Articolo Copyright, autore: Fabio Artigiani, dal volume “Un counselor a fagiolo. Dalla semina alla crescita“, Aracne editrice, 2012.

codenamebluemeetingbwL’abito mentale delle performance, lo spirito guerriero nella vita di ogni giorno (lezioni dai Samu­rai)

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Da dove viene il disagio che questa Terra si porta appresso? E più in particolare, come si articola l’attuale drammatico legame generazionale tra adulti e giovani, fatto  spesso di incomprensione da un lato e disadattamento dall’altro? E in che modo il counseling si inserisce in queste dinamiche?

1. – Etica, responsabilità, politica

L’avvicinamento tra adulti e giovani, oggi è quanto mai necessario ed urgente. Ai primi è chiesta una presa di conoscenza, coscienza e responsabilità dell’eredità che stanno lasciando ai propri figli. I giovani cercano invece di comunicare il proprio disagio attraverso il rifiuto, la protesta, la dissacrazione, in un distruggere che è atto creativo, come arma di salvezza di un’autenticità sempre più repressa da stili di vita solipsistici, rinchiusi in teche al plexiglass, neon e smog.

Gli uomini di scienza sono perciò chiamati ad una analisi profonda del malessere imperante come sintomo di disagio evolutivo e di disadattamento esistenziale di massa, in quest’epoca definita decadente, dove il trascendere, l’ideologia, lo sforzo creativo sono terreni lasciati sempre più incolti per far spazio alla banalizzazione, alla serializzazione, all’ostentazione della quantità, alla monetizzazione, al consumismo, all’estetica. Questi terreni fanno crescere identità effimere e pericolosamente illusorie, favorendo la discrepanza tra mondo reale e irreale, proiettando il piano esistenziale verso una condizione egoistica, dove c’è sempre meno spazio per le emozioni e per l’empatia.

2. – Darsi un tempo

La ricerca della performance a tutti i costi ha ristretto il tempo che dedichiamo agli scambi affettivi inter ed intrapersonali: spendiamo le nostre ore alla ricerca del successo e dell’accettazione spasmodica, inseguendo quel piacere effimero e compensatorio che eccita il nostro ego, lasciando che esso debordi oltre i confini della salute.

In questa palude di superficialità, si allarga sempre più la propensione alla cura estetica: l’apparire cattura sempre più terreno rispetto all’essere, al sentire. Questo favorisce la creazione di patologie indirizzanti verso l’organizzazione di tipo narcisistico delle personalità, di vuoti affettivi, di relazioni problematiche con il proprio corpo, di alexitimie striscianti.

Anche la tecnologia ha un ruolo determinante (o ne è un sintomo?) in questa corsa verso l’alienazione da se stessi: l’andamento evolutivo tecnologico molto velocizzato crea una discrepanza sempre più marcata con l’andamento evolutivo psichico che non riesce a stargli dietro. Alla psiche serve un tempo per l’adattamento alle nuove tecnologie. Si può pensare che un habitat iper-tecnologico è fine a se stesso e non promuove alcuna specie in grado di  sopravvivere.

A tal proposito, vorrei citare Carl Gustav Jung:

«Le nostre anime, come i nostri corpi, sono composte di elementi individuali che erano già presenti nella catena dei nostri antenati. La «novità» della psiche individuale è una combinazione variata all’infinito di componenti antichissime. Il corpo e l’anima hanno perciò un carattere eminentemente storico e non si trovano a loro agio in ciò che è appena sorto, vale a dire, i tratti ancestrali si trovano solo in parte a casa loro. Siamo ben lungi dall’aver lasciato dietro di noi il medioevo, l’antichità classica e l’età primitiva, così come pretenderebbe la nostra psiche. Siamo invece precipitati nella fiumana di un progresso che ci proietta verso il futuro con una violenza tanto maggiore quanto più ci strappa dalle nostre radici. Ma se si apre una breccia nel passato esso per lo più crolla, e non c’è più nulla che trattenga. Ma è proprio la perdita di questo legame, la mancanza d’ogni radice, che genera tale «disagio della civiltà» e tale fretta che si finisce per vivere più nel futuro e nelle sue chimeriche promesse di un’età dell’oro che nel presente, a cui del resto la nostra intima evoluzione storica non è neppure ancora arrivata. Ci precipitiamo sfrenatamente verso il nuovo, spinti da un crescente senso di insufficienza, di insoddisfazione, di irrequietezza. Non viviamo più di ciò che possediamo, ma di promesse, non viviamo più nella luce del presente, ma nell’oscurità del futuro, in cui attendiamo la vera aurora. Ci rifiutiamo di riconoscere che il meglio si può ottenere solo al prezzo del peggio. La speranza di una libertà più grande è distrutta dalla crescente schiavitù allo stato, per non parlare degli spaventosi pericoli ai quali ci espongono le più brillanti scoperte della scienza. Quanto meno capiamo che cosa cercavano i nostri padri e i nostri antenati, tanto meno capiamo noi stessi, e ci adoperiamo con tutte le nostre forze per privare sempre più l’individuo delle sue radici e dei suoi istinti, così che diventa una particella della massa, e segue solo ciò che Nietzsche chiama lo «spirito di gravità». I miglioramenti che si realizzano col progresso, e cioè con nuovi metodi o dispositivi, hanno una forza di persuasione immediata, ma col tempo si rivelano di dubbio esito e in ogni caso sono pagati a caro prezzo. In nessun modo contribuiscono ad accrescere l’appagamento, la contentezza, o la felicità dell’umanità nel suo insieme. Per lo più sono addolcimenti fallaci dell’esistenza, come le comunicazioni più veloci che accelerano il ritmo della vita e ci lasciano con meno tempo a disposizione di quanto non ne avessimo prima. Omnis festinatio ex parte diaboli est: tutta la fretta viene dal diavolo, come erano soliti dire i vecchi maestri.»

In questo mondo pensiamo molto a rincorrere la prestazione ottimale, negli ambiti più disparati: dal lavorativo al sentimentale, da quello dell’amicizia a quello sociale, ecc. Questa corsa spesso ha come obiettivo il sentirsi accettati da una società, da un gruppo, da una famiglia.

Il pensiero che chi ha meno capacità di noi non merita meno di noi, è, sì, difficile da digerire, ma anche estremamente importante per ritrovare un senso di sé che non passi da un nostro agire, ma da un nostro essere.

Il counseling può inserirsi in tutto ciò fin qui descritto, favorendo un miglior dialogo introspettivo, incentivando comportamenti che mirino ad un miglior equilibrio tra esteriorità e interiorità, promuovendo la cultura del “diverso da noi”, come risorsa per conoscerci meglio ed avere perciò una qualità di vita più soddisfacente. Senza ovviamente perdere di vista il contesto quotidiano con il quale interagiamo.

3. – “Senza qualcuno nessuno può diventare un uomo” (dalla canzone “I Bambini fanno oh!” di Povia)

L’habitat primario dell’uomo è l’uomo.

Perciò “l’altro” entra giocoforza nella nostra dimensione individuale, facendone da cardine per la nostra autonomia, che non può fare a meno dello scambio con altre entità, della costruzione dei legami, dell’accettazione di un diverso che non può mai essere uguale, semmai affine, e che ci costringe in qualche modo al confronto, al di là della nostra volontà. L’autoregolazione, l’autoreferenzialità, l’autoformazione, portano invece l’identità ad un’autocostruzione illusoria e priva di confronto, di scambio con il mondo esterno, di critiche, di giudizi, priva di significato, in sostanza, imperniata su un sé distorto, ideale, irreale, solo. La perdita della capacità di riconoscimento ed accettazione dell’altro porta alla perdita della capacità di introspezione, di indagine nella propria natura intima e profonda.

Noi siamo quel che siamo a patto che gli altri ci riconoscano come tali.

E questo è tanto più importante quando gli “altri” sono persone all’interno del contesto familiare, all’interno dell’ambiente di sostegno.

4. – “L’uccisione di Babbo Natale” (F. De Gregori)

La figura di Babbo Natale ha da sempre rappresentato un gioco simbolico fantastico e divertente, che coinvolgeva adulti e bambini in una sorta di recita collettiva.  Questo gioco forniva calore, accoglienza, vicinanza e relazione, caratteristiche un po’ di tutti i “racconti del focolare”, magari narranti fatti reali, di vicende personali o non, che davano la possibilità al bambino di sentirsi parte della storia familiare in cui inserirsi e crescere.

L’utilizzo di televisione, del computer, perfino della lettura in un ambito svuotato però di relazione, in solitudine, cioè, uccide Babbo Natale, il simbolo, svuotandolo di significato, di esseri viventi, per riempirlo illusoriamente di virtuali entità perfette che in paragone rendono la realtà deludente e fuggibile.

Si riduce così lo spazio di cui la coscienza ha bisogno per far nascere e rivitalizzare i simboli.

Occorre, poi, fare attenzione a non confondere delle rappresentazioni piene e feconde come quella di Babbo Natale e della costruzione fantastica che ne segue all’interno del contesto familiare, con altre che possono sembrare simili, come alcuni moderni personaggi dei cartoni animati o dei telefilm, veicolati dalla televisione. Non è tanto la modernità che ne fa dei non-simboli, quanto la loro sterilità nella capacità di creare vicinanza tra adulti e bambini, interazione, prolificità immaginifica, esercizio nella fantasia. Anche quando questi non-simboli si rifanno più o meno esplicitamente ai miti, restano delle narrazioni che possono avere in sé anche delle valenze pedagogiche indiscutibili ed efficaci, istruttive, ma che non lasciano lo spazio necessario, come detto, al lavoro di costruzione di quegli itinerari personali che rendono la storia e i loro personaggi unici e perfetti per la mente che li ha partoriti, finanche all’interno di un racconto esterno. Creano, anzi, una “forzatura” nella mappatura della propria fantasia, della propria capacità di costruire immagini e storie, della connessione, in definitiva, tra i propri desideri e la possibilità di creare strategie opportune per realizzarli, che può provocare un’induzione di abilità illusorie e di un conseguente illusorio loro uso nella realtà, oppure un oscuramento di abilità reali illusoriamente nascoste. È evidente come questo allontani dall’autenticità delle nostre volontà e del nostro essere, lasciando che altri ne possano manipolare, più o meno volontariamente, le sorti e le destinazioni.

È difficile nascondersi come il modo che abbiamo scelto per far funzionare la nostra società sia contrario molto spesso e sempre più in profondità alla nostra dimensione umana, alla nostra salute, ai nostri figli: perciò il concreto lavorare in direzione contraria passa dall’espletamento della professione di Counselor, per aiutare con pala, catrame e sudore al sole, a costruire le strade di altri, sempre più forti e belle, nella convinzione che così si impari a rendere più bella e forte anche la propria. Il nostro senso di vita non può esulare dai sensi di vita degli altri, dai contesti degli altri che per noi diventano nell’insieme IL contesto.

Il dileguarsi dietro il conformismo è una scelta che molti operano senza avere gli strumenti per fare altro. Il Counselor lavora quindi per contribuire all’accrescimento di strumenti interni atti alla ricerca dell’autenticità, autenticità che possiamo pensare come una sorta di figura che ci dice cosa vogliamo davvero e che possiamo raggiungerlo in una certa misura, che ci dice che noi andiamo bene come siamo, che ci accudisce, che ci ama. E che fa parte di noi.

Per crearsi, per lasciare il nostro sé libero da costrizioni e gabbie, per individuarsi, per riscoprirsi, per scoprirsi, per abbracciarsi e abbracciare, occorre tempo, che, essendo un costrutto mentale del tutto umano, possiamo rimodellare sopra le nostre necessità di vita, a forma di un destino che nasca dalle nostre mani.

5. – FARMACI E COUNSELING

L’insorgenza di malattie nasce anche dalle dinamiche negative che abbiamo fin qui descritto. Come rimedio utilizziamo spesso i farmaci, una risposta immediata ad un evento critico. L’utilizzo ha una sua caratteristica utilità: resta però il rischio che poi non si cerchi di contestualizzare il sintomo bersaglio del farmaco secondo un ottica olistica che prenda in esame l’individuo come interagente con un ambiente ecologico, affettivo, relazionale. Secondo questo ultimo punto di vista, infatti, la causa del sintomo viene vista anch’essa come sintomo, andando a ricercare l’agente della malattia o del disagio anche nel disequilibrio tra la parte interna dell’individuo e l’ambiente che lo circonda, il modo in cui egli lo vive, il modo con cui vi si relaziona. In questa visione psicosomatica, si inserisce appieno la figura del Counselor, che da professionista della relazione d’aiuto accompagna e sostiene il singolo o il gruppo verso lo sviluppo di una maggiore consapevolezza della propria esistenza e dei ruoli che ha e che si è proposto. Il Counselor può incidere positivamente nelle dinamiche sociali di cui abbiamo parlato sin qui. Attraverso la Promozione della Salute,  poi, può facilitare la diffusione del concetto per cui il proprio benessere non è solo un bene statico da preservare, ma una condizione psico-fisica da conquistare, sollecitare, curare quotidianamente.

8. – Antropocene

Qual è il destino per l’uomo? Allargando l’orizzonte, non possiamo che porci questa domanda.

Paul Crutzen, chimico olandese vincitore del premio Nobel, definisce la nostra epoca “antropocene”, cioè l’era dell’uomo. Significa che ormai la nostra razza ha lasciato e lascerà un impatto sul pianeta che rimarrà stratificato a livello geologico nei millenni a venire. I sette miliardi di abitanti di questo pianeta hanno quindi un compito fondamentale per la prosecuzione della specie umana: cercare di fare marcia indietro sull’inquinamento (acidificazione dei mari, effetto serra, surriscaldamento globale, emissioni di CO2, ecc.) e acquisire una mentalità ecologica che faccia scaturire comportamenti sostenibili, soprattutto attraverso i consumi consapevoli, in campo alimentare (meno carne), in campo energetico (scegliere fonti alternative non inquinanti), nella scelta di materiali riciclati in ogni settore (dal confezionamento al tessile, dalla cartotecnica all’industria plastica, ecc.), nell’uso parsimonioso dell’acqua e, in generale, in ogni cosa riguardi il nostro quotidiano.

Il Counseling ed in generale la professionalità nella relazione d’aiuto non può perdere di vista il contesto ecologico in cui un individuo si muove. La ricerca delle aspirazioni personali che un professionista si trova a facilitare nel cliente, non può prescindere dalle responsabilità individuali di cui ogni abitante di questa Terra dovrebbe farsi carico. Ovviamente non si tratta di assumere il ruolo di “guardiano ecologico”, ma di acquisire in primis nel proprio profondo una capacità relazionale con l’ambiente naturale che ci ospita, in modo da spenderla soprattutto come “specchio” nella relazione d’aiuto.

Nella prospettiva del futuro dell’uomo, è quindi necessario il crearsi di un fertile legame tra il nostro ambiente e la nostra mente, che possa rasserenarci e purificarci almeno un poco, possa migliorare la qualità della nostra vita psichica e poi somatica.

In definitiva, ci faccia sentire parte di una Madre Terra, di una Pacha Mama.

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Articolo Copyright, autore: Fabio Artigiani, dal volume “Un counselor a fagiolo. Dalla semina alla crescita“, Aracne editrice, 2012.

Author

Formatore e Coach su temi di Sviluppo del Potenziale Personale, Comunicazione Interculturale e Negoziazione Internazionale, Psicologia Umanistica. Senior Expert in HR, Human Factor, Psicologia delle Performance, Comunicazione e Management, Metodologie Attive di Formazione e Coaching.

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