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Articolo Copyright. Dal libro Psicologia della libertà. Liberare le potenzialità delle persone di Daniele Trevisani, edizioni Mediterranee, Roma

Ispirato al modello HPM di Sviluppo del Potenziale Umano, dal testo Il potenziale umano. Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance, Franco Angeli editore, Milano.

 Libertà progettuale

Essere liberi significa anche saper realizzare progetti.

Avere sogni che non si concretizzano mai e poi mai, non è vera libertà. Quando ve ne sono le condizioni, o impariamo a crearle, fare progetti diventa bellissimo e liberatorio. Un atto di espressività.

Dobbiamo quindi esaminare le nostre credenze sul tema della propria capacità progettuale, ampliamento della capacità di concretizzare un proprio progetto, tradurre un ideale in progetto.

Il coaching qui è veramente fondamentale per far passare un sogno da qualcosa di utopico ad un progetto realizzabile. Se sogno di dimagrire, un progetto concreto per dimagrire mi sarà di enorme aiuto, e qualcuno che mi segue diventa un mio compagno di viaggio. Se voglio esplorare i mercati asiatici, devo identificare gli step da compiere, e iniziare con step praticabili molto pratici. Non posso solo sognare di farlo.

La libertà di progetto è una “libertà pragmatica”, fatta di cose tangibili, di azione, di “chi fa cosa”, di gestione di risorse e dei tempi. Ma è creativa tanto quanto la pittura o la scultura. Così come la libertà di portare avanti un progetto “a modo nostro” senza dovere sempre seguire la tradizione.

Assagioli[1], un grandissimo scienziato Italiano vissuto negli USA, in un classico degli studi sul potere personale del “fare”, tuttora attualissimo, è ci parla dell’Atto di Volontà” come forma suprema di espressione umana. Bene, quando questo atto si concretizza e passa dal “voglio” al “lo faccio, ci provo”, abbiamo fatto grandi passi avanti.

Libertà di valori e libertà ideologica. Come queste diventano libertà nei comportamenti di tutti i giorni

La libertà della persona di assumere sistemi di valori che sente propri, di cambiarli.  Esaminare il sistema di valori ritenuti importanti nella vita, priorità tra valori e eventuali aspettative divergenti. Si tratta di un esame delle ideologie, dei “credo” valoriali, delle scelte di fondo che ci possono rendere un’attività soddisfazione o sacrificio. In cosa credi? Cosa è importante per te? Cosa da senso alla vita?

Questo tratto è il più difficile da far emergere, toccando le scelte esistenziali, il significato stesso dell’esistenza.

Se però riusciamo a far emergere alcuni di questi elementi forti, essi possono costituire l’ancoraggio di qualsiasi motivazione al fare, al crescere al migliorarsi.

Un faro che guida la persona nella nebbia e verso la libertà più vera.

[1] Assagioli, Roberto (1973). The Act of Will. Viking Press, NY. Trad it. L’atto di volontà, Roma, Astrolabio, 1977.

Articolo Copyright. Dal libro Psicologia della libertà. Liberare le potenzialità delle persone di Daniele Trevisani, edizioni Mediterranee, Roma

Approfondimento video

https://youtu.be/sQ4-UhPFEjo

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.
Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Regie di Cambiamento”, Franco Angeli editore, Milano.

Il concetto di cambiamento come “pulsazione” o respirazione vitale è un ancoraggio primordiale cui tornare.
La vita nei suoi ritmi naturali è una pulsazione, un continuo flusso di ingresso e uscita, una respirazione viva, che lascia entrare e venire fuori, un battito che possiamo avvertire sin dal primo respiro di un neonato.
Un consulente esperto o chiunque abbia sensibilità sufficiente, può sentire “il respiro” e i suoi significati. Possiamo concentrarci sul “respiro dell’azienda”, “il respiro di un team”, il “respiro della persona” e capire se il clima è teso o rilassato, positivo o negativo, aperto o chiuso, formale o informale, se sono presenti veleni e blocchi, rigidità e tensioni.
Quando un sistema funziona, inesorabilmente emette segnali che indicano se esiste benessere e motivazione, o invece demoralizzazione, sconforto e rabbia repressa. Possiamo cogliere la presenza di obiettivi o il vuoto. Il “vuoto” si nasconde spesso dietro ad un’azione frenetica, priva di tattica e strategia.
Riflessioni operative:

  • analizzare i “segnali deboli” che indicano se il tipo di “respirazione” del soggetto (sia in senso fisico che metaforico, persona o sistema organizzativo) sia profondo e vitale, o superficiale e carico di tensioni;
  • portare l’analisi al livello delle motivazioni e della storia del soggetto, non limitarsi a suggerimenti rapidi o sintomatici.

Nella psicoterapia corporea, così come nelle scienze sportive, il tipo di respirazione è uno dei temi fondamentali di lavoro, poiché ad essa si correlano numerosissimi aspetti emotivi.
La respirazione sana e salutare non è frenetica e convulsa, ma anzi è profonda e ben riconoscibile. La crisi e sofferenza di chi psicologicamente sente il desiderio di cambiare ma non riesce genera respiro affannoso e contratto. Osservare come respirano le persone, quando parlano di sé o del proprio lavoro, può dire molto rispetto al vissuto emotivo sottostante e allo stato di equilibrio o squilibrio esistente.
Ogni consulenza o azione formativa energica è di per sé una “azione di scossa metabolica” in cui un sistema viene aiutato a ritrovare la propria respirazione ed equilibrio, rimettendo in moto la plasticità ed intervenendo sui tre principi fondamentali: immissione, espulsione, stabilizzazione.
Capire come intervenire volontariamente e con precisione chirurgica sui tre settori del principio metabolico è una sfida fenomenale.
Ogni processo di cambiamento profondo prevede l’esame attento di quali siano le operazioni da compiere sulle tre zone.
Un esame incompleto, l’attenzione ad una sola di queste aree, porterebbe a progetti sbagliati, incompleti, insoddisfacenti per chi li attua e per chi li riceve.

Principio 1 – Principio metabolico

Il cambiamento positivo viene favorito dalle seguenti operazioni:

  • acquisizione: riuscire ad identificare e riconoscere il bisogno di imparare, le acquisizioni importanti, ciò che si deve apprendere, assimilare, far entrare, per avvicinarsi all’obiettivo. L’obiettivo può essere qualsiasi target di cambiamento che si collega all’efficienza o ad un percorso autorealizzativo – immagine di sè ideale, organizzazione ideale o migliore, incremento della serenità o del senso di efficacia, della potenza personale o del sistema, della resistenza o resilienza, della capacità di problem solving, o qualsiasi altro traguardo;
  • consolidamento: è necessario identificare quali sono i punti di ancoraggio (valori, credenze, pensieri, comportamenti) che il soggetto o sistema vuole consolidare e far diventare riferimenti solidi;
  • rimozione: è necessario identificare e riconoscere ciò che sia importante cedere, rimuovere, abbandonare, cosa sia importante eliminare, ripulire, cosa disapprendere, cosa lasciar andare, di cosa disfarsi (identificazione dei cataboliti e degli elementi da espellere dal sistema).
     
    Il cambiamento viene bloccato o ostacolato da:
  • perdita di riferimento o incapacità nel capire cosa si debba acquisire, apprendere, far entrare (mancato riconoscimento dei target, dei “nutrienti” o ingredienti necessari per produrre il cambiamento);
  • focalizzazione sulla sola fase acquisitiva, senza identificare e riconoscere ciò che si deve abbandonare, disapprendere, rinunciare, lasciare dietro di sè (processi mentali, cataboliti mentali o scorie psicologiche, comportamenti, stereotipi, abitudini controproducenti);
  • perdita di ancoraggi fondamentali e indispensabili negli equilibri della persona o dell’organizzazione, mancanza di ancoraggi forti o punti di stabilità.

 
L’analisi riguarda qualsiasi tipo di ruolo o sistema. Posso chiedermi, come padre, cosa potrei fare per migliorare nel mio ruolo di genitore, cosa dovrei imparare, cosa non so fare adesso e dovrei apprendere (zona 3), posso chiedermi anche cosa dovrei smettere di fare per essere un padre migliore (zona 1), posso anche chiedermi cosa vorrei non fosse toccato, ma anzi consolidato, a cosa non vorrei mai rinunciare di me (zona 2).
Un atleta può chiedersi – ad un certo punto della sua carriera – dove vuole arrivare, a quale livello vuole competere, e cosa questa scelta comporta.
Lo stesso tipo di analisi vale per un ruolo aziendale, o per una intera organizzazione. Per un azienda possiamo infatti chiederci:

  • cosa deve apprendere questa organizzazione, chi ne ha bisogno, cosa deve entrare? (zona 3).
  • cosa deve smettere di fare questa organizzazione, cosa deve abbandonare, a cosa deve rinunciare, o di cosa deve sbarazzarsi, quali modi di pensare o di essere sono ora controproducenti o non più validi? (zona 1).
  • a cosa deve ancorarsi, cosa non è opportuno rigettare, ma anzi consolidare? Quali sono gli ancoraggi forti? (zona 2).

I meccanismi di autorealizzazione personale sono basati sulla plasticità del sistema o della persona, la sua apertura verso il cambiare e l’evolvere, l’accettazione che – in quanto esseri viventi – siamo soggetti al cambiamento.
Formarsi caratterialmente e fisicamente è uno degli obiettivi di ogni persona che abbia un senso di autostima sufficiente, e – rivolto ai figli – diventa uno degli obiettivi di ogni genitore sensibile. Come possiamo tradurre questo concetto verso la crescita di una intera azienda o intero team?
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©Copyright. Vietata la copia o riproduzione non autorizzata. Per contatti. Altri approfondimenti sul volume sono disponibili alla sezione dedicata alla Psicologia, Formazione e Coaching sul sito Studiotrevisani e sul blog Formazione Aziendale, risorse per la Formazione e Risorse Umane.
 

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.
Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Regie di Cambiamento”, Franco Angeli editore, Milano.

Abbiamo identificato tre fasi o operazioni indispensabili attraverso le quali focalizzare il cambiamento: cedere, consolidare, far entrare.
L’alchimia tra le diverse fasi è estremamente delicata. Spesso il fatto stesso di confondere il cambiamento con un apprendimento (es., con una lezione didattica) crea false premesse e false aspettative. Una lezione didattica raramente cambia la sostanza di una persona; “sentire parole” non equivale a capirle, ad assimilarle e ancora meno ad interiorizzarle. Chiunque di noi ha ascoltato docenti noiosi delle cui lezioni non ricorda assolutamente nulla.
L’approccio esperienziale all’apprendimento – e di riflesso al cambiamento – rappresenta una delle poche certezze cui ancorarsi: i cambiamenti efficaci sono quelli in cui le persone sono portate a vivere esperienze impattanti, “scottanti” – vissute e partecipative – e non solo “udite”. Sentir dire che qualcosa scotta non è efficace quanto lo scottarsi direttamente.
L’esperienza vissuta in prima persona è più efficace del semplice “udire” e “entra” con maggiore forza nel sistema target.
Vediamo quindi il box seguente:
Riflessioni operative:

  • non illudersi: per produrre impatto è insufficiente “parlare”, “dire”, “insegnare”, “fare una lezione”, o “mostrare” (approccio one-way): dovremo considerare le innumerevoli resistenze al cambiamento, e il fatto che servono angoli di attacco multipli;
  • prendere in considerazione ove possibile un approccio esperienziale in cui il soggetto possa “far pratica” e vivere il cambiamento (palestra di cambiamento) per interiorizzarlo progressivamente;
  • chiedersi quali esperienze sbloccanti possono scalfire le credenze attive, aprire la porta alla volontà di cambiare e crescere;
  • chiedersi come produrre un approccio esperienziale e partecipativo rispetto ai target di cambiamento e apprendimento.

Se confondiamo il cambiamento con la sola acquisizione o esposizione sbagliamo. Prendiamo come esempio il corpo umano: l’ingresso di nutrienti e sostanze (cibo, acqua, aria) non è di per se sufficiente alla vita. Se il corpo non fosse in grado di metabolizzare ciò che entra – gestire, digerire, espellere – morirebbe in pochi secondi.
Il sistema rigido (persona o team) blocca gli input in ingresso, non accetta messaggi difformi rispetto a quanto egli crede già. Chiude le porte a nutrimenti (let-in) – persone, pensieri e credenze – che rischiano di mettere in crisi ciò che lo sorregge, vede come pericolo ogni forma di estraneità o non conformità.
La poca informazione che entra non è adeguatamente rielaborata. L’output è ridotto, le performance sono scarse.
In un sistema “ingolfato” il flusso di cataboliti e scorie in uscita (let-out) è ostacolato e il sistema finisce per nutrirsi dei propri escrementi. Nulla viene lasciato uscire. Si tratta di una prigione fisica o psicologica tremenda.
Spesso la malattia diventa l’esito inevitabile della rigidità. Possiamo parlare di malattia fisica o del corpo, ma anche di malattia psicologica o patologie dei sistemi organizzati. Anche un piccolo team, come una squadra di calcio o di pallavolo, o un settore aziendale, può vivere queste fasi patologiche e “ammalarsi” di rigidità.

Riflessioni operative:

  • assumere un atteggiamento positivo verso la ricerca di nuovi input, ricercare stimoli, alimentarsi di nuove conoscenze anche trasversali e multidisciplinari (feed-in), permettere a nuovi concetti di entrare (let-in), per poterne esaminare e valutare la validità, la natura e sostanza senza preconcetti;
  • accettare l’eliminazione o rimozione di parti del sistema, come fase indispensabile a qualsiasi mutazione.

Chi ha vissuto un clima che impedisce l’ingresso di input non conformi alla ideologia dominante, o l’espressione esterna, sa cosa significa. Lager, gulag e altre forme di totalitarismo sono casi estremi e riguardano pochi, ma anche – più semplicemente – climi familiari o di coppia asfissianti, gruppi o aziende intossicati da “aria” psicologicamente malata, sono laboratori nefasti di esperienze tristi e dolorose, comuni a tantissime persone.
Il bisogno di cambiamento è diffuso. Riguarda persino il bisogno di una persona di “sfuggire da se stesso”, trasformare tratti di sé con i quali convive faticosamente (es.: ansia, insicurezze, paure, tratti di personalità).
Il cambiamento è al tempo stesso problema e risposta, contiene ambizione e spavento. Le persone vivono la dissonanza costante tra desiderio di evolvere e bisogno di fermarsi a riposare o trovare abitudini e consuetudini in cui rifugiarsi. Il bisogno di riposare è giusto e sano. Diventa malato quando una persona o sistema pensa di potersi riposare su una montagna di rifiuti tossici e continuare ad aspirarne le esalazioni, magari illudendosi di essere al sicuro.
I sistemi che non evolvono finiscono per dare prestazioni (performance) deludenti, prima di tutto su variabili soft o intangibili, poi verso fattori estremamente hard e a volte drammatici. Esempio: in azienda si parte dalla perdita di creatività o sensibilità umana, quindi si sviluppano climi psicologici inquinati e deleteri, successivamente i migliori manager iniziano ad andarsene verso la concorrenza, portando via progetti e clienti.
Ciascuno di noi può farsi dominare dalla frenesia quotidiana, arrivare alla incapacità di concentrazione e rilassamento, poi sopraggiunge l’irrigidimento mentale, quindi le relazioni conflittuali con tutti, quindi l’incomunicabilità e la perdita di affetti, o di lavoro. I primi segnali – come la perdita di vitalità esistenziale – se non colti e presi sul serio, inesorabilmente ricadono verso conseguenze molto tangibili (fallimento, caduta, malattia, depressione, morte).
Riflessioni operative:

  • valutare le performance del soggetto non solo rispetto a parametri classici, ma soprattutto riferendosi a indicatori qualitativi. Es.: in un’azienda, quanto l’amministratore delegato e ogni manager sia in grado di creare un clima di motivazione che riesca a trattenere i talenti in azienda, non solo misurare le vendite nel breve periodo;
  • per un individuo, valutare non solo (e spesso nemmeno considerare) il suo “conto in banca”, ma il suo stato di soddisfazione verso se stesso e l’approccio verso la vita, la sua vitalità esistenziale;
  • valutare l’apertura o rigidità del soggetto verso nuovi concetti o inputs.

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©Copyright. Vietata la copia o riproduzione non autorizzata. Per contatti. Altri approfondimenti sul volume sono disponibili alla sezione dedicata alla Psicologia, Formazione e Coaching sul sito Studiotrevisani e sul blog Formazione Aziendale, risorse per la Formazione e Risorse Umane.

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.
Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Regie di Cambiamento”, Franco Angeli editore, Milano.

 
 
 
 
L’evoluzione è un processo che accade. Ogni creatura vivente o sistema organizzativo sono soggetti a mutazione, che lo desiderino o meno. Il vero problema è dirigere le traiettorie di questa evoluzione – decidere attivamente dove il sistema deve finalizzarsi – per creare benessere e performance.
È indispensabile una presa di coscienza sul fatto che le traiettorie evolutive dei sistemi senza governance (governo, direzione) sono spesso degenerative e possono dare esiti pericolosi (malattia, morte, fallimento). I casi di autogoverno efficace esistono, ma si presentano solo in sistemi che siano già maturi e consapevoli, e questi sono rari.
L’evoluzione assertiva prevede che cambiamento e intervento siano mirati agli effetti (centrate sui risultati da produrre) e non fini a se stessi. Cambiare per il gusto di cambiare non è il nostro obiettivo, anzi, ogni cambiamento o intervento che non risponda a criteri strategici è in realtà una diseconomia, una moda e non una necessità.
Cambiare strategicamente significa passare da uno stato X ad uno stato Y.
È essenziale che X e Y siano focalizzati (identificati). La Y (stato di destinazione) corrisponde ad un’evoluzione positiva, ad un migliore stato di adattamento (fit) e di benessere organizzativo, fisico o mentale, o ad una revisione strategica del sistema sul quale si intende agire.
Ogni obiettivo evolutivo è da valutare lungo un ideale asse dei tempi, un “percorso” che separa X da Y.
Gli interventi realmente assertivi generano una mutazione del trend, non “fumo”. Le regie creano “passaggi obbligati” tramite operazioni (operations) centrate sugli effetti da produrre (effect-based operations).
Come costruire le operations o stimoli che vada nella direzione voluta è il problema centrale delle regie.
Riflessioni operative:

  • valutare lo stato attuale del soggetto o sistema (stato X) rispetto agli obiettivi di evoluzione;
  • definire degli ancoraggi ideali futuri, gli stati ottimali cui tendere (stato Y);
  • valutare i passaggi, stimoli o operations che possono portare il soggetto da X a Y, selezionare gli interventi centrandosi sugli effetti (effect-based operations), evitare la dispersione di azione o su risultati non precisati o poco chiari.

Produrre assertivamente cambiamento quando necessario, e non solo facilitarlo quando il bisogno è già sentito, è un problema ulteriore.
Dare acqua a chi sente sete è abbastanza semplice. Offrire acqua a qualcuno che – perso in un’allucinazione sensoriale – non senta il bisogno di bere seppure disidratato è un problema più forte. Ovviamente, la sete riguarda il cambiamento e l’acqua qualsiasi nutrimento (conoscenza, comportamenti, valori, strumenti) o variazione che permetta di dare un contributo all’evoluzione positiva.
Condividere la necessità di avviare un percorso è uno dei passaggi indispensabili in un metodo registico.
Riflessioni operative:

  • sforzarsi di condividere l’esigenza di avviare un percorso;
  • inquadrare le traiettorie del “percorso” scelto per andare da X ad Y;
  • condividere l’analisi dello stato X e dello stato Y, dettagliatamente, affinché la condivisione di obiettivi sia profonda e non solo superficiale;

Altra questione essenziale è la ricerca di un equilibrio tra tecniche direttive e tecniche non direttive. Le tecniche direttive prevedono prescrizioni, modelli, concetti insegnati o distribuiti, regole o struttura, mentre le tecniche non direttive lasciano spazio all’autonomia del soggetto e alla sua personale ricerca di un percorso. Anticipiamo da subito che il modello delle regie propone un mix integrato tra le due, con una prevalenza sostanziale tuttavia (non ideologica, ma metodologica) per le tecniche direttive.
 
Riflessioni operative:

  • definire quali parti di un percorso di cambiamento hanno bisogno di (1) tecniche direttive, strutturazione, regole, protocolli, e (2) quali porzioni del percorso devono lasciare spazio a tecniche non direttive, auto-espressione, autoregolazione del soggetto o del sistema, alla ricerca di una propria strada per il miglioramento;
  • realizzare un mix equilibrato (direttivo/non direttivo) tra le diverse metodiche di intervento.

Desideriamo inoltre avviare una prima definizione e porre altre basi per un metodo registico:
 
Prima definizione: Il cambiamento è un processo di variazione nello stato di un sistema (persona, gruppo, o organizzazione) che prevede la scalata progressiva verso il pieno potenziale e la sua autorealizzazione.
Il meccanismo di cambiamento contiene sia (1) fasi di eliminazione, ripulitura, rifiuto, rimozione o disapprendimento, (2) processi di consolidamento e rafforzamento, (3) meccanismi di acquisizione (entrata) di nuovi concetti, modelli, teorie, atteggiamenti, comportamenti.
Le azioni finalizzate al cambiamento (operations) devono prevedere fin dall’inizio gli effetti da produrre, valutando quali mix di operations serviranno per produrre quali effetti.
 
Ogni singola parola di questa definizione meriterebbe enormi dibattiti e approfondimenti. Ci è sufficiente per ora concentrarsi sul fatto che il cambiamento desiderato è positivo, tocca il sistema dei valori profondi e non solo le azioni visibili, ha a che fare con la ricerca di orizzonti psicologici nuovi (diversi modi di essere, nuovi modi di “stare” nel mondo), mette in discussione lo stato attuale, impatta i temi del potenziale, della performance, e dell’espressione di se stessi verso una autorealizzazione profonda. In ultimo prende in considerazione gli effetti come parametro finale, definitivo punto di arrivo di qualsiasi processo assertivo e di qualsiasi investimento mirato.
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©Copyright. Vietata la copia o riproduzione non autorizzata. Per contatti. Altri approfondimenti sul volume sono disponibili alla sezione dedicata alla Psicologia, Formazione e Coaching sul sito Studiotrevisani e sul blog Formazione Aziendale, risorse per la Formazione e Risorse Umane.
 

1.8.     

Le tre grandi forze che agiscono sull’individuo vanno chiarite e distinte:

 

·         genetica;

·         apprendimento ambientale;

·         apprendimento intenzionale.

 

Sulla prima non abbiamo ancora possibilità di intervento, per ora.

Sulla seconda, larga parte di quello che ci ha plasmato inizialmente è accaduto quando eravamo troppo piccoli per farci qualcosa, i modelli sociali e culturali dei nostri primi anni di vita, e i genitori, non li abbiamo scelti noi.

L’operazione più utile da compiere, come detto, è guardarvi dentro e decidere autonomamente cosa sia risorsa, cosa invece sia freno, e cosa manchi.

Sulla terza, gli spazi sono aperti.

Dall’adolescenza in avanti inizia la vera forza da coltivare nell’individuo, la coscienza della possibilità di scegliere: ad esempio, è possibile emanciparsi e decidere di smettere di guardare la televisione commerciale, e leggere qualche libro in cui si possa imparare qualcosa. Aiutare gli altri a farlo è altrettanto essenziale.

È possibile decidere di fare sport, fosse anche solo correre, o se il nostro corpo non ce lo permette ora, possiamo cercare altri spazi di espressione fisica, leggera o pesante, agonistica o meno. O muoverci sul fronte intellettuale.

Nelle relazioni, è possibile iniziare a scegliere le persone con cui passare il tempo libero.Sul lavoro, sullo studio, possiamo iniziare a fare scelte. La coscienza della possibilità di fare scelte è una conquista.

E non è detto che se una certa strada sia chiusa non ve ne siano altre, o che se ci si sente stanchi e demotivati non si possa cercare un modo diverso per esprimersi. La ricerca di un campo di espressione è lavoro allenante in sé.

È possibile iniziare a lottare contro le forze avverse, i sistemi clientelari, arretrati, corrotti e arroganti, le strutture ingessate, le culture amputanti.

Esiste chi non vuole che lo facciamo, chi teme che smettiamo di respirare a forza le regole del sistema che ci soffocano. I pensatori autonomi fanno paura. Non a caso, sono i primi che i regimi cercano di sopprimere.

Possiamo invece crearci un nuovo insieme di regole e spazi di espressione, che rispetti gli altri, ma anche se stessi. Questo significa esprimersi: andare oltre i vincoli esistenti, usare la ragione e procedere verso ciò che per noi sia una luce, una visione positiva, una forma di libertà.

 

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Copyright, dal Volume: “Il Potenziale Umano”

Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance

 

Dal film “Matrix”

Morpheus: Matrix è ovunque, è intorno a noi. Anche adesso, nella stanza in cui siamo. È quello che vedi quando ti affacci alla finestra, o quando accendi il televisore. L’ avverti quando vai al lavoro, quando vai in chiesa, quando paghi le tasse. È il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi per nasconderti la verità
Neo: Quale verità?
Morpheus: Che tu sei uno schiavo, Neo. Come tutti gli altri sei nato in catene. Sei nato in una prigione che non ha sbarre, che non ha muri, che non ha odore. Una prigione, per la tua mente