza di processo”(l’obiettivo viene ampliato al target “direttori commerciali” per l’anno successivo)

Ogni goal deve essere delimitato nel tempo, nello spazio fisico-geografico nel settore merceologico, nella tipologia di soggetti su cui agire, sino ad identificare con estrema precisione i target di campagna.

La struttura aziendale, di fronte ad input chiari, risponde solitamente con maggiore efficienza ed efficacia, e passa rapidamente allo sviluppo di soluzioni operative. Obiettivi confusi e poco traducibili in pratica creano invece demotivazione e portano ad uno stato di generale frustrazione e malcontento nelle risorse umane. 

Pertanto, la creazione di goals e la buona strutturazione della comunicazione rappresenta un importante momento che il management deve utilizzare per lanciare un messaggio chiaro alle risorse umane: “sappiamo cosa vogliamo”. 


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Dr. Daniele Trevisani - Formazione Aziendale, Ricerca, Coaching