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Psicologia di vendita

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corso vendita copertina la psicologia dell'acquisto psicologia del marketing e della comunicazioneCorso Vendita, materiale dal libro “ La psicologia dell’acquisto: Psicologia del Marketing e della Comunicazione centrata sulle Esperienze d’Acquisto

  • Il corso vendita Solution Selling è basato sulla psicologia del marketing e della comunicazione, tema trattato nel libro “la psicologia dell’acquisto”.
  • Il corso vendita Solution Selling è un percorso formativo nel quale apprendere a trovare soluzioni per i problemi che un cliente possiede, ascoltare il cliente, creare un’esperienza di acquisto di qualità e positiva, e nel quale si realizza soprattutto un’esperienza pratica di vendita consulenziale.
  • Il corso vendita Solution Selling si tiene sia online che in aula di formazione, a Milano, ogni mese, con cadenze alternate.
  • Per informazioni sul prossimo corso vendita Solution Selling, centrato sulla psicologia del Marketing e della Comunicazione, clicca su questo link.

Di seguito, un estratto dal testo “Psicologia dell’acquisto. Psicologia del marketing e della comunicazione centrata sulle esperienze d’acquisto”

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Capire il fenomeno dell’acquisto e le sue mille sfaccettature

La psicologia del marketing e della comunicazione deve essere centrata sulle esperienze di acquisto. Fare avere al cliente esperienze di acquisto positive vale molto più di centinaia di spot.

Concetti quale “consumatore” e “cliente” sono molto recenti nella storia dell’umanità. Negli ultimi secoli la tecnologia ha permesso di produrre e scambiare prodotti come mai prima. La democrazia (in alcuni paesi) ha consentito di creare realtà imprenditoriali dove esistevano solo monopoli.

Questi processi – per nulla terminati in diverse aree mondiali – ampliano la gamma di scelta del cliente e rendono l’acquisto un atto complesso.

In questo panorama prendono forma le scelte di acquisto basate su motivazioni di identità (Identity Based Motivations[1]). In altre parole, le specifiche identità culturali del cliente (etniche, religiose, di status socioeconomico, di appartenenza politica, e altre) danno luogo a specifici “consumer goals”, atti di acquisto che vogliono rafforzare la propria identità.

Non tenere conto di questo aspetto significa trattare ogni cliente come privo di identità, una ameba pronta ad acquistare qualsiasi cosa si appelli alla ragione, mentre la ragione pura, con questo panorama, ha poco a che fare.

Ogni acquisto e atto di consumo porta con sé implicazioni socioculturali, esperienziali, simboliche, e ideologiche[2]. Ma non solo. La ricerca ci indica anche che il cliente – essendo portatore di identità multiple – deve fare forzatamente alcune scelte prioritarie di identità. Uno studente potrebbe voler acquistare una felpa e chiedersi se sia bene portare una felpa del college cui appartiene, o della città in cui vive, o di un brand in voga tra i suoi coetanei. Allo stesso modo, un buyer aziendale potrebbe cercare un consulente con cui lavorava già per l’azienda precedente (identità passata) o un consulente già attivo nell’azienda attuale (identità recente). Queste varie identità a volte confliggono, e il consumatore tenta di raggiungere equilibri di identità prima di tutto mentali per mantenere la sua coerenza interna[3].

Una delle strategie messe in atto dalle aziende e dai venditori è il “priming”, ovvero fare emergere, tra le tante identità, una specifica che va sollecitata al fine di spingere verso una determinata scelta di acquisto. Un genitore potrebbe essere sia genitore che sportivo, e nel caso di aquisto di un’auto essere tentato sia da un modello station-wagon adatto per una famiglia con figli, o da una cabrio adatta ad un uso personale e per divertimento. Il priming del venditore sul cliente consisterà nelle parole che usa per sollecitare l’una o l’altra delle identità, alla luce delle sue strategie di vendita, es. “certo che per un giovane padre come lei questo SUV è fantastico quando si tratta di fare gite con la famiglia”, oppure invece dire “certo che per uno sportivo come lei questo modello cabrio le fa fare davvero un figurone quando arriva al club!”

Il priming qui esposto è banalizzato e ridotto ad esemplificazione, tuttavia una strategia di priming deve per forza essere sempre presente in ogni messaggio aziendale, nel quale una certa “identità” del ricevente viene sempre in qualche modo chiamata all’appello. Questo vale anche nella comunicazione pubblicitaria, a quale delle tante identità del consumatore essa punta, e con chce leve simboliche punta a fare priming.

La ricerca dimostra persino l’effetto di “Salvataggio dell’Identità” (Saving Your Self) che avviene quando un acquisto o un prodotto vanno contro l’identità che una persona sente forte in sé. Ad esempio, potrei decidere di non portare mai e per nessun motivo, nemmeno se me li regalassero, dei sandali “da frate” o delle Birkenstock aperte, perché darebbero di me l’immagine di essere un vecchio o un freak, mentre le tennis della mia marca preferita, benchè faccia caldo, danno di mè quell’impressione di persona sportiva e di tendenza che voglio dare[4].

La forza delle percezioni di sé, delle identità che sentiamo vive in noi e di come queste influenzano noi come persone, i nostri acquisti e i prodotti di cui ci circondiamo, è molto potente e non dobbiamo mai sottovalutarla.

Alcuni casi pratici, aneddoti personali ricchi di possibile apprendimento

Un cliente felice è un cliente che è disposto a parlare bene dell’azienda e del prodotto, a diventarne un paladino, a fare del passaparola positivo. Un cliente infelice vaga nel mercato seminando tossine e inquinando il buon nome del prodotto e del marchio.

Ma allora da cosa dipende avere un cliente felice o infelice? Dipende da tanti fattori, ma prima di tutto, dall’avere capito la sua psicologia, i suoi meccanismi di acquisto, il perché ha acquistato, cosa cercava, e che esperienza sta avendo con l’uso quotidiano del prodotto/servizio.

Il caso del maledetto piantone centrale della mia auto

Ho comprato un’auto che mi piace molto, un’auto ibrida che prometteva e ha mantenuto di fare più di 20 km con un litro, arrivando persino a 25, oltre ogni mia più rosea aspettativa. Ma allora dove è il problema? Il problema arriva dal fatto che come essere umano, stranamente, possiedo una gamba destra, una tibia destra e un ginocchio destro. I progettisti di Hyundai sembrano essersene dimenticati. Hanno fatto un piantone centrale, che divide il posto anteriore destro da quello sinistro, smisuratamente grande, al punto che la tibia e il ginocchio desro sono in costante sfregamento e pressione contro le plastiche. Questo provoca con il passare dei chilometri un fastidio indicibile. Allora viene da chiedersi, perché l’hai comprata? L’ho comprata perché nella prova dell’auto, di pochi chilometri, non si arriva mai alla sensazione che viene dopo decine di chilometri o centinaia di chilometri, per cui tale fastidio è stato nascosto dalla brevità della prova. I poveri incapaci che hannno progettato questi interni hanno mai provato l’auto per almeno una decina di giorni e parecchie ore al giorno, di persona? L’hanno mai fatta provare ad una persona di oltre 1,80 di altezza (i mercati europei cui sono destinate, hanno questo tipo di cliente!) Verrebbe da pensare di no! In questo caso il cliente felice lo si rende tale mettendo il cliente come essere umano e corporeo al centro di tutto, anche della progettazione ed ergonomia, capendo che il marketing esperienziale è fondamentale, il marketing esperienziale coinvolge tutti i cinque sensi del cliente. In questo caso la vista è appagata (l’auto è bellissima ai miei occhi), il tatto del volante è piacevole, l’odore dell’auto mi piace, ma la pressione continua sulla tibia sulle plastiche, quella proprio non la posso sopportare. E per questo cambierò auto nonostante i suoi 25 km/litro. Perché il bisogno di ergonomia di un’auto, fattore decisivo, non può essere cancellato dalla sobrietà dei consumi.

La domanda chiave è “perché dalla Hyundai non mi è mai arrivata una chiamata per sapere se ero contento dell’acquisto fatto?” Avrebbero certamente tratto indicazioni importanti per il restyling dei nuovi modelli!

Il caso del cellulare e la rete dati che va a scatti

Ho comprato un secondo telefono per l’ufficio e ho deciso di equipaggiarlo con una SIM di Postemobile, che si appoggia alla rete Wind. La promessa pubblicitaria parla di minuti illimitati, quindi telefonate illimitate, e 50 Giga di traffico in 4G (ad alta velocità per gli standard di oggi). Ciò che non diceva la pubblicità è che questo traffico è di fatto a scatti, hai momenti o intere ore in cui non va, e altri in cui va, per giunta male. In pratica, non puoi lavorare. Il servizio clienti Postemobile mi dice che è normale perché hanno le celle sature di clienti e di provare ad abbassare le prestazioni mettendolo in 3G/2G. Fantastico penso io! Come fare entrare 100 persone in un autobus che ne tiene 50! O chiedere ad una persona che acquista un’auto a 4 ruote di usarne solo 2! E poi viene da chiedersi perché nessuno di quei cento vorrà mai più salire su quell’autobus? Da notare che nello stesso luogo ed ora, una compagnia telefonica concorrente, Tim, che uso come telefono primario – mi offre lo stesso servizio allo stesso costo, con la differenza che FUNZIONA.

La domanda inerente al titolo del libro è “perché dalla compagnia telefonica Postemobile non mi è mai arrivata una chiamata per sapere se ero contento dell’acquisto fatto?” Perché sono stato io a dover chiamare il servizio clienti? Hanno forse paura di qualcosa che non vada? E se qualcosa non va, meglio saperlo, o meglio non saperlo e fare come gli struzzi con la testa sotto alla sabbia?

Si tratta di aneddoti, di casi personali certo, ma sono sufficienti a capire quanto sia fondamentale creare un cliente felice e verificare che lo sia davvero.

Ricaviamo da questi aneddoti alcune indicazioni generale su come rendere un cliente felice.

Il caso del sacco da Kickboxing PRO

Questo è un caso decisamente breve ma istruttivo. Ieri mi metto alla ricerca di un sacco da Kickboxing lungo, almeno 1.70 o 1.80 cm, per poterlo usare anche con i calci. Ne trovo parecchi ma sono tutti esauriti, specialmente della mia marca preferita, Leone Sport. Ne scopro uno invece apparentemente disponibile sul sito, un bellissimo sacco Sphinx made in Thailand, una marca davvero garanzia di qualità.

Prima di fare l’acquisto online, giusto per sincerarmi, decido di chiamare il negozio per sapere se il sacco c’è in magazzino o no. E faccio bene, infatti il sacco non è in magazzino ma il venditore mi assicura che chiamerà la Sphinx per farmi sapere quando arriverà e che in pochi giorni in teoria dovrei avere il mio sacco.

Passa la mattina, nessuna telefonata. Passa il pomeriggio, nessuna telefonata. La mattina dopo, nessuna telefonata. A questo punto ho seri dubbi sul fatto che il sacco ci sia o no. Ma il punto centrale è: cosa costava al venditore darmi una telefonata a fine giornata dicendo ad esempio che stava facendo il possibile per farmi trovare il sacco ma non era ancora riuscito a contattare la Sphinx? Ne avrebbe guadagnato tantissimo in accreditamento e in credibilità personale, e molto probabilmente mi sarei lasciato guidare verso qualsiasi altro acquisto mi avesse suggerito. Il lavoro, la fatica, la deve fare il venditore, non il cliente.

Leggi della felicità del cliente 1 – Della felicità del corpo e della continuità del servizio

Il cliente è felice quando il suo corpo è felice, in relazione all’uso del prodotto. Pertanto, vanno esplorate tutte le implicazioni di marketing visivo, olfattivo, tattile, cinestesico, aptico (legate al contatto) gustativo, e ogni modalità di contatto tra prodotto e cliente.

Il cliente è felice quando il prodotto/servizio risponde alle aspettative con continuità, senza interruzioni di prestazione, senza cali di qualità del prodotto/servizio promesso.

La fatica legata all’acquistare, al cercare informazioni e contatti, al compiere operazioni informatiche o manuali, deve essere fatta il più possibile dal venditore e il meno possibile dal cliente, al fine di accreditarsi come “problem solver” del cliente, in ogni singola fase dell’acquisto, nel pre-acquisto, durante l’acquisto stesso, e nelle fasi post-acquisto. Quando il cliente sa di poter contare su qualcuno di affidabile che è volonteroso nel risolvere i suoi problemi, è più felice, percepisce nel venditore Caratteristiche, Vantaggi, Benefici, e Unicità (CVBU) legate al fattore umano, che fanno da collante tra il cliente e l’azienda.

 

[1] Sharon Shavitt, Carlos J. Torelli, Jimmy Wong (2009), Identity‐based motivation: Constraints and opportunities in consumer research. Journal of Consumer Psychology, Volume19, Issue3.

[2] Eric J. Arnould, Craig J. Thompson (2005), Consumer Culture Theory (CCT): Twenty Years of Research. Journal of Consumer Research, Volume 31, Issue 4, March 2005, Pages 868–882

[3] Julian K Saint Clair, Mark R Forehand (2020), The Many-Faced Consumer: Consumption Consequences of Balancing Multiple Identities, Journal of Consumer Research, Volume 46, Issue 6, April 2020, Pages 1011–1030.

[4] Daniel Sheehan, Sara Loughran Dommer (2020), Saving Your Self: How Identity Relevance Influences Product Usage. Journal of Consumer Research, Volume 46, Issue 6, April 2020, Pages 1076–1092.

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© Copyright. Materiale di formazione vendite per il corso vendita Solution Selling, basato sui concetti esposti nel  libro “Psicologia dell’acquisto. Psicologia del marketing e della comunicazione centrata sulle esperienze d’acquisto

 

Copyright. Estratto dal libro

Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse

Con commenti e note inedite dell’autore

Tecniche non-verbali di ascolto attivo

Utilizzano l’atteggiamento del corpo per esprimere interesse:

 

  • postura, aperta ed inclinata in avanti per indicare disponibilità; posizione del corpo rilassata e di disponibilità;
  • avvicinamento e allontanamento (prossemica): ridurre la distanza con l’interlocutore nei momenti di maggiore interesse, allontanarsi nei momenti di distensione;
  • espressione del volto: non dubitativa, ironica o aggressiva, ma attenta e partecipativa;
  • sguardo attento e diretto;
  • movimenti delle sopracciglia associati a punti salienti del discorso altrui;
  • cenni del capo, cenni assenso o di diniego;
  • gesti morbidi, lenti e rotatori per comunicare senso di rilassamento e incoraggiare ad andare avanti nella conversazione;
  • metafore non verbali utilizzando il body language, che dimostrano comprensione di quanto detto dalla controparte.

 

Sul piano non verbale, dobbiamo sempre considerare che numerose culture frenano l’espressione non verbale delle emozioni (es.: quelle asiatiche), ma che anche questo dato è uno stereotipo comunicativo, di valenza solo probabilistica e non consegna certezze.

In sintesi, le tecniche principali per un accolto efficace sono:

  • curiosità e interesse;
  • parafrasi: ripetere con le proprie parole quanto capito (questo non equivale ad essere d’accordo con quanto detto dall’altro);
  • sintesi e riassunti: riformulare la “storia” nei suoi punti salienti, per consolidare quanto raccolto;
  • dirigere l’ascolto tramite domande mirate (ricentraggio conversazio­nale) per far luce sui punti ancora oscuri o i passaggi ancora non ben chiari;
  • evitare domande eccessivamente personali finché non si sia creato un rapporto solido e “caldo”;
  • offrire al parlante la possibilità di dare feedback sul fatto che quanto capito sia corretto, accurato o invece distorto o lacunoso;
  • ascoltare non solo le parole ma anche i segnali non verbali per valutare sentimenti e stati d’animo;
  • verificare la corretta comprensione sia dei sentimenti che del contenuto, non ignorare l’aspetto dei sentimenti;
  • non dire alle persone come dovrebbero sentirsi o ciò che dovrebbero pensare (nella fase di ascolto, limitarsi a trarre informazioni, senza voler insegnare o valutare).

 

Ancora una volta, sottolineiamo che questi atteggiamenti sono preziosi e determinano la qualità della fase di ascolto, ma non vanno confusi con gli obiettivi di tutta la negoziazione (che prevede sia fasi di ascolto che fasi propositive e affermazioni anche dure o assertive).

In una negoziazione è possibile (ed è anzi uno degli obiettivi strategici) modificare ciò che gli altri pensano (ristrutturazione cognitiva e persuasiva) o come gli altri si sentono (azione emozionale), ma questo obiettivo verrà perseguito solo ed unicamente se prima il negoziatore sia riuscito a porre in essere un ascolto attivo, attivando l’empatia necessaria per capire in quale quadro si stia muovendo.

Copyright

Strategic selling. Psicologia e comunicazione per la vendita consulenziale e le negoziazioni complesse

Con commenti e note inedite dell’autore

Anticipare gli scenari: anteprime esclusive dalle pubblicazioni del Journal of Consumer Research
In questa serie, analizziamo in anteprima alcuni studi di frontiera della ricerca sulla psicologia del marketing. Questi contributi dello Studio Trevisani sono promossi dal dott. Daniele Trevisani, formatore aziendale Senior, esperto in Potenziale Umano e autore di “Psicologia di Marketing e Comunicazione“. Scopo di queste anticipazioni è aiutare le imprese Italiane e i manger Italiani ad avere un accesso diretto alle fonti primarie di conoscenza ed evoluzione del settore, anticipare alcuni dei concetti chiave che emergono dalla ricerca mondiale, e capire dove deve dirigersi la formazione aziendale seria,  impegnata, ricentrata su obiettivi formativi importanti e reali.
“La conoscenza e la formazione sono la materia prima dei nostri competitor. In questo ring, chi non sale preprato ha già perso” (Daniele Trevisani).
GS066010[1]Studio esaminato e commentatoConsumer Anger Pays Off: Strategic Displays May Aid Negotiations
(data di uscita: dicembre 2009)
Lo studio esamina le dinamiche degli emotion gaming (letteralmente, giochi di emozioni che avvengono durante le interazioni umane).
Si concentra in particolare espressioni emotive dei clienti e consumatori durante le trattative, in particolare le espressioni di rabbia e la modalità con cui essa viene “trattenuta” (de-escalation) o “esagerata” (escalation) durante le fasi finali di una trattativa.
Le conclusioni evidenziano come i negoziatori impegnati sul fronte della vendita siano in realtà sensibili alle espressioni emotive, arrivando a concedere maggiormente di fronte a clienti arrabbiati. Questo, tuttavia, ha una importante eccezione, il fatto che la percezione del comportamento del cliente sia effettiva e non sia generata “ad arte” per ottenere di più. In questo caso, il venditore riconosce la strategia in atto e riduce le proprie offerte.
Nostra sintesi sulle implicazioni pratiche nel business to business: sia chi vende che chi compra può trovarsi a fronteggiare buyer o venditori estremamente preparati ad agire in modo “teatrale” nell’espressione emotiva, e diventare “pilotato”. Può arrivare a concedere di più di quanto dovuto, o non capire i “giochi emotivi in corso”, e quanto questi siano reali o invece strategici. Chi vuole essere efficace deve realizzare training specifici sul riconoscimento degli stati emotivi durante le trattative e le comunicazioni aziendali quotidiane, ad esempio nelle vendite, negli acquisti, nei call-center, nel personale di front-line e di vendita di sportello, nel personale di assistenza e di servizio.
Ma non solo: chi vuole dare maggiore risalto alla propria capacità negoziale, dovrà apprendere tecniche specifiche di espressione emotiva, senza risultare in alcun modo “recitativo”, ma assolutamente sincero e reale, pena la nullità di qualsiasi effetto o addirittura la creazione di effetti boomerang. Ancora più importante è il contesto delle negoziazioni internazionali e interculturali, dove ogni cultura ha proprie specifiche modalità di esprimere emozioni quali la rabbia o realizzare pressing durante le negoziazioni. Questo aumenta la necessità per i manager, le aziende  e i comunicatori che operano sui mercati internazionali di conoscere la gestione cross-culturale delle espressioni emotive, e gli stili negoziali e comunicativi locali.
Nel business-to-consumer, e soprattutto nei punti vendita, vi sono una molteplicità di ruoli che si trovano costantemente, giorno dopo giorno, a fronteggiare clienti arrabbiati o emotivamente alterati (call-center, sportelli informativi, uffici relazioni con il pubblico, info-points, centri di ascolto, centri di assitenza). La formazione di questi operatori sulla capacità di gestire efficacemente le proprie emozioni e riconoscere i giochi emotivi in corso sembra da questo studio ancora più fondamentale rispetto ad un semplice fenomeno prima relegato a margine delle attività “aziendalmente pesanti”, e consolida la visione della formazione del personale di front-line come priorità da cui dipendono diversi esiti aziendali.
Sintesi delle aree principali in cui questa ricerca trova applicazioni:
– formazione per i call center, formazione degli operatori di call-center
– vendita, formazione vendite
– acquisti, formazione acquisti
– negoziazione, formazione dei negoziatori
– negoziazioni internazionali
– servizi tecnici e di assistenza, formazione degli operatori
– comunicazione nei punti vendita
Testo originale dell’anteprima
Consumer Anger Pays Off: Strategic Displays May Aid Negotiations
The time-honored tradition of displaying emotions to try to get a better deal might
actually work, but inflating emotions can backfire, according to a new study in
the Journal of Consumer Research.
Authors Eduardo B. Andrade and Teck-Hua Ho (University of California,
Berkeley) set out to examine “emotion gaming,” the act of either concealing a
current emotional state or displaying one that diverges from one’s true state, in an
attempt to improve a social (or consumer) interaction. An example of “emotion
gaming” would be exaggerating anger while negotiating with a car dealer.
The researchers developed several experiments to test “emotion gaming.” In one
experiment, participants, who were told their payment was contingent on the
outcome of two tasks, played two games involving interactive decision-making.
In one game, the Dictator Game, a “proposer” was endowed with a pot of money
to be split with the “receiver.” The proposers were led to make unfair offers,
which the receivers had to accept. The Dictator Game’s purpose was to
manipulate anger.
After recording their anger levels from the Dictator Game, participants played
another game (the Ultimatum Game) meant to simulate a retail situation where a
proposer offered a division of money and a receiver had to accept or reject it.
However, a rejected offer meant that both players earned nothing. “The UG can
capture the very last phase of a complex negotiation involving multiple stages (for
example, buying a new car) where one party gives the final take-it-or-leave-it
offer before walking away from the negotiation table,” the authors explain.
Half of the receivers were informed that their last anger report would be shown to
proposers before proposers made offers. The results showed that receivers inflate
their levels of anger when they know that proposers will see their anger display
before deciding on an offer. And the receivers readily acknowledged their
strategic displays of emotions, believing them to be persuasive signals.
“Receivers do get a better offer from proposers as long as proposers have reason
to believe that their partners’ feelings are genuine. When proposers learn that
receivers might be inflating anger, the impact of emotion gaming on proposers’
offers goes away,” the authors conclude.
Eduardo B. Andrade and Teck-Hua Ho. “Gaming Emotions in Social
Interactions.” Journal of Consumer Research: December 2009.

Autore  del post: Daniele Trevisani

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Intervista in inglese a Daniele Trevisani, per la TV Danese, in qualità di esperto italiano in psicologia strategica e comunicazione.  La richiesta era di aiutare i danesi a capire alcuni meccanismi di psicologia della percezione sul successo politico di Berlusconi iniziato nel 1994, eperdurante alla data dell’intervista (2009), ad esempio come sia possibile compiere gaffe vistose che “forano” i media mondiali, ed essere comunque votati in patria…

…era una richiesta difficile ma anche una sfida. La conduttrice, prima dell’intervista, mi spiegava che voleva capire perchè Berlusconi venga spesso ridicolizzato o sottoposto ad ironia caustica, ma alla fine i dati dimostrano che nelle urne viene votato… Nel fare l’analisi ho cercato di mettermi il “camice bianco” del ricercatore di psicologia strategica, e compiere un’analisi asettica, spiegando alcuni dei fattori relativi alla percezione intra-culturale… in seguito ho ricevuto molti commenti di politici danesi che dicevano di avere finalmente capito qualcosa (es, sulla questione degli errori “comunicazionali”, e sui loro effetti psicologici che riducono di fatto la distanza semantica con l’elettore medio, distanza che le controparti non avevano saputo capire)… credo che per tutti gli appassionati e ricercatori di psicologia e strategia, “mettersi il camice bianco del ricercatore” faccia bene in alcuni momenti, per capire le cose nella loro natura più oggettiva e lasciarsi meno coinvolgere da stati umorali… alla fine un ricercatore deve fare questo sforzo e distinguere analisi da opinioni, per quanto sia difficile…

Copyright, testo originale di Daniele Trevisani, dal volume “Psicologia di Marketing e Comunicazione”, Franco Angeli editore, Milano, 2001.

Un aspetto semiotico aziendalmente rilevante è dato dalle modalità di descrizione del segno, tra cui l’analisi denotativa e l’analisi connotativa.

L’analisi connotativa richiede l’utilizzo di frame interpretativi (angoli di osservazione valoriali e sociali del prodotto). A seconda del punto di osservazione semiotico, infatti il prodotto diviene “segno” di un insieme di relazioni tra oggetti sociali. La pelliccia può divenire “segno” dell’appartenenza ad una classe agiata o di aspirazione ad appartenervi. Questo segno assume una valenza positiva o negativa in funzione del frame interpretativo adottato: un frame alto-borghese porterà alla decodifica della pelliccia come oggetto di classe e distinzione. Un frame ambientalista porterà ad una decodifica della pelliccia come sinonimo di superficialità del proprietario. Inoltre, connoterà in esso il possesso di valori antisociali, consumistici, antiambientalistici.

È il frame di osservazione, in altre parole, che determina il giudizio del prodotto e il suo luogo all’interno dei valori e significati del soggetto.

Mentre l’analisi denotativa si prefigge la descrizione “oggettiva”, non valutativa, dei contenuti manifesti del prodotto o del messaggio, l’analisi connotativa si prefigge di stabilire le associazioni di significato legate al segno.

analisi denotativa, analisi connotativa
analisi denotativa, analisi connotativa

Definire la funzione semantica del prodotto permette di capirne il suo significato sociale e simbolico, i vincoli e le barriere che esso può incontrare, i motivi di accettazione e rifiuto che esso incontra sul mercato.

Principio 10 – Carica simbolica  – loading semantico del prodotto

· Gli effetti pragmatici (vendite, reazioni del mercato) derivano dalla capacità di definire le componenti sintattiche del prodotto (forme, strutture, e caratteristiche) e le componenti semantiche (valenze culturali e valoriali, simbolismi ed associazioni).

· Il valore del prodotto aumenta al crescere della carica simbolica che esso assume.

Materiale estratto dal libro di Daniele Trevisani (2002), “Psicologia di marketing e comunicazione”, FrancoAngeli Editore, Milano. Copyright. Pubblicato per concessione dell’autore da www.studiotrevisani.it.
E’ consentita la riproduzione solo con citazione dell’autore e del volume originario.

Altre risorse su:

 

La semiotica si occupa di analizzare i livelli di lettura dei segni. Possiamo infatti distinguere tra diversi livelli di interpretazione del segno o messaggio:

 

  • Sintattica: analisi della struttura del segno o messaggio;
  • Semantica: analisi dei significati;
  • Pragmatica: analisi di impatto, analisi degli effetti pratici del segno, cambiamento indotto dal segno sul ricevente, modificazioni di atteggiamento.

 

Ciascun livello di lettura ha una funzione specifica, e altrettanto specifiche implicazioni aziendali. Tra i ricercatori che più hanno approfondito gli studi di semiotica del prodotto e della comunicazione pubblicitaria, è necessario evidenziare i lavori di David Mick, pioniere nell’applicazione di metodi scientifici di misurazione dell’impatto semiotico della comunicazione di marketing (vedi Mick, 1986, 1989, 1991; Mick e DeMoss, 1990).

Vediamo più in dettaglio le peculiarità di questi diversi livelli di lettura della comunicazione aziendale, e più in generale del “segno” aziendale:

Altri problemi posti dalla semiotica sono dati dal livello di intenzionalità dei segni. Eco (1987)[1] sottolinea come alcuni comportamenti “appaiono capaci di significare anche se chi li emette non è cosciente di significare attraverso di essi”, e questo può dare luogo a una “commedia degli equivoci intessuta di arrière pensées, reticenze, doppi giochi e così via” (cfr Eco, 1973,[2] in Eco, 1987). Ogni azienda deve rendersi conto di un dato di fatto: come sottolinea Watzlawick, non è possibile non comunicare. Ogni dettaglio, ogni parola, ogni elemento, proietta un’immagine, e incide sulle scelte del cliente.

 

 

 

 

livelli di analisi
livelli di analisi

 

Mentre per gli indici le associazioni sono comprensibili ed immediate (es: Rolls Royce indice di denaro, muscoli indice di forza, occhiaie indice di stanchezza), le interpretazioni dei simboli, essendo arbitrarie, devono essere concordate tra emittente e ricevente, costruendo un codice di comunicazione (sistema di regole che associa forme a significati), o ricorrendo ai codici di comunicazione già esistenti nella società.

Ciascuna società, tuttavia, utilizza codici che sono frutto della sua storia e del suo passato, ed è quindi sbagliato pretendere o dare per scontato che i simboli funzionanti in una cultura funzionino anche in un’altra cultura. Le differenze culturali agiscono fortemente sulla comunicazione internazionale d’impresa, anche se le contaminazioni culturali tendono, nel corso del tempo, ad omogeneizzare alcuni codici di comunicazione internazionale.

Ciascun simbolo si presta a diversi livelli di lettura. È necessario quindi considerare la molteplicità di interpretazioni che, in chiave simbolica, qualsiasi elemento è in grado di assumere, e anticipare le possibilità di errore e devianza interpretativa che possono avvenire.

Ricerche svolte dall’autore[1] hanno evidenziato che l’utilizzo di un logo aziendale (il simbolo di una mano aperta) può avere riflessi simbolicamente neutri per alcune culture, per altre culture può assumere significati negativi (nello specifico, una connotazione di “stop”), in altre ancora può produrre significati ancora più negativi. Ad esempio in Grecia il simbolo della mano aperta è un modo non verbale di offendere, di dire “sei stupido”, e un packaging che incorpora tale simbolo troverà ostacoli culturali molto forti in quel paese.

In generale, in ogni nazione o area culturale esistono simbologie negative che le aziende devono attentamente evitare di inserire all’interno della propria comunicazione. Una nota casa di pneumatici ha dovuto ritirare dai mercati mondiali un suo prodotto il cui battistrada riproduceva sul terreno non asfaltato un disegno simile a versetti coranici. Questo è risultato molto offensivo per tutti i mercati in cui la religione islamica è dominante, e l’azienda si è vista costretta a ritirare il prodotto, fornendo inoltre scuse ufficiali.


[1] Eco, U. (1987). Trattato di semiotica generale. Milano: Bompiani.

[2] Eco, U. (1973). Il segno. Milano: Isedi.


[1] Daniele Trevisani (1991). Corporate Symbols and Corporate Image. University of Florida.

 

 

  Interpretazione semiotica e valenza simbolica del prodotto

Oltre alla psicologia del prodotto, anche la semiotica del prodotto è in grado di fornire un contributo all’interpretazione di cosa accade nella mente del consumatore, tramite numerose tecniche di analisi.

Alla base della dottrina semiotica si colloca il concetto di “segno”. Riprendendo uno dei principali semiologi mondiali, Umberto Eco (1987)[1], «è segno ogni cosa che possa essere assunto come un sostituto di qualcos’altro».

Il segno, nel metodo ALM, costituisce un importante punto di riferimento concettuale. Ad esempio, rappresenta un segno aziendale la carta intestata, il logo, il packaging del prodotto (e questo è abbastanza evidente). Quello che dobbiamo sottolineare, è che anche la modalità di risposta telefonica, l’abbigliamento di un manager, lo stato d’uso di un’auto aziendale, o un quadro alla parete in un corridoio, possono assumere la funzione di “segno” per un cliente. Essi diventano “sintomi dello stato di salute aziendale”, veicoli da cui fuoriesce informazione sulla cultura aziendale e sulla potenziale qualità.

I segni vengono suddivisi in categorie in base alle diverse proprietà assunte:

 

§  Icone: hanno proprietà di rassomiglianza. Ad esempio una fotografia di un prodotto rappresenta un’icona del prodotto.

§  Indici: sono significati tramite relazioni causali. Ad esempio il fumo è indice di un incendio possibile. Un balbettio può indicare nervosismo durante una trattativa.

§  Simboli: stabiliscono convenzioni arbitrarie tra un significato e un’entità. A differenza delle Icone, non hanno una proprietà di rassomiglianza.  Ad esempio, una parola (non onomatopeica) per indicare un concetto.

 

In termini aziendali, questi concetti si prestano alla realizzazione di diversi tipi di analisi sviluppate nel metodo dall’autore:

 

§  Analisi iconica del prodotto/comunicazione: ha lo scopo di evidenziare correlazioni di rassomiglianza tra elementi visivi (ma anche provenienti da altri sensi) di un prodotto e sensazioni/ricordi provocate da questi elementi. Così come una fotografia di un prodotto rappresenta un’icona del prodotto, i fanali di alcune auto possono essere disegnati per ricordare, in qualche modo, gli occhi di un felino. Oppure, un abito può essere costruito in modo tale da ricordare l’abbigliamento di un guerriero, ed ancora un PC può essere costruito in modo tale da ricordare un oggetto fantascientifico.

§  Analisi indicale del prodotto/comunicazione: rappresenta l’analisi di tutto ciò che, nel prodotto o nella comunicazione d’impresa, possa essere utilizzato come “indicatore di”, segnale di qualcos’altro (es: una prestazione). Ad esempio, un marchio di qualità viene utilizzato per indicare una possibile qualità elevata. Una sede prestigiosa può essere utilizzata come indicatore di stabilità finanziaria. Una brochure raffinata può essere utilizzata come indicatore di cura dei dettagli.

§  Analisi socio-simbolica del prodotto: L’analisi socio-simbolica si prefigge di determinare le valenze sociali e culturali che correlano un prodotto, un suo elemento, o un modo di consumarlo, a dei concetti sociali, politici, a delle sfere di significati e valori riconosciuti all’interno di un gruppo. Un’analisi simbolica può determinare che valenza sociale assuma il possesso di un certo marchio di occhiali all’interno di un gruppo, quali connotazioni si leghino al suo possesso, cosa significhi per un ragazzo portare l’orecchino, che connotazioni assume la maglia sociale per i tifosi di un club, che implicazioni ha una certa capigliatura, quali inferenze sulla personalità del proprietario vengono svolte a seconda dell’auto posseduta, ecc.

 

Nel campo informatico, è nota agli operatori del settore la querelle culturale e fortemente ideologica tra fautori dei sistemi Macintosh, Linux e sistemi Windows, in cui traspare simbolicamente tutta la lotta all’imperialismo, il mito di Davide contro Golia, la volontà di emanciparsi dai monopoli, che pervade certa cultura, dal Cyberpunk al mondo della grafica e della comunicazione. La semiotica sociale e culturale si presta all’analisi di queste dinamiche, e non solo come esercizi di stile. La comprensione delle dinamiche semiotiche del mercato permette di capire cosa vi sia alla base di fenomeni dalle enormi implicazioni economiche su scala mondiale, quali le lotte tra sistemi operativi e il controllo del mercato informatico, e di ogni altro mercato ove i marchi assumono valenze e simbologie sociali.



[1] Eco, U. (1987). Trattato di semiotica generale. Milano: Bompiani.

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Materiale estratto dal libro di Daniele Trevisani (2002), “Psicologia di marketing e comunicazione”, FrancoAngeli Editore, Milano. Copyright. Pubblicato per concessione dell’autore da www.studiotrevisani.it.
E’ consentita la riproduzione solo con citazione dell’autore e del volume originario.

Le persone, sia come consumatori singoli che come decisori aziendali (buyer[1]), esprimono nei propri comportamenti tutta la natura umana, in cui subentra, spesso, un versante di irrazionalità e di scelte poco spiegabili.

Forniamo, in via iniziale, una prima tipologia di moventi d’acquisto:

 

§  pulsioni conscie: gli impulsi d’acquisto che derivano da valutazioni razionali, consapevoli e quasi-scientifiche della convenienza di acquisto in relazione ad un’analisi accurata dei propri bisogni (personali o aziendali);

§  pulsioni subconscie: gli impulsi d’acquisto che derivano da associazioni inconsapevoli o solo parzialmente consapevoli tra l’atto d’acquisto e l’eliminazione di problemi reali o potenziali. Le pulsioni subconscie sono prevalentemente di natura culturale e ontogenetica (influssi che il soggetto ha subito durante la sua crescita e sviluppo, partendo dalla nascita);

§  pulsioni inconscie: gli impulsi d’acquisto governati da dinamiche non percepite dal soggetto, soprattutto provenienti dalle pulsioni ancestrali, istintuali, genetiche, recondite, le quali agiscono sull’individuo senza che egli stesso ne sia consapevole. Tali impulsi sono prevalentemente dovuti ad aspetti psicobiologici, associati a pulsioni derivanti dalla filogenesi dell’individuo (influssi che derivano dalla storia della specie e dalla sua biologia).

 

Un esempio di pulsione conscia è dato dalla percezione della necessità di possedere un ombrello se piove molto, o dotarsi di un mezzo di trasporto per raggiungere il lavoro, scegliendo accuratamente tra le diverse alternative esistenti (auto, treno, autobus, bicicletta, ecc..) e valutandone pro e contro razionalmente.

Un esempio di pulsione subconscia avviene durante la scelta di un capo di abbigliamento da parte di un impiegato di banca, nella quale egli a priori – inconsapevolmente – esclude dal campo delle proprie scelte soluzioni tipo babbucce orientali, tuniche africane o perizomi indiani, includendo invece mocassini o abiti “giacca e cravatta” o tuttalpiù maglioni e polo. Il fatto che la scelta avvenga all’interno di un “set mentale” di prodotti occidentali non è  completamente consapevole, e risponde ad esigenze di conformità spesso latenti e subconscie. Per quale motivo plausibile, razionale, un impiegato di banca non dovrebbe recarsi al lavoro in perizoma d’estate quando fa molto caldo? Proviamo ad anticipare le reazioni (dei colleghi, dei clienti) a questo comportamento, e lo capiremo immediatamente. Una pulsione subconscia alla conformità culturale è presente in moltissimi acquisti, senza che i consumatori se ne rendano conto.

Un esempio di pulsione inconscia è dato dal movente per cui un ragazzo maturo, non sposato o fidanzato, decide di recarsi in una palestra. In questa scelta può esistere un desiderio sottostante di aumentare la propria attrattività riproduttiva, ed acquistare maggiori chance di trasmettere i propri geni. Questo movente fisiologico e genetico, di origine animale, può avvenire al di fuori della consapevolezza della persona stessa.


[1] Il termine “buyer” viene utilizzato nel corso del testo per indicare la persona responsabile degli acquisti, o chi comunque assume un ruolo di cliente, acquirente, decisore o controparte rispetto al venditore.

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Materiali dal volume di Daniele Trevisani (2002) “Psicologia di Marketing e Comunicazione. Pulsioni d’acquisto, leve persuasive, nuove strategie di comunicazione e management”. Milano, Franco Angeli editore, Copyright. Selezione a cura dell’autore (www.studiotrevisani.it) per soli scopi didattici e di ricerca. È proibita la modifica non autorizzata. È consentita la riproduzione e inserimento in tesi, papers, ricerche o materiali didattici o aziendali, avendo cura di citare adeguatamente il volume da cui deriva e l’autore.