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Il bene come scopo dell’etica

Secondo Aristotele, ciò a cui mira l’etica è il bene umano: per gli uomini in generale, è individuato nella politica, nella vita collettiva e anche nella vita individuale. In quest’ultima, uno dei fini a cui è possibile puntare è sicuramente la felicità. Dunque, l’etica è la scienza delle azioni che conducono l’uomo alla felicità.

La felicità consiste nell’esercitare al meglio la funzione che è propria dell’uomo, realizzando la virtù ovvero l’eccellenza o la perfezione. L’etica Niconomachea spiega l’etica dal punto di vista di Aristotele, componendo il discorso in dieci libri.

L’opera ha inizio tramite la spiegazione che l’attività dell’uomo ha come proprio fine il bene. Il fine e bene ultimo, viene identificato come il Sommo Bene.

Per ogni vivente, il sommo bene è la felicità e poichè questa è perseguita da tutti gli uomini, la determinazione del suo concetto è compito della scienza politica, che costituisce per Aristotele il vertice stesso dell’etica.

La definizione di concetto di felicità relativo all’uomo singolo deve fondarsi sulla natura stessa dell’uomo. Ora, poichè l’uomo è un essere razionale, la felicità per lui non può prescindere dall’esercizio della sua facoltà principale, che è la ragione. Quando essa viene usata correttamente, da origine a quella che viene definita come virtù dianoetiche:

  • Arte, ovvero la capacità di produrre un qualsiasi tipo di oggetto
  • Saggezza, ovvero la capacità di ragionare in modo razionale sulle questioni riguardanti buono e cattivo
  • Intelligenza, ovvero la capacità di cogliere le origini di tutte le cose
  • Scienza, ovvero la capacità di dimostrare e verificare
  • Sapienza, ovvero la capacità di conoscere come unico fine, senza necessariamente riversare queste conoscenze nella produzione di oggetti reali

Quando invece la ragione contiene sentimenti e pulsioni, nascono le virtù etiche o morali. Esse sono i frutto delle abitudini di comportamento in maniera misurata e moderata e l’uomo diventa virtuoso scegliendo il giusto mezzo tra gli estremi.

La principale virtù etica è la giustizia. La giustizia legale rappresenta per Aristotele la virtù intera e perfetta per quanto riguarda i rapporti con gli altri. L’uomo che rispetta tutte le leggi imposte è necessariamente un uomo virtuoso.

Esiste anche la giustizia particolare, che consiste nell’agire in vista di un guadagno per quanto riguarda i rapporti con gli altri. Ne esistono due diversi tipi:

  • Distributiva
  • Commutativa

Quella distributiva è quella che distribuisce a tutti secondo i propri meriti. Quella commutativa mira a pareggiare i vantaggi e gli svantaggi tra le persone coinvolte.

Esiste qualcosa di incorruttibile ed eterno ?

Aristotele sostiene che ognuno di noi abbia esperienza del divenire infinito del tempo. Porsi delle domande su ciò che viene prima e ciò che ci sarà dopo è solamente un interrogativo che riguarda una realtà temporale, cosi come lo sarebbe la risposta a tale domanda.

Il tempo è divenire eterno nel passato, nel presente e nel futuro.

Il primo motore non è un generatore di vita, perchè il mondo è eterno, Una volta dato il primo motore, di conseguenza otterremo anche il mondo ed il divenire del tempo. Se Dio è motore primo, attrae a sè, come causa finale, tutta la realtà.

Queste sono le condizioni per il quale può sussitere un divenire eterno:

  • Deve esistere una causa altrettanto eterna che muove il divenire eterno
  • La causa che muove deve essere immobile, perchè se si muovesse avrebbe bisogno a sua volta di un’altra causa che ne spieghi il movimento.
  • Il principio primo che muove deve essere in atto, o meglio, deve essere atto “puro”. Se muovesse in potenza, potrebbe anche non muovere. Il divenire del tempo è la prova che il motore muove in atto.
  • La sostanza che muove tutto deve essere pura forma e cioè priva di materia, perchè dove sussiste materialità c’è potenzialità.
  • Il principio che muove tutto è un motore immobile. Come può muovere restando immobile ? Muove come oggetto d’amore.
  • Il motore primo non è perciò causa efficiente, ma finale.

Più precisamente il primo motore immobile muove direttamente il primo cielo, cioè il cielo delle stelle fisse. Il movimento degli altri pianeti è prodotto da 47 o 55 motori che muovono tutti come il primo motore.

Cause e mutamenti di Aristotele

Aristotele passa alla ricerca dei principi e della cause della natura, e utilizza come punto di partenza la fisica per il fatto che essa precede tutte le cose.

Cosa rende possibile il mutamento ?

Per Aristotele i mutamenti avvengono in quattro diversi modi:

  • Mutamenti di sostanza, ovvero di generazione e corruzione, come il nascere e il morire
  • Mutamenti di quantità, ovvero di accrescimento e diminuzione
  • Mutamenti di qualità, ovvero di alterazione come di colore
  • Mutamenti locali, che riguardano il movimento vero e proprio, e vengono distinti in moti secondo natura e contro natura

La differenza infatti tra enti naturali ed enti artificiali riguarda il moto e la quiete. Solo gli enti naturali possiedono queste due caratteristiche.

Le quattro cause di Aristotele sono:

  • Causa materiale: la materia di cui è composta una cosa
  • Causa formale: la forma o il modello di cui è composta una cosa
  • Causa efficiente: ciò che ha prodotto la cosa
  • Causa finale: il fine che quella cosa deve realizzare, il motivo per cui è stata costituita

Cosmologia Aristotelica

Il mondo era concepito come qualcosa di unico, finito fatto di sfere concentriche, e diviso in due parti distinte. L’universo era pensato come l’unica cosa esistente, e perciò unico, nel quale valeva la teoria dei luoghi naturali: secondo questa teoria, ogni materia possibile doveva trovarsi in un determinato posto.

L’universo era pensato chiuso, ogni cosa era in esso, che era limitato superiormente dal cielo delle stelle fisse, oltre il quale non era presente nulla, nemmeno il vuoto. Ogni cosa è nell’universo, mentre l’universo non è in nessun luogo. Essendo chiuso, esso era anche finito, in quanto se fosse stato infinito sarebbe apparso soltanto come un’idea e non come una realtà attuale.

Era composto di sfere concentriche, intese come qualcosa di reale e non di ideale. Su queste sfere erano presenti stelle e pianeti. Al di sotto del cielo che comprendeva il Sole e la Luna, si trovava la terra immobile, al centro di tutto, con i suoi quattro elementi.

Possiamo quindi evidenziare due zone ben distinte:

  • la zona cosmica perfetta, composta dal mondo sopralunare, formato dall’etere, incorruttibile
  • la zona cosmica imperfetta, composta dal mondo sublunare, formato da terra, acqua, aria e fuoco

Vita e pensiero del filosofi di Stagira

Aristotele è nato a Stagira nel 384 a.C. circa,d al padre Nicomano, un medico, e da madre Festide. All’età di diciassette anni entrò a far parte dell’accademia di Platone vi rimase fino alla morte di quest’ultimo.

Nel 336, dopo svariate peripezie personali, Aristotele fonda ad Atene una scuola, nel giardino dedicato ad Apollo Licio, chiamata Liceo.

Logica e Dialettica

Aristotele è il vero inventore della Logica, ovvero della teoria dell’inferenza, o deduzione. Nel “De interpretatione” egli parla del discorso, in cui le cose sono dette con connessione: il soggetto è legato al predicato. I campi d’uso sono sia il linguaggio, che il pensiero, ma anche la realtà.

Il nome ed il verbo, presi singolarmente, non sono nè veri nè falsi, solamente il discorso può esserlo:

  • Verità significa uniformità del discorso
  • Falsità significa difformità del discorso

I principi logici del discorso sono due:

  • Principio di non contraddizione
  • Principio del terzo escluso

Il primo viene spiegato in questa maniera: “È impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo”.

Il secondo, invece: “Dato un giudizio positivo ed uno negativo, di uguale soggetto e predicato, essi non possono essere ne veri ne falsi contemporaneamente, inoltre la verità di uno implica la falsità dell’altro e viceversa. Non c’è una terza possibilità”.

Il sillogismo è dato dalla relazione che sussiste tra tre giudizi, due dei quali sono presi come premesse, mentre il terzo è la conclusione. La correttezza e la verità del sillogismo non riguarda la verità delle premesse, ma solamente la necessità con cui la conclusione consegue da esse.

Tre figure del sillogismo

  • Figura 1: il termine medio funge da soggetto all’estremo maggiore e da predicato all’estremo minore
  • Figura 2: il termine medio funge sempre e solo da predicato degli estremi
  • Figura 3: il termine medio funge sempre e solo come soggetto degli estremi

La confutazione consiste nella deduzione di una conclusione che contraddica la tesi generale sostenuta da un interlocutore. L’induzione, invece, consiste nell’inferire da premesse particolari una conclusione universale, osservando che è valida solo se il primo estremo comprende tutti i particolari di quel tipo.

L’abduzione ha luogo quando il primo termine inerisce al medio, mentre non è chiaro se il “medio” inerisca al terzo, pur essendo ciò credibile allo stesso modo.

Il sillogismo scientifico avviene quando le premesse prime sono vere e causa della conclusione. Dalla verità delle premesse abbiamo la verità della conclusione. Infine, esiste la dimostrazione per assurdo: dimostra un enunciato assumendo come premessa la negazione di essa e, unito con una premessa vera, giunge ad una conclusione impossibile perchè contraddice un altro enunciato che si sa essere vero.

Retorica (Aristotele)

Nel Trattato “Retorica” Aristotele introduce l’analisi di temi che oggi sono molto in voga, molto popolari e falsamente attribuiti a scienziati o autori contemporanei. Leggendo questo articolo scoprirai che i concetti di intelligenza emotiva, di persuasione emotiva, di stili comunicativi, di comunicazione efficace, e tanti altri temi, erano già stati trattati ed esaminati accuratamente da Aristotele nel 4° Secolo Avanti Cristo.

 

La Retorica (Τέχνη ῥητορική o anche Περὶ ῥητορικῆς) è una delle opere di Aristotele, quelle opere cioè composte dal filosofo per essere studiate dai suoi allievi nel Liceo. L’opera, composta durante l’ultima fase della vita dello Stagirita, e successiva alla Poetica (quindi al 330 a.C.), raccoglie le riflessioni relative alla retorica sviluppate da Aristotele nel corso della propria esistenza.[1]

Il testo è composto da tre libri, per ciascuno dei quali, seguendo Roland Barthes, è individuabile un argomento preciso: il Libro I è dedicato alla figura dell’oratore; il Libro II tratta del pubblico; il Libro III, più breve, affronta invece il tema del discorso vero e proprio.[2] Inoltre, nel trattato sono distinguibili due fasi di stesura: ad una prima fase, caratterizzata dallo studio degli elementi entechnoi (propri della retorica in quanto techne), corrisponde a quanto scritto nel Libro I (eccetto il cap. 2 e parte del 15), mentre una seconda fase è riconoscibile nei due libri successivi.[3]

Libro I: l’oratore

Il libro che apre la Retorica aristotelica è dedicato alla figura di colui che emette il messaggio: l’oratore. Aristotele qui propone una definizione della retorica in quanto techne, analizzando poi i tre tipi di discorso (giudiziario, deliberativo, epidittico) e i tipi di argomentazione, nella misura in cui vengono scelti dal retore per adattarsi al pubblico.

La definizione della retorica

Aristotele definisce la retorica come «la facoltà di scoprire il possibile mezzo di persuasione riguardo a ciascun soggetto» (I, 2, 1355b). Tale capacità è sua peculiare, e la differenzia dalle altre technai, le quali si occupano sì di persuadere un pubblico, ma unicamente riguardo agli argomenti specifici di cui trattano. Diversamente da quanto affermava Platone nel Gorgia, Aristotele dunque attribuisce alla retorica il titolo di techne, più precisamente l’unica techne in grado di produrre persuasione (pythanon) riguardo a qual si voglia argomento proposto.[4] Oggetto della retorica non è la aletheia (verità), ma l’eikós (possibile, verosimile), ovvero ciò che è valido nella maggior parte dei casi, relativamente a tutto ciò che ammette una situazione differente dalla tesi sostenuta (1357b).

Ciò rende la retorica «speculare alla dialettica» (I, 1, 1354a):[5] entrambe infatti si occupano di argomenti la cui conoscenza è patrimonio condiviso di tutti gli uomini, e non appartenenti ad una scienza specifica. In questo senso, è comprensibile l’importanza che Aristotele conferisce all’entimema (ἐνθύμημα), il cosiddetto «sillogismo retorico» basato su premesse probabili (éndoxa): la dialettica si occupa di sillogismi, la retorica di entimemi (I, 1, 1355a). La retorica è utile perché, attraverso l’entimema, è in grado di indagare le verità scientifiche, confutare gli avversari o difendere se stessi da accuse e critiche. Diverso è invece il caso dell’esempio (paradeigma), definito da Aristotele una «induzione retorica» (I, 2, 1356b). Quest’ultimo, infatti, mira a dimostrare la tesi attraverso casi analoghi ai fatti trattati – la medesima cosa che fa la dialettica attraverso l’induzione. Si spiega così il motivo per cui la Retorica fu talvolta inserita (insieme alla Poetica) tra le opere di logica nella versione estesa dell’Organon.

I tipi di argomentazione

La qualità della retorica sta nel trovare, per qualsiasi argomento, i mezzi di persuasione (reali o apparenti) più utili al proprio fine. Aristotele passa così in rassegna i vari tipi di argomentazione (pisteis), suddividendole in «tecniche» (entechnoi) e «non tecniche» (atechnoi). Le argomentazioni non tecniche sono quelle che non vengono fornite dal retore, ma che sono preesistenti – come le testimonianze, le confessioni sotto tortura, i documenti scritti (I, 2, 1355b). Le argomentazioni tecniche, invece, dipendono dal retore e si possono ottenere applicando un metodo. Queste ultime sono così classificate (I, 2, 1356a1-20):

  • – Argomentazioni che realizzano la persuasione grazie al carattere dell’oratore. L’ascoltatore accorda maggiore fiducia ad un oratore che dimostra di conoscere prontamente l’argomento di cui sta parlando; diversamente, risulta poco credibile chi propone varie opinioni su un argomento, piuttosto che una certezza assoluta. Il carattere dell’oratore rappresenta quindi l’argomento più forte. E’ il tema che oggi nelle scienze della persuasione viene identificato come “fattore Expertise”, parte della “Source Credibility”, la credibilità della fonte.
  • – Argomentazioni che realizzano la persuasione predisponendo l’ascoltatore in un dato modo. Il retore che voglia riuscire a persuadere il proprio pubblico deve anche tenere conto dei sentimenti e delle emozioni che il suo discorso genera negli ascoltatori, poiché i sentimenti influenzano inevitabilmente i giudizi. E’ il tema che oggi viene definito come Intelligenza Emotiva e Competenze Emotive.
  • – Argomentazioni che realizzano la persuasione unicamente grazie al discorso. È il caso dei discorsi che dimostrano la verità (reale o apparente) di una tesi mediante gli opportuni mezzi di persuasione.

Tali considerazioni, afferma Aristotele, dimostrano ancora una volta che la retorica è una techne comprensibile solo da chi è in grado di ragionare logicamente, e di riflettere attorno a caratteri, virtù ed emozioni. In secondo luogo, il filosofo ribadisce che la retorica è una ramificazione della dialettica, nonché una filiazione dell’etica e della politica.[6]

I tre tipi di discorso

Aristotele termina il Libro I analizzando i tre tipi di discorso.

  • – Discorso deliberativo (γένος συμβουλευτικόν). Di questo tipo di retorica fanno parte i discorsi di esortazione e dissuasione, siano essi privati (consigli o rimproveri) o pubblici (è il caso di leggi e costituzioni). Un discorso deliberativo tratterà dunque temi politici o morali, e i suoi fini saranno la felicità e il bene; inoltre, avendo per oggetto decisioni in vista dell’avvenire, il suo tempo di riferimento è il futuro (capp. 4–8).
  • – Discorso epidittico (γένος ἐπιδεικτικόν). Il genere inventato da Gorgia, ha come scopo la lode e il biasimo. La retorica epidittica mira infatti a dimostrare la virtù e l’eccellenza di una persona, attraverso le varie forme di elogio, e per questo si riferisce al presente (cap. 9).
  • – Discorso giudiziario (γένος δικανικόν). È il tipo di retorica utilizzato nei tribunali, per difendere o accusare un imputato. Fa largo uso di argomentazioni non tecniche (leggi scritte e non scritte, testimonianze, contratti), e cerca di indagare la causa di un’azione delittuosa, tentando anche di determinare se un’azione è peggiore di un’altra. Il suo tempo di riferimento è il passato (capp. 10–15).

Per ricorrere a queste tre tipologie è necessario conoscere le premesse proprie della retorica (prove, probabilità e segni), e le caratteristiche specifiche del genere utilizzato (ovvero il tempo verbale da impiegare, i tipi di argomentazione e via dicendo).

Libro II: il pubblico

Il Libro II è dedicato al pubblico, ovvero chi riceve il messaggio. Aristotele tocca i temi delle emozioni e analizza come le argomentazioni sono recepite dal pubblico. E’ una vera e propria trattazione di quello che oggi viene chiamato “public speaking” e insegnato in tanti corsi di formazione sul parlare in pubblico.

Emozione e persuasione

La retorica, afferma Aristotele, esiste in funzione di un giudizio: ogni deliberazione deve essere giudicata, e in ciò svolgono un ruolo fondamentale sia l’atteggiamento del retore (ethos), sia la disposizione d’animo di chi ascolta (pathos). La retorica infatti mira a persuadere un uditorio della bontà di certe affermazioni, e per fare ciò è necessario non solo curare i discorsi, ma anche il modo in cui l’oratore si presenta, così da adattare gli argomenti ai sentimenti del pubblico che si ha di fronte (II, 1, 1377b).[7] Le emozioni infatti alterano le opinioni degli uomini, e sono in grado di modificare i giudizi in base a piacere o dolore (1378a). Più nello specifico, lo Stagirita afferma che nella retorica deliberativa è più importante il carattere dell’oratore, mentre i sentimenti del pubblico sono centrali nel genere giudiziario.

Per quanto riguarda l’oratore, questi deve possedere essenzialmente tre doti: saggezza (phronesis), virtù (areté) e benevolenza (eunoia). Un oratore che non abbia opinioni corrette riguardo all’argomento di cui sta trattando, o che per malvagità nasconda certi particolari o non sia in grado di dare buoni consigli, non riuscirà ad essere persuasivo. D’altra parte, il buon oratore deve anche saper sfruttare le emozioni a proprio vantaggio, riuscendo a suscitare nel pubblico quelle più adatte ai suoi scopi. Per questo motivo, Aristotele dedica larga parte del Libro II (capp. 2–11) a studiare le varie emozioni, dandone una definizione e analizzando le circostanze e le persone con cui si è solito provarle. Nell’ordine, il filosofo parla di: colleramitezzaamicizia e inimicizia (amore e odio), timore, vergogna, gentilezza e sgarbatezza, pietà, sdegno, invidia, emulazione.

È interessante notare che, rivolgendosi qui allo studio delle passioni, Aristotele si rifà alla lezione dei sofisti e dei pitagorici, per i quali era centrale il tema della psicagogia.[8] Nel riconoscimento dell’importanza delle emozioni, che in questo modo vanno ad affiancarsi alle dimostrazioni come portatrici di persuasione, è inoltre ravvisabile il passaggio dalla prima alla seconda fase dello studio della techne rhetoriké da parte dello Stagirita.[9]

I caratteri

Una volta analizzate le emozioni, l’attenzione di Aristotele si sposta sui caratteri (ethoi). Il filosofo analizza anche qui i vari tipi di caratteri, suddividendoli in base alla condizione dell’uditore: il giovane, il vecchio e l’uomo maturo, e in seconda battuta il nobile, il ricco e il potente. I giovani sono inclini a seguire i desideri, ragion per cui sono passionali, incostanti e volubili, e desiderano soprattutto onori e ricchezza; la loro indole è buona, in quanto vergine delle malvagità della vita, e pertanto sono più propensi a provare fiducia e a ritenere le persone migliori di quanto non siano; infine, i giovani nutrono grandi speranze, poiché potenzialmente hanno davanti a sé un lungo futuro (cap. 12). Diversa è la situazione dei vecchi, che vivono di ricordi e sono spesso cinici, diffidenti e sospettosi per l’esperienza del mondo; essi inoltre non «sanno» niente, semmai «credono», e non sono in grado di affermare qualcosa con fermezza, ma vivono attaccati alle proprie ricchezze e giudicano le cose in modo deteriore (cap. 13). Tra questi due tipi, si collocano gli uomini adulti e maturi, che perseguono un certo equilibrio nei desideri, come nelle emozioni (cap. 14).

Oltre all’età, gioca un ruolo importante la condizione sociale ed economica. Gli uomini nati da una famiglia nobile sono individui con grandi ambizioni, ma sprezzanti delle condizioni altrui, che considerano inferiori alla propria (anche se, aggiunge Aristotele, i nobili per nascita sono in genere persone di scarso valore, e addirittura, con il passare delle generazioni, le stirpi più insigni danno luogo a caratteri folli, quando non degenerano nella stupidità e nel torpore; cap. 15). La ricchezza genera invece caratteri arroganti, insolenti: i ricchi credono infatti di poter valutare e ottenere tutto con il denaro, e questa grettezza li porta a essere dissoluti e boriosi, e a ostentare il proprio benessere – ovvero, i ricchi sono «sciocchi fortunati» (cap. 16). Chi detiene il potere, infine, è senz’altro più ambizioso ed energico dei ricchi, poiché ha la possibilità di compiere grandi imprese, e il fatto di essere un uomo in vista lo costringe ad essere temperante (cap. 17).

L’argomentazione logica

Infine, Aristotele torna sulle argomentazioni (capp. 18–26). Come già si è detto riguardo al Libro I, quelle più comuni sono di due tipi: l’esempio e l’entimema.

L’esempio, dice Aristotele, deriva dall’induzione, la quale è il principio grazie a cui è possibile un ragionamento.[10] Gli esempi, a loro volta, possono essere inventati dall’autore (è il caso delle favole o degli apologhi); oppure essere tratti dalla realtà (avvenimenti realmente accaduti, fatti storici e così via); l’importante è però che abbiano qualche analogia con l’oggetto del discorso.

All’esempio si deve però preferire, laddove è possibile, l’entimema (II, 20, 1394a), poiché, essendo simile al sillogismo, deve essere utilizzato per le dimostrazioni (siano esse di sostegno o contrasto a una tesi; II, 22, 1396b), e in questo caso l’esempio può fungere da premessa. L’entimema parte infatti da quegli assunti la cui validità viene riconosciuta dall’uditorio o dal giudice che si ha di fronte, in modo che chi ascolta abbia coscienza dell’evidenza degli argomenti. Quattro sono i tipi di premesse da ognuno dei quali deriva un tipo diverso di entimema: dalla prova (tekmerion) l’entimema apodittico, dall’esempio l’entimema induttivo, dal verosimile l’entimema anapodittico e dal segno l’entimema asillogico. Di questi, l’entimema anapodittico e quello asillogico sono entimemi apparenti, poiché non hanno carattere di necessità.

Connessa all’entimema e all’argomentazione logica è anche la teoria dei luoghi (topoi), descritta nel cap. 2 del Libro I. I luoghi, che caratterizzano i sillogismi e gli entimemi, possono essere comuni o propri: i primi riguardano cause di carattere generale, mentre quelli propri sono relativi a una determinata specie o un determinato genere. Il luoghi comuni possono a loro volta suddividersi tra quelli degli entimemi reali e quelli degli entimemi apparenti, per ciascuno dei quali sono riportati degli esempi al cap. 18.[11]

Infine, Aristotele parla dell’importanza delle massime, intese come affermazioni «di carattere universale» riguardanti ciò che può essere scelto in relazione ad un’azione. Esse hanno una certa efficacia sul pubblico, soprattutto se si rifanno a concetti generalmente bene accettati da chi sta ascoltando; nel caso contrario, bisogna ricorrere all’entimema, la cui conclusione sarà, appunto, una massima (II, 21, 1394a).

Libro III: il messaggio

Il Libro III è infine dedicato al messaggio vero e proprio: è il luogo della lexis (la latina elocutio), delle varie figure da utilizzare nei discorsi, e della taxis (quella che Quintiliano chiama dispositio).[12]

Lo stile

Per essere persuasivi non basta avere degli argomenti solidi, ma bisogna anche saperli disporre, ordinandoli in modo appropriato e scegliendo lo stile di volta in volta più consono al contesto. Per questo motivo bisognerà avere particolare cura nelle scelte lessicali, in modo che il discorso soddisfi i requisiti di chiarezza e convenienza. A questo scopo è possibile ricorrere anche al lessico poetico e alle figure retoriche, e fare uso di paragoni, similitudini e metafore (cap. 2). Inoltre, anche il tono dovrà adattarsi, elevandosi o abbassandosi quando è necessario, e rispettare un certo ritmo nella prosa per non riuscire sgradevole. Un ruolo importante avrà infine anche la recitazione, nel caso il discorso sarà orale (diverse sono ovviamente le specifiche per il discorso scritto).

In particolare, Aristotele qui si sofferma sulla metafora, in quanto elemento in comune tra poesia e retorica. È infatti opinione diffusa che l’elocuzione abbia avuto origine dalla poesia, e che solo in un secondo momento l’eloquenza in prosa (retorica) si sia distaccata da quella poetica; Tuttavia, la retorica ha mantenuto, per i propri fini, l’uso di espedienti poetici, come appunto la metafora, la quale risponde all’esigenza di chiarezza, piacevolezza e ricercatezza (III, 2, 1404b).[13] Sullo stesso piano si colloca inoltre l’impiego di antitesi, cioè la presenza di elementi opposti, i quali, se conosciuti, generano piacere in chi ascolta.[14]

Le parti dell’orazione

Aristotele conclude la Retorica analizzando le parti di cui si deve comporre un’orazione. In ogni discorso vi sono sempre due momenti fondamentali, l’enunciazione della tesi (prothesis) e la sua dimostrazione mediante argomentazioni (pisteis). Le altre parti che vengono indicate sono valide a seconda dei casi e dei generi di discorsi:

  • Esordio (prooimion): l’incipit del discorso, deve indicare chiaramente, qualora non lo si sappia già, quale sarà l’argomento di cui intende parlare.
  • Narrazione (diegesis): la parte centrale dell’orazione, non deve essere particolarmente lunga né troppo breve, ma deve esporre l’argomento secondo misura.
  • Dimostrazione (apodeixis): deve elencare le varie argomentazioni, proponendo le prove a sostegno della propria tesi e cercando di confutare quelle contrarie.
  • Epilogo (epilogos): la parte finale deve disporre l’ascoltatore favorevolmente nei confronti dell’oratore, aumentare la pregnanza delle tesi, suscitare reazioni emotive e infine ricapitolare quando si è detto.

Note

  1. ^ F. Montanari, Introduzione a: Aristotele, Retorica, a cura di M. Dorati, Milano 1996, p. XIX.
  2. ^ R. Barthes, La retorica antica, trad. it., Milano 20062, pp. 19-22.
  3. ^ A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Roma 1988, pp. 56.
  4. ^ Ben diverso è invece ciò che Socrate sostiene discutendo con Gorgia e Polo. Per Platone, infatti, essa non ha diritto al titolo di techne, bensì a quello di empeiria (abilità). Cfr. PlatoneGorgia 452d-455a.
  5. ^ “ἡ ῥητορική ἐστιν ἀντίστροφος τῇ διαλεκτικ” (La retorica è speculare alla dialettica). Sulle possibili traduzioni del termine antistrophos vedere Aristotele, Retorica a cura di Silvia Gastaldi, Carocci, 2014, p. 341. Sull’accezione aristotelica di dialettica si veda la voce Aristotele.
  6. ^ E. Garver, Aristotle’s Rhetoric as a Work of Philosophy, «Philosophy and Rhetoric», 19 (1986), p. 4.
  7. ^ E. Garver, Aristotle’s Rhetoric as a Work of Philosophy, cit., p. 15.
  8. ^ A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Roma 1988, pp. 62-3.
  9. ^ A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Roma 1988, p. 63.
  10. ^ L’induzione è necessaria per stabilire la premessa maggiore di un sillogismo. Cfr. Retorica 1393 a.
  11. ^ A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Roma 1988, pp. 66-7.
  12. ^ A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Roma 1988, p. 68.
  13. ^ A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Roma 1988, pp. 68-69.
  14. ^ A. Plebe, Breve storia delle retorica antica, Roma 1988, p. 70.

Bibliografia

Edizioni e traduzioni
  • Aristotele, Retorica, traduzione di Armando Plebe, in: Opere, vol. IX, Roma-Bari, Laterza, 19926 (prima edizione 1961)
  • Aristotele, Retorica, introduzione di Franco Montanari, traduzioni e note a cura di Marco Dorati, Milano, Mondadori, Milano 1996
  • Aristotele, Retorica e Poetica, a cura di Marcello Zanatta, Torino, Utet, 2002
  • Aristotele, Retorica, introduzione, traduzione e commento a cura di Silvia Gastaldi, Roma, Carocci, 2014
  • Aristotele, Rhetorica, a cura di Edward Meredith Cope, vol. 1, Cambridge, University Press, 1877, pp. 303.
  • Aristotele, Rhetorica, a cura di Edward Meredith Cope, vol. 2, Cambridge, University Press, 1877, pp. 340.
  • Aristotele, Rhetorica, a cura di Edward Meredith Cope, vol. 3, Cambridge, University Press, 1877, pp. 270.
Saggi e bibliografia secondaria
  • R. Barthes, La retorica antica, Milano, Bompiani, Milano 1972
  • E. M. Cope, An Introduction to Aristotle’s Rhetoric, (1867), ristampa Hildesheim, Georg Olms, 1970
  • E. Garver, Aristotle’s Rhetoric as a Work of Philosophy, «Philosophy and Rhetoric»,. 19, (1986), pp. 1–22
  • F. Piazza, La Retorica di Aristotele. Introduzione alla lettura, Roma, Carocci, 2008
  • A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Roma-Bari, Laterza 1961

Voci correlate

 

Classificazione delle figure retoriche usate nella Persuasione

Classificazione tradizionale

Nello specifico, Quintiliano aveva distinto tropi e figure, e queste ultime in figure di parola (léxeos schémata in greco; figurae elocutionis o figurae verborum in latino) e figure di pensiero (schémata tês dianoías in greco; figurae sententiae in latino).[6][1]

Tutte le figure venivano poi catalogate secondo il mutamento (mutatio, ‘variazione’) e a questo proposito Quintiliano descrive una quadripartita ratio[7][1]:

  • adiectio: aggiunta di elementi linguistici, con conseguente ridondanza dell’espressione;
  • detractio: sottrazione di elementi linguistici, come avviene tipicamente nell’ellissi;
  • transmutatio: cambiamento della posizione di alcuni elementi linguistici, come avviene tipicamente nell’anastrofe;
  • immutatio: sostituzione di elementi linguistici tramite sinonimiaccrescitividiminutivi.

Classificazioni moderne

Le classificazioni tradizionali sono state più volte sottoposte a critica e molteplici sono stati i tentativi moderni di classificazione. Una classificazione particolarmente originale e rilevante è quella elaborata dal grammatico francese Pierre Fontanier (1765-1844) in Les figures du discours (1827-1830)[1].

La classificazione di Bonsiepe

Il teorico del design e scrittore tedesco Gui Bonsiepe distinse tra figure sintattiche e semantiche. Nello specifico, egli offre questa catalogazione[2]:

  • figure sintattiche
    • figure traspositive
    • figure privative
    • figure ripetitive
  • figure semantiche
    • figure contrarie
    • figure comparative
    • figure sostitutive

La classificazione del Gruppo μ

Il cosiddetto Gruppo μ (o Gruppo di Liegi) ha prodotto il tentativo più organico di classificazione delle figure, nell’opera Retorica generale, edita a Parigi nel 1970. Le figure sono definite come opere di trasformazione del linguaggio e vengono divise in[2]:

  • metaplasmi, che consistono in modificazioni morfologiche, quindi sul piano del significante;
  • metatassi, che consistono in modificazioni sintattiche, quindi relative alla struttura delle frasi;
  • metasememi, che consistono in modificazioni semantiche, quindi sul piano del significato;
  • metalogismi, che consistono in modificazioni logiche, cioè del valore logico di una frase nel suo complesso.