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Parlare in pubblico

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Retorica (Aristotele)

Nel Trattato “Retorica” Aristotele introduce l’analisi di temi che oggi sono molto in voga, molto popolari e falsamente attribuiti a scienziati o autori contemporanei. Leggendo questo articolo scoprirai che i concetti di intelligenza emotiva, di persuasione emotiva, di stili comunicativi, di comunicazione efficace, e tanti altri temi, erano già stati trattati ed esaminati accuratamente da Aristotele nel 4° Secolo Avanti Cristo.

 

La Retorica (Τέχνη ῥητορική o anche Περὶ ῥητορικῆς) è una delle opere di Aristotele, quelle opere cioè composte dal filosofo per essere studiate dai suoi allievi nel Liceo. L’opera, composta durante l’ultima fase della vita dello Stagirita, e successiva alla Poetica (quindi al 330 a.C.), raccoglie le riflessioni relative alla retorica sviluppate da Aristotele nel corso della propria esistenza.[1]

Il testo è composto da tre libri, per ciascuno dei quali, seguendo Roland Barthes, è individuabile un argomento preciso: il Libro I è dedicato alla figura dell’oratore; il Libro II tratta del pubblico; il Libro III, più breve, affronta invece il tema del discorso vero e proprio.[2] Inoltre, nel trattato sono distinguibili due fasi di stesura: ad una prima fase, caratterizzata dallo studio degli elementi entechnoi (propri della retorica in quanto techne), corrisponde a quanto scritto nel Libro I (eccetto il cap. 2 e parte del 15), mentre una seconda fase è riconoscibile nei due libri successivi.[3]

Libro I: l’oratore

Il libro che apre la Retorica aristotelica è dedicato alla figura di colui che emette il messaggio: l’oratore. Aristotele qui propone una definizione della retorica in quanto techne, analizzando poi i tre tipi di discorso (giudiziario, deliberativo, epidittico) e i tipi di argomentazione, nella misura in cui vengono scelti dal retore per adattarsi al pubblico.

La definizione della retorica

Aristotele definisce la retorica come «la facoltà di scoprire il possibile mezzo di persuasione riguardo a ciascun soggetto» (I, 2, 1355b). Tale capacità è sua peculiare, e la differenzia dalle altre technai, le quali si occupano sì di persuadere un pubblico, ma unicamente riguardo agli argomenti specifici di cui trattano. Diversamente da quanto affermava Platone nel Gorgia, Aristotele dunque attribuisce alla retorica il titolo di techne, più precisamente l’unica techne in grado di produrre persuasione (pythanon) riguardo a qual si voglia argomento proposto.[4] Oggetto della retorica non è la aletheia (verità), ma l’eikós (possibile, verosimile), ovvero ciò che è valido nella maggior parte dei casi, relativamente a tutto ciò che ammette una situazione differente dalla tesi sostenuta (1357b).

Ciò rende la retorica «speculare alla dialettica» (I, 1, 1354a):[5] entrambe infatti si occupano di argomenti la cui conoscenza è patrimonio condiviso di tutti gli uomini, e non appartenenti ad una scienza specifica. In questo senso, è comprensibile l’importanza che Aristotele conferisce all’entimema (ἐνθύμημα), il cosiddetto «sillogismo retorico» basato su premesse probabili (éndoxa): la dialettica si occupa di sillogismi, la retorica di entimemi (I, 1, 1355a). La retorica è utile perché, attraverso l’entimema, è in grado di indagare le verità scientifiche, confutare gli avversari o difendere se stessi da accuse e critiche. Diverso è invece il caso dell’esempio (paradeigma), definito da Aristotele una «induzione retorica» (I, 2, 1356b). Quest’ultimo, infatti, mira a dimostrare la tesi attraverso casi analoghi ai fatti trattati – la medesima cosa che fa la dialettica attraverso l’induzione. Si spiega così il motivo per cui la Retorica fu talvolta inserita (insieme alla Poetica) tra le opere di logica nella versione estesa dell’Organon.

I tipi di argomentazione

La qualità della retorica sta nel trovare, per qualsiasi argomento, i mezzi di persuasione (reali o apparenti) più utili al proprio fine. Aristotele passa così in rassegna i vari tipi di argomentazione (pisteis), suddividendole in «tecniche» (entechnoi) e «non tecniche» (atechnoi). Le argomentazioni non tecniche sono quelle che non vengono fornite dal retore, ma che sono preesistenti – come le testimonianze, le confessioni sotto tortura, i documenti scritti (I, 2, 1355b). Le argomentazioni tecniche, invece, dipendono dal retore e si possono ottenere applicando un metodo. Queste ultime sono così classificate (I, 2, 1356a1-20):

  • – Argomentazioni che realizzano la persuasione grazie al carattere dell’oratore. L’ascoltatore accorda maggiore fiducia ad un oratore che dimostra di conoscere prontamente l’argomento di cui sta parlando; diversamente, risulta poco credibile chi propone varie opinioni su un argomento, piuttosto che una certezza assoluta. Il carattere dell’oratore rappresenta quindi l’argomento più forte. E’ il tema che oggi nelle scienze della persuasione viene identificato come “fattore Expertise”, parte della “Source Credibility”, la credibilità della fonte.
  • – Argomentazioni che realizzano la persuasione predisponendo l’ascoltatore in un dato modo. Il retore che voglia riuscire a persuadere il proprio pubblico deve anche tenere conto dei sentimenti e delle emozioni che il suo discorso genera negli ascoltatori, poiché i sentimenti influenzano inevitabilmente i giudizi. E’ il tema che oggi viene definito come Intelligenza Emotiva e Competenze Emotive.
  • – Argomentazioni che realizzano la persuasione unicamente grazie al discorso. È il caso dei discorsi che dimostrano la verità (reale o apparente) di una tesi mediante gli opportuni mezzi di persuasione.

Tali considerazioni, afferma Aristotele, dimostrano ancora una volta che la retorica è una techne comprensibile solo da chi è in grado di ragionare logicamente, e di riflettere attorno a caratteri, virtù ed emozioni. In secondo luogo, il filosofo ribadisce che la retorica è una ramificazione della dialettica, nonché una filiazione dell’etica e della politica.[6]

I tre tipi di discorso

Aristotele termina il Libro I analizzando i tre tipi di discorso.

  • – Discorso deliberativo (γένος συμβουλευτικόν). Di questo tipo di retorica fanno parte i discorsi di esortazione e dissuasione, siano essi privati (consigli o rimproveri) o pubblici (è il caso di leggi e costituzioni). Un discorso deliberativo tratterà dunque temi politici o morali, e i suoi fini saranno la felicità e il bene; inoltre, avendo per oggetto decisioni in vista dell’avvenire, il suo tempo di riferimento è il futuro (capp. 4–8).
  • – Discorso epidittico (γένος ἐπιδεικτικόν). Il genere inventato da Gorgia, ha come scopo la lode e il biasimo. La retorica epidittica mira infatti a dimostrare la virtù e l’eccellenza di una persona, attraverso le varie forme di elogio, e per questo si riferisce al presente (cap. 9).
  • – Discorso giudiziario (γένος δικανικόν). È il tipo di retorica utilizzato nei tribunali, per difendere o accusare un imputato. Fa largo uso di argomentazioni non tecniche (leggi scritte e non scritte, testimonianze, contratti), e cerca di indagare la causa di un’azione delittuosa, tentando anche di determinare se un’azione è peggiore di un’altra. Il suo tempo di riferimento è il passato (capp. 10–15).

Per ricorrere a queste tre tipologie è necessario conoscere le premesse proprie della retorica (prove, probabilità e segni), e le caratteristiche specifiche del genere utilizzato (ovvero il tempo verbale da impiegare, i tipi di argomentazione e via dicendo).

Libro II: il pubblico

Il Libro II è dedicato al pubblico, ovvero chi riceve il messaggio. Aristotele tocca i temi delle emozioni e analizza come le argomentazioni sono recepite dal pubblico. E’ una vera e propria trattazione di quello che oggi viene chiamato “public speaking” e insegnato in tanti corsi di formazione sul parlare in pubblico.

Emozione e persuasione

La retorica, afferma Aristotele, esiste in funzione di un giudizio: ogni deliberazione deve essere giudicata, e in ciò svolgono un ruolo fondamentale sia l’atteggiamento del retore (ethos), sia la disposizione d’animo di chi ascolta (pathos). La retorica infatti mira a persuadere un uditorio della bontà di certe affermazioni, e per fare ciò è necessario non solo curare i discorsi, ma anche il modo in cui l’oratore si presenta, così da adattare gli argomenti ai sentimenti del pubblico che si ha di fronte (II, 1, 1377b).[7] Le emozioni infatti alterano le opinioni degli uomini, e sono in grado di modificare i giudizi in base a piacere o dolore (1378a). Più nello specifico, lo Stagirita afferma che nella retorica deliberativa è più importante il carattere dell’oratore, mentre i sentimenti del pubblico sono centrali nel genere giudiziario.

Per quanto riguarda l’oratore, questi deve possedere essenzialmente tre doti: saggezza (phronesis), virtù (areté) e benevolenza (eunoia). Un oratore che non abbia opinioni corrette riguardo all’argomento di cui sta trattando, o che per malvagità nasconda certi particolari o non sia in grado di dare buoni consigli, non riuscirà ad essere persuasivo. D’altra parte, il buon oratore deve anche saper sfruttare le emozioni a proprio vantaggio, riuscendo a suscitare nel pubblico quelle più adatte ai suoi scopi. Per questo motivo, Aristotele dedica larga parte del Libro II (capp. 2–11) a studiare le varie emozioni, dandone una definizione e analizzando le circostanze e le persone con cui si è solito provarle. Nell’ordine, il filosofo parla di: colleramitezzaamicizia e inimicizia (amore e odio), timore, vergogna, gentilezza e sgarbatezza, pietà, sdegno, invidia, emulazione.

È interessante notare che, rivolgendosi qui allo studio delle passioni, Aristotele si rifà alla lezione dei sofisti e dei pitagorici, per i quali era centrale il tema della psicagogia.[8] Nel riconoscimento dell’importanza delle emozioni, che in questo modo vanno ad affiancarsi alle dimostrazioni come portatrici di persuasione, è inoltre ravvisabile il passaggio dalla prima alla seconda fase dello studio della techne rhetoriké da parte dello Stagirita.[9]

I caratteri

Una volta analizzate le emozioni, l’attenzione di Aristotele si sposta sui caratteri (ethoi). Il filosofo analizza anche qui i vari tipi di caratteri, suddividendoli in base alla condizione dell’uditore: il giovane, il vecchio e l’uomo maturo, e in seconda battuta il nobile, il ricco e il potente. I giovani sono inclini a seguire i desideri, ragion per cui sono passionali, incostanti e volubili, e desiderano soprattutto onori e ricchezza; la loro indole è buona, in quanto vergine delle malvagità della vita, e pertanto sono più propensi a provare fiducia e a ritenere le persone migliori di quanto non siano; infine, i giovani nutrono grandi speranze, poiché potenzialmente hanno davanti a sé un lungo futuro (cap. 12). Diversa è la situazione dei vecchi, che vivono di ricordi e sono spesso cinici, diffidenti e sospettosi per l’esperienza del mondo; essi inoltre non «sanno» niente, semmai «credono», e non sono in grado di affermare qualcosa con fermezza, ma vivono attaccati alle proprie ricchezze e giudicano le cose in modo deteriore (cap. 13). Tra questi due tipi, si collocano gli uomini adulti e maturi, che perseguono un certo equilibrio nei desideri, come nelle emozioni (cap. 14).

Oltre all’età, gioca un ruolo importante la condizione sociale ed economica. Gli uomini nati da una famiglia nobile sono individui con grandi ambizioni, ma sprezzanti delle condizioni altrui, che considerano inferiori alla propria (anche se, aggiunge Aristotele, i nobili per nascita sono in genere persone di scarso valore, e addirittura, con il passare delle generazioni, le stirpi più insigni danno luogo a caratteri folli, quando non degenerano nella stupidità e nel torpore; cap. 15). La ricchezza genera invece caratteri arroganti, insolenti: i ricchi credono infatti di poter valutare e ottenere tutto con il denaro, e questa grettezza li porta a essere dissoluti e boriosi, e a ostentare il proprio benessere – ovvero, i ricchi sono «sciocchi fortunati» (cap. 16). Chi detiene il potere, infine, è senz’altro più ambizioso ed energico dei ricchi, poiché ha la possibilità di compiere grandi imprese, e il fatto di essere un uomo in vista lo costringe ad essere temperante (cap. 17).

L’argomentazione logica

Infine, Aristotele torna sulle argomentazioni (capp. 18–26). Come già si è detto riguardo al Libro I, quelle più comuni sono di due tipi: l’esempio e l’entimema.

L’esempio, dice Aristotele, deriva dall’induzione, la quale è il principio grazie a cui è possibile un ragionamento.[10] Gli esempi, a loro volta, possono essere inventati dall’autore (è il caso delle favole o degli apologhi); oppure essere tratti dalla realtà (avvenimenti realmente accaduti, fatti storici e così via); l’importante è però che abbiano qualche analogia con l’oggetto del discorso.

All’esempio si deve però preferire, laddove è possibile, l’entimema (II, 20, 1394a), poiché, essendo simile al sillogismo, deve essere utilizzato per le dimostrazioni (siano esse di sostegno o contrasto a una tesi; II, 22, 1396b), e in questo caso l’esempio può fungere da premessa. L’entimema parte infatti da quegli assunti la cui validità viene riconosciuta dall’uditorio o dal giudice che si ha di fronte, in modo che chi ascolta abbia coscienza dell’evidenza degli argomenti. Quattro sono i tipi di premesse da ognuno dei quali deriva un tipo diverso di entimema: dalla prova (tekmerion) l’entimema apodittico, dall’esempio l’entimema induttivo, dal verosimile l’entimema anapodittico e dal segno l’entimema asillogico. Di questi, l’entimema anapodittico e quello asillogico sono entimemi apparenti, poiché non hanno carattere di necessità.

Connessa all’entimema e all’argomentazione logica è anche la teoria dei luoghi (topoi), descritta nel cap. 2 del Libro I. I luoghi, che caratterizzano i sillogismi e gli entimemi, possono essere comuni o propri: i primi riguardano cause di carattere generale, mentre quelli propri sono relativi a una determinata specie o un determinato genere. Il luoghi comuni possono a loro volta suddividersi tra quelli degli entimemi reali e quelli degli entimemi apparenti, per ciascuno dei quali sono riportati degli esempi al cap. 18.[11]

Infine, Aristotele parla dell’importanza delle massime, intese come affermazioni «di carattere universale» riguardanti ciò che può essere scelto in relazione ad un’azione. Esse hanno una certa efficacia sul pubblico, soprattutto se si rifanno a concetti generalmente bene accettati da chi sta ascoltando; nel caso contrario, bisogna ricorrere all’entimema, la cui conclusione sarà, appunto, una massima (II, 21, 1394a).

Libro III: il messaggio

Il Libro III è infine dedicato al messaggio vero e proprio: è il luogo della lexis (la latina elocutio), delle varie figure da utilizzare nei discorsi, e della taxis (quella che Quintiliano chiama dispositio).[12]

Lo stile

Per essere persuasivi non basta avere degli argomenti solidi, ma bisogna anche saperli disporre, ordinandoli in modo appropriato e scegliendo lo stile di volta in volta più consono al contesto. Per questo motivo bisognerà avere particolare cura nelle scelte lessicali, in modo che il discorso soddisfi i requisiti di chiarezza e convenienza. A questo scopo è possibile ricorrere anche al lessico poetico e alle figure retoriche, e fare uso di paragoni, similitudini e metafore (cap. 2). Inoltre, anche il tono dovrà adattarsi, elevandosi o abbassandosi quando è necessario, e rispettare un certo ritmo nella prosa per non riuscire sgradevole. Un ruolo importante avrà infine anche la recitazione, nel caso il discorso sarà orale (diverse sono ovviamente le specifiche per il discorso scritto).

In particolare, Aristotele qui si sofferma sulla metafora, in quanto elemento in comune tra poesia e retorica. È infatti opinione diffusa che l’elocuzione abbia avuto origine dalla poesia, e che solo in un secondo momento l’eloquenza in prosa (retorica) si sia distaccata da quella poetica; Tuttavia, la retorica ha mantenuto, per i propri fini, l’uso di espedienti poetici, come appunto la metafora, la quale risponde all’esigenza di chiarezza, piacevolezza e ricercatezza (III, 2, 1404b).[13] Sullo stesso piano si colloca inoltre l’impiego di antitesi, cioè la presenza di elementi opposti, i quali, se conosciuti, generano piacere in chi ascolta.[14]

Le parti dell’orazione

Aristotele conclude la Retorica analizzando le parti di cui si deve comporre un’orazione. In ogni discorso vi sono sempre due momenti fondamentali, l’enunciazione della tesi (prothesis) e la sua dimostrazione mediante argomentazioni (pisteis). Le altre parti che vengono indicate sono valide a seconda dei casi e dei generi di discorsi:

  • Esordio (prooimion): l’incipit del discorso, deve indicare chiaramente, qualora non lo si sappia già, quale sarà l’argomento di cui intende parlare.
  • Narrazione (diegesis): la parte centrale dell’orazione, non deve essere particolarmente lunga né troppo breve, ma deve esporre l’argomento secondo misura.
  • Dimostrazione (apodeixis): deve elencare le varie argomentazioni, proponendo le prove a sostegno della propria tesi e cercando di confutare quelle contrarie.
  • Epilogo (epilogos): la parte finale deve disporre l’ascoltatore favorevolmente nei confronti dell’oratore, aumentare la pregnanza delle tesi, suscitare reazioni emotive e infine ricapitolare quando si è detto.

Note

  1. ^ F. Montanari, Introduzione a: Aristotele, Retorica, a cura di M. Dorati, Milano 1996, p. XIX.
  2. ^ R. Barthes, La retorica antica, trad. it., Milano 20062, pp. 19-22.
  3. ^ A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Roma 1988, pp. 56.
  4. ^ Ben diverso è invece ciò che Socrate sostiene discutendo con Gorgia e Polo. Per Platone, infatti, essa non ha diritto al titolo di techne, bensì a quello di empeiria (abilità). Cfr. PlatoneGorgia 452d-455a.
  5. ^ “ἡ ῥητορική ἐστιν ἀντίστροφος τῇ διαλεκτικ” (La retorica è speculare alla dialettica). Sulle possibili traduzioni del termine antistrophos vedere Aristotele, Retorica a cura di Silvia Gastaldi, Carocci, 2014, p. 341. Sull’accezione aristotelica di dialettica si veda la voce Aristotele.
  6. ^ E. Garver, Aristotle’s Rhetoric as a Work of Philosophy, «Philosophy and Rhetoric», 19 (1986), p. 4.
  7. ^ E. Garver, Aristotle’s Rhetoric as a Work of Philosophy, cit., p. 15.
  8. ^ A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Roma 1988, pp. 62-3.
  9. ^ A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Roma 1988, p. 63.
  10. ^ L’induzione è necessaria per stabilire la premessa maggiore di un sillogismo. Cfr. Retorica 1393 a.
  11. ^ A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Roma 1988, pp. 66-7.
  12. ^ A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Roma 1988, p. 68.
  13. ^ A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Roma 1988, pp. 68-69.
  14. ^ A. Plebe, Breve storia delle retorica antica, Roma 1988, p. 70.

Bibliografia

Edizioni e traduzioni
  • Aristotele, Retorica, traduzione di Armando Plebe, in: Opere, vol. IX, Roma-Bari, Laterza, 19926 (prima edizione 1961)
  • Aristotele, Retorica, introduzione di Franco Montanari, traduzioni e note a cura di Marco Dorati, Milano, Mondadori, Milano 1996
  • Aristotele, Retorica e Poetica, a cura di Marcello Zanatta, Torino, Utet, 2002
  • Aristotele, Retorica, introduzione, traduzione e commento a cura di Silvia Gastaldi, Roma, Carocci, 2014
  • Aristotele, Rhetorica, a cura di Edward Meredith Cope, vol. 1, Cambridge, University Press, 1877, pp. 303.
  • Aristotele, Rhetorica, a cura di Edward Meredith Cope, vol. 2, Cambridge, University Press, 1877, pp. 340.
  • Aristotele, Rhetorica, a cura di Edward Meredith Cope, vol. 3, Cambridge, University Press, 1877, pp. 270.
Saggi e bibliografia secondaria
  • R. Barthes, La retorica antica, Milano, Bompiani, Milano 1972
  • E. M. Cope, An Introduction to Aristotle’s Rhetoric, (1867), ristampa Hildesheim, Georg Olms, 1970
  • E. Garver, Aristotle’s Rhetoric as a Work of Philosophy, «Philosophy and Rhetoric»,. 19, (1986), pp. 1–22
  • F. Piazza, La Retorica di Aristotele. Introduzione alla lettura, Roma, Carocci, 2008
  • A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Roma-Bari, Laterza 1961

Voci correlate

 

Classificazione delle figure retoriche usate nella Persuasione

Classificazione tradizionale

Nello specifico, Quintiliano aveva distinto tropi e figure, e queste ultime in figure di parola (léxeos schémata in greco; figurae elocutionis o figurae verborum in latino) e figure di pensiero (schémata tês dianoías in greco; figurae sententiae in latino).[6][1]

Tutte le figure venivano poi catalogate secondo il mutamento (mutatio, ‘variazione’) e a questo proposito Quintiliano descrive una quadripartita ratio[7][1]:

  • adiectio: aggiunta di elementi linguistici, con conseguente ridondanza dell’espressione;
  • detractio: sottrazione di elementi linguistici, come avviene tipicamente nell’ellissi;
  • transmutatio: cambiamento della posizione di alcuni elementi linguistici, come avviene tipicamente nell’anastrofe;
  • immutatio: sostituzione di elementi linguistici tramite sinonimiaccrescitividiminutivi.

Classificazioni moderne

Le classificazioni tradizionali sono state più volte sottoposte a critica e molteplici sono stati i tentativi moderni di classificazione. Una classificazione particolarmente originale e rilevante è quella elaborata dal grammatico francese Pierre Fontanier (1765-1844) in Les figures du discours (1827-1830)[1].

La classificazione di Bonsiepe

Il teorico del design e scrittore tedesco Gui Bonsiepe distinse tra figure sintattiche e semantiche. Nello specifico, egli offre questa catalogazione[2]:

  • figure sintattiche
    • figure traspositive
    • figure privative
    • figure ripetitive
  • figure semantiche
    • figure contrarie
    • figure comparative
    • figure sostitutive

La classificazione del Gruppo μ

Il cosiddetto Gruppo μ (o Gruppo di Liegi) ha prodotto il tentativo più organico di classificazione delle figure, nell’opera Retorica generale, edita a Parigi nel 1970. Le figure sono definite come opere di trasformazione del linguaggio e vengono divise in[2]:

  • metaplasmi, che consistono in modificazioni morfologiche, quindi sul piano del significante;
  • metatassi, che consistono in modificazioni sintattiche, quindi relative alla struttura delle frasi;
  • metasememi, che consistono in modificazioni semantiche, quindi sul piano del significato;
  • metalogismi, che consistono in modificazioni logiche, cioè del valore logico di una frase nel suo complesso.

Rimuovere l’ansia nel parlare in pubblico grazie al “Frame Shift”. In cosa consiste? Consiste nello spostare completamente l’atteggiamento mentale dal “devo fare bella figura” al “cosa voglio aiutare il pubblico a capire?”

Nella modalità “devo fare bella figura”, al centro della scena ci sono io, si innesca l’ansia da prestazione, mi sento sotto i riflettori, giudicato, imbarazzato. Penso di “dover fare”, il piacere del fare sparisce sino a diventare un dovere.

Nella modalità “relazione di aiuto” mi motiva il fatto di voler far si che il pubblico capisca un certo concetto che voglio trasmettere, al di la della bella forma, al di la dei riflettori o dell’ambiente, io sarò contento quando sono riuscito ad aiutare il pubblico a capire quel concetto o riflettervi.

Si tratta di un cambiamento epocale, un “salto di paradigma” che fa praticamente sparire l’ansia di stato (l’ansia legata all’evento). Se persiste ancora ansia, quella è probabilmente un’ansia di sfondo, un’ansia “di stato”, che va trattata con il Counseling e la Psicoterapia, o con un Coaching, soprattutto attoriale e agito, per sbloccare il meccanismo sino alla massima fluidità.

Video tematico sul parlare in pubblico senza ansia concentrandosi sulla relazione d’aiuto

Perchè può persistere un senso di inadeguatezza nel parlare in pubblico anche dopo tanti corsi? Passare dal concetto di prestazione alla “relazione d’aiuto” verso l’audience, fare un cambio di paradigma (frame shift) L’ansia nel parlare in pubblico può essere superata. Come superare l’ansia nel parlare in pubblico? Cambiando l’atteggiamento di fondo, concentrarsi sul perchè voglio dire quella cosa, anzichè sul come la dirò e andare diritti al cuore delle persone con un messaggio che sentiamo dentro e vogliamo che anche gli altri sappiano

 

https://youtu.be/hP7wpfOB7kA

Un approfondimento derivato dal libro Self-power. Psicologia della motivazione e della performance, con note inedite dell’autore, Copyright © di Daniele Trevisani, Franco Angeli editore, Milano.

Emozioni Alfa ed Emozioni Beta

In ogni momento in cui ci esponiamo può scattare un’emozione, un’attivazione. Questo non è male, se l’emozione è positiva, il senso vibrante di fare, di agire, di esistere, di confrontarsi. Quando si colora di nero, quando l’attivazione si associa ad emozioni negative, abbiamo invece l’ansia.

 

Emozioni Alfa ed emozioni Beta

Un approccio che centri il fronte emotivo di come una persona vive gli obiettivi, deve procedere verso due specifiche aree di analisi

le emozioni viscerali che sento verso un certo effetto o end-state: sento davvero mio un certo obiettivo? Lo sento come qualcosa che mi tocca davvero? Provo passione per un certo obiettivo o lo vivo come uno dei tanti momenti che mi tocca fare, o un momento obbligato? Lo sento importante per i miei valori?  Quanto? Voglio davvero vedere quel risultato finale raggiunto? Mi attiva emotivamente l’immagine di un certo risultato? La situazione che voglio si produca è davvero importante per me? O è un risultato più o meno burocratico, che non mi cambia la vita, che non mi attiva veramente? Denominiamo qui le emozioni verso l’obiettivo emozioni alfa.

Le emozioni che provo per le azioni necessarie (operations), le attività quotidiane, o i singoli step di un percorso. Mi annoiano le operazioni intermedie e vorrei solo vedere il risultato finale raggiunto? Provo invece piacere dell’azione, gusto del fare e dell’agire? Le operations mi annoiano o mi energizzano, le vorrei saltare o “guai a chi me le toglie”? Denominiamo qui le emozioni che accompagnano l’azione emozioni beta.

Il senso che le emozioni Alfa, quelle verso il lo scopo finale,  è ben espresso nella seguente metafora:

‎”Se vuoi costruire una nave non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi;

non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro…

Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare

lontano e sconfinato.

Appena si sarà risvegliata in loro questa sete

si metteranno subito al lavoro per costruire la nave”.

(Antoine-Marie-Roger de Saint Exupéry)

Il leader o motivatore che  riesce a far visualizzare e apprezzare il risultato finale atteso, potrà generare motivazione autonoma.

Questa è una delle due strade.

Immaginiamo un vetraio di Murano, a Venezia, intendo nel produrre bicchieri artistici. Quanto è importante per lui arrivare a fine giornata ad avere prodotto X bicchieri (emozioni alfa)? Quanto sono importanti il gesto del produrre il bicchiere, del soffiare dentro alla cannuccia, del vedere il bicchiere prendere forma? Sono attività di per se gratificanti (emozioni beta)?

O ancora, esaminiamo il lavoro di un pittore. È mosso dal piacere di usare la tela e i colori, dall’idea di trovare un luogo o soggetto che lo ispira, o ogni singola attività gli è di peso e vorrebbe vedere il quadro finito prima possibile?

Ogni artista vive in modo diverso sia l’effetto da produrre (il quadro) che il modo di produrlo (le operations).

Le sfumature in questo campo sono molteplici.

Anche un pilota di aereo intento in una missione di salvataggio vive due momenti emotivi: sia voler vedere raggiunto un certo risultato strategico finale a cui contribuisce con la sua missione (salvare la persona), oppure essere ammaliato dal piacere del volare, energizzato dalle operazioni di volo, dall’adrenalina dell’azione, al di la degli effetti che l’azione avrà (essere parte di un processo).

Possiamo avere persino casi in cui non interessi assolutamente il perché della missione (emozioni alfa azzerate) ma interessi unicamente il fatto di farla bene, il piacere che si prova durante,  la totale gratificazione che accompagna il gesto (emozioni beta massimizzate).

Io non mi sono mai sentita tanto viva come dopo una battaglia dalla quale sono uscita viva e indenne. […]

È dopo aver vinto quella sfida che ti senti così vivo.

Vivo quanto non ti senti nemmeno nei momenti più ubriacanti di gioia o nei momenti più travolgenti d’amore.

Oriana Fallaci, da Accetto la morte ma la odio, 2006

Chi ha praticato boxe o arti di combattimento lo sa bene. Usciti dal ring e dopo una doccia sembra di avere un’altra occasione per vivere. Sembra che il mondo, prima ostile, sia diventato un posto migliore. Questa è una delle gratificazioni maggiori di chi fa sport estremi.

Ma entriamo nel mondo del lavoro, analizziamo le performance di un venditore: le emozioni alfa si attivano nel volere fortemente il risultato finale (vedere la vendita conclusa), le emozioni beta si attivano quando il venditore è emotivamente e positivamente coinvolto nella trattativa di vendita, nella strategia di preparazione, vede le trattative  in sé come attività comunicativa e persuasiva interessante, come relazione di aiuto, o come sforzo di condivisione, o come esercizio di tattica e strategia, come sfida con se stesso, o come palestra del proprio stato o condizione mentale (attivazione delle emozioni beta).

Lo stesso per uno scrittore: siamo attivati unicamente dall’idea di vedere il libro finito, o si prova piacere nello scrivere? Se nessuna delle due aree attiva la persona, non avremo mai uno scrittore compiuto. E  non avremo mai un buon libro.

Trattare di performance, di effetti da produrre, e di operazioni tattiche, tocca inevitabilmente il fronte delle emozioni soggettive.

Posso avere emozioni alfa plurime – più di una motivazione – verso la meta, ed emozioni beta plurime – più di una sensazione positiva collegata all’azione.

Per esempio, un formatore può avere emozioni alfa plurime se è interessato al compenso economico del suo lavoro, ma anche al vedere un corso terminato, e ad avere trasmesso bene i concetti che voleva lasciare. Allo stesso tempo può avere emozioni beta plurime: il piacere di avviare un contatto umano ad inizio attività, il piacere di vedere le persone all’opera durante, il gusto di un lavoro che scorre fluido e con un clima positivo.

Così come si arrabbierà quando qualcuno si comporta con maleducazione verso il formatore, verso altri studenti e verso la sacralità del momento formativo. E glielo dirà. Senza paura.

Agirò senza paura ogni volta in cui vorrò dire qualcosa in cui credo…

Daniele Trevisani

Copyright © dal libro Self-power. Psicologia della motivazione e della performance, con note inedite dell’autore, Copyright ©

Dr. Daniele Trevisani - Formazione Aziendale, Ricerca, Coaching